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Incidenza in calo, sale invece l'indice di trasmissibilità Covid in Italia. E' quanto emerge dal monitoraggio della Cabina di regia Iss-ministero della Salute.
E' "in lieve diminuzione" l'incidenza settimanale del Covid in Italia: a livello nazionale è pari a 45 casi ogni 100mila abitanti (nel periodo 24 febbraio-2 marzo), contro 48 ogni 100mila abitanti (17-23 febbraio, dato definitivo relativo al monitoraggio della scorsa settimana), evidenzia l'Istituto superiore di sanità .
Sale invece l'indice di trasmissibilità Covid in Italia. Nel periodo 8-21 febbraio, l'Rt medio calcolato sui casi sintomatici "è stato pari a 0,94 (intervallo 0,85-1,12), in aumento rispetto alla settimana precedente", quando era a 0,91, "ma ancora sotto la soglia epidemica".
"L'indice di trasmissibilità basato sui casi con ricovero ospedaliero è in lieve aumento ma rimane sotto la soglia epidemica: è stato pari a 0,97 (0,92-1,02) al 21 febbraio, contro il dato precedente di 0,93 (0,88-0,98) al 14 febbraio", evidenzia l'Iss.
Stabile il numero dei ricoverati Covid nei reparti ordinari degli ospedali d'Italia, e lievissima variazione nelle terapie intensive. Nel dettaglio, "il tasso di occupazione in terapia intensiva è all'1,4% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 2 marzo) contro l'1,3% (rilevazione giornaliera al 23 febbraio)". Mentre "il tasso di occupazione in aree mediche a livello nazionale" risulta "stabile al 5,2% (rilevazione al 2 marzo)", stessa quota rispetto a quella rilevata al 23 febbraio, nel monitoraggio della settimana scorsa.
Questa settimana nessuna regione o provincia autonoma italiana è classificata a rischio alto per Covid. "Dieci sono a rischio moderato ai sensi del Dm del 30 aprile 2020 e 11" risultano "a rischio basso", sottolinea l'Istituto superiore di sanità (Iss) riportando i dati principali del monitoraggio della Cabina di regia Iss-ministero della Salute su Covid. Sono 15 le Regioni/Province autonome che riportano almeno un'allerta di resilienza e 4 quelle che riportano molteplici allerte di resilienza.
Tra le 10 regioni/pa a rischio moderato - secondo quanto emerge dalla tabella che riporta la valutazione complessiva di rischio, e che l'Adnkronos Salute ha potuto visionare - c'è la Calabria, per la quale viene segnalata un'alta probabilità di progressione nel livello di rischio. E poi l'Emilia-Romagna, la Liguria, le Marche, il Piemonte, la provincia autonoma di Trento, la Puglia, la Toscana, la Valle d'Aosta, il Veneto.
Sono classificate a rischio basso invece le rimanenti: Abruzzo, Basilicata, Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Molise, provincia autonoma di Bolzano, Sardegna, Sicilia e Umbria.
Nei 28 giorni dal 30 gennaio al 26 febbraio, a livello globale sono stati registrati circa 4,8 milioni di contagi e oltre 39mila decessi, pari rispettivamente a -76% e -66%, rispetto ai 28 giorni precedenti.
Al 26 febbraio scorso, da inizio pandemia sono oltre 758 milioni i casi confermati e oltre 6,8 milioni le morti. E' quanto emerge dal bollettino diffuso dall'Organizzazione mondiale della sanità. Rispetto ai report delle scorse settimane sembra frenare la discesa dei contagi in Europa, con un -7% contro i cali a due cifre sostenute degli ultimi bollettini.
L'Oms ribadisce che "le tendenze attuali sono sottostime del numero reale di infezioni e reinfezioni" da Sars-CoV-2, "come mostrano le indagini sulla prevalenza. Questo è in parte dovuto alla riduzione dei test e ai ritardi nella segnalazione in molti Paesi. I dati presentati possono essere incompleti e pertanto dovrebbero essere interpretati con cautela", avverte l'agenzia ginevrina che, nel monitorare le variazioni delle tendenze epidemiologiche, effettua ormai i confronti su intervalli di 28 giorni perché "questo aiuta a tenere conto dei ritardi di segnalazione, ad appianare le fluttuazioni settimanali nel numero di contagi e a fornire un quadro più chiaro rispetto a dove la pandemia sta accelerando o decelerando".
A livello regionale, negli ultimi 28 giorni i nuovi casi sono diminuiti in tutte le 6 regioni Oms (-89% Pacifico occidentale, -53% Africa, -38% Americhe, -36% Sudest asiatico, -22% Mediterraneo orientale e -7% Europa); le nuove morti sono scese in 5 regioni (-84% Pacifico occidentale, -66% Africa, -57% Sudest asiatico, -44% Europa e -22% Americhe), mentre sono aumentate del 18% nel Mediterraneo orientale. Per l'Italia, sempre negli ultimi 28 giorni, l'Oms riporta un calo del 40% nel numero di decessi.
Negli ultimi 28 giorni il numero più alto di nuovi casi Covid è stato segnalato Stati Uniti (1.085.170, -29%), Giappone (752.935, -77%), Cina (537.561, -95%), Germania (376.450, +6%) e Repubblica di Corea (349.277, -66%), mentre per decessi riportati in testa ci sono Usa (12.111, -17%), Cina (5.915, -91%), Giappone (4.818, -52%), Brasile (2.186, -24%) e Regno Unito (2.027, -48%).
Per la regione europea, il report Oms indica negli ultimi 28 giorni oltre 1,4 milioni di contagi e 9.784 morti. Quattordici Paesi hanno registrato aumenti del 20% o più dei nuovi casi, con gli incrementi più elevati riportati da Moldavia (+314%), Polonia (+281%) e Armenia (+170%). Il numero più alto di nuovi contagi è stato segnalato da Germania (376.450, 452,6/100mila, +6%), Federazione Russa (314.716, 215,7/100mila, +133%) e Austria (124.999, 1.404,3/100mila, +86%), mentre in testa per nuove morti ci sono Regno Unito (2.027, 3/100mila, -48%), Italia (1.190, 2/100mila, -40%) e Federazione Russa (1.051, meno di 1/100mila, -14%).
Secondo un articolo pubblicato dal Wall Street Journal il Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti ha recentemente aggiornato la propria valutazione su come è emerso il nuovo coronavirus Sars-Cov-2, responsabile della pandemia: mentre il dipartimento in precedenza si era detto indeciso sulla questione, ora ritiene che la teoria della fuga dal laboratorio sia la spiegazione più probabile.
Il dipartimento ha condiviso la valutazione aggiornata in un rapporto di intelligence riservato fornito alla Casa Bianca e ai principali legislatori, secondo il WSJ. Il dipartimento si unisce all'FBI nel sostenere questa teoria mentre altre quattro agenzie e un gruppo di intelligence nazionale ritengono che il virus sia emerso attraverso la trasmissione naturale mentre due sono indecisi, sottolinea la testata USA .
L'origine della pandemia è stata oggetto di accesi dibattiti per anni. Il coronavirus circolava a Wuhan, in Cina, alla fine del 2019. La città è nota per avere una serie di laboratori, tra cui il Wuhan Institute of Virology, il Chinese Center for Disease Control and Prevention e il Wuhan Institute of Biological Products, ed era considerato il centro della ricerca cinese sul coronavirus, con molti dei suoi laboratori ampliati o costruiti, dopo l'epidemia di SARS nei primi anni 2000.
"Sono anni che si prova ad investire sui vaccini spray. E se si dovesse riuscire contro il Covid, saremmo tutti contenti. Ma il discorso è sempre lo stesso: abbiamo avuto 4 vaccini in 12 mesi quando qualche governo ha messo 15 miliardi di euro sul tavolo facendo appello alle migliori menti per un obiettivo. Se l'Organizzazione mondiale della sanità riesce a fare questo, avremo più probabilità di avere uno strumento che mette d'accordo tutti".
E' questa la riflessione di Guido Rasi, ex direttore esecutivo dell'Agenzia europea del farmaco Ema, in merito all'appello dell'Oms a puntare proprio sui vaccini mucosali per continuare a vaccinare contro il virus pandemico. "Dobbiamo capire - spiega Rasi all'Adnkronos Salute - se l'indicazione dell'Oms è un'esortazione o un piano in cui si mettono risorse e si coagulano consensi politici e organizzativi. Se è un'esortazione, rispondo 'grazie, ma lo sapevamo già'. Se è un piano, dico 'ben venga'".
"I vaccini spray - sottolinea l'ex numero uno dell'Ema - sono un'ipotesi importante che si basa sulla nozione che la via di somministrazione può cambiare radicalmente gli effetti. Inoltre anche la gestione della salute pubblica, per i costi e le strutture, sarebbe infinitamente più vantaggiosa. Se l'Oms si sta facendo parte proattiva, sicuramente siamo tutti a bordo".
Il Covid è associato a un rischio maggiore di sviluppare disturbi gastrointestinali a lungo termine, inclusa la sindrome dell'intestino irritabile. A mostrarlo sono gli esiti di una ricerca -pubblicata sulla rivista Gut- guidata da studiosi dell'Università di Bologna e dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna-Policlinico di Sant'Orsola.
"I dati che abbiamo raccolto mostrano che chi ha contratto il Covid-19 presenta sintomi gastrointestinali più di frequente rispetto a chi non è stato colpito dal coronavirus", spiega Giovanni Barbara, professore ordinario al Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche dell'Università di Bologna e coordinatore dello studio. "Data l'elevata diffusione del Covid a livello globale, dobbiamo quindi aspettarci un aumento delle diagnosi legate ai disturbi dell'interazione intestino-cervello". Le infezioni virali possono colpire il sistema gastrointestinale e favorire in particolare lo sviluppo della sindrome dell'intestino irritabile: una condizione che tende ad essere cronica, caratterizzata da una serie di disturbi intestinali che interessano il colon, tra cui alterazioni della motilità intestinale, gonfiore e crampi addominali. Fino ad oggi però non era chiaro se anche l'infezione da coronavirus potesse portare a queste conseguenze. Gli studiosi hanno quindi realizzato un'indagine per valutare la prevalenza dei sintomi gastrointestinali e dei disturbi dell'interazione intestino-cervello nei pazienti ricoverati per infezione da SARS-CoV-2. Lo studio ha coinvolto 2.183 pazienti ospedalizzati in 36 strutture di 14 paesi: Italia, Bangladesh, Cipro, Egitto, Israele, India, Macedonia, Malesia, Romania, Federazione Russa, Serbia, Spagna, Svezia e Turchia.
I pazienti che avevano contratto il Covid sono stati valutati al momento del ricovero in ospedale e poi seguiti per i 12 mesi successivi, confrontando la loro condizione con quella di pazienti non contagiati dal coronavirus. I dati raccolti e le analisi realizzate dagli studiosi hanno così mostrato che i pazienti ricoverati per Covid hanno riportato più di frequente la presenza di sintomi gastrointestinali (59,3%)rispetto al gruppo di controllo (39,7%). E sono emerse più di frequente anche nuove diagnosi di sindrome dell'intestino irritabile, che sono risultate associate alla coesistenza di allergie, difficoltà respiratorie durante il ricovero per Covid e assunzione cronica di inibitori della pompa protonica (farmaci gastroprotettori che bloccano la produzione di acido nello stomaco).
Inoltre, a distanza di sei e di 12 mesi dall'ospedalizzazione, tra chi ha avuto il Covid-19 sono stati registrati livelli più alti di ansia e di depressione. "Sappiamo che il virus SARS-CoV-2 può infettare anche il tratto gastrointestinale e questo conferma la possibilità che il Covid possa portare allo sviluppo della sindrome dell'intestino irritabile", spiega Giovanni Marasco, ricercatore al Dipartimento di Scienze mediche e chirurgiche dell'Università di Bologna e primo autore dello studio. "Tracce del coronavirus sono infatti state trovate nell'intestino tenue anche a sei mesi di distanza dall'infezione: questo ci porta a credere che lo stato prolungato di infiammazione e di attivazione del sistema immunitario possa portare allo sviluppo dei sintomi gastrointestinali che sono stati osservati".
Il Covid danneggia il cuore e uno studio americano chiarisce come. Stress ossidativo, infiammazione, alterazione dei battiti, compromissione della funzione di pompa di sangue e ossigeno agli altri tessuti sono alcuni degli effetti che l'infezione da Sars-CoV-2 produce sull''organo motore' della macchina uomo.
A descriverli sono Andrew Marks, cardiologo e professore di biofisica alla Columbia University, e Steven Reiken, ricercatore del laboratorio di Marks, autori insieme ad altri colleghi di uno studio che sarà presentato a San Diego, in California, al 67esimo meeting annuale della Biophysical Societ .
La malattia Covid-19 può causare problemi cardiaci potenzialmente letali, spiegano i ricercatori. Gli studi suggeriscono che le persone con Covid, rispetto ai non infettati, corrono un rischio del 55% maggiore di subire un evento cardiovascolare grave come infarto, ictus o morte. Hanno anche più probabilità di manifestare altri problemi al cuore come aritmie o miocardite, ossia infiammazione del muscolo cardiaco. L'équipe di Marks ha cercato quindi di capire i meccanismi all'origine di questi disturbi.
Nel tessuto cardiaco di pazienti Covid, il team ha osservato un aumento dello stress ossidativo e segnali di infiammazione. I ricercatori hanno riscontrato delle modifiche in una proteina chiamata RyR2, responsabile della regolazione dei livelli di ioni calcio nel cuore. Un elemento, il calcio, di cui il cuore - come tutti gli altri muscoli - ha bisogno di contrarsi. In particolare, le 'vie del calcio' sono essenziali al cuore per la contrazione coordinata di atri e ventricoli. Quando l'equilibrio del calcio salta, possono insorgere aritmie o insufficienza cardiaca.
Per comprendere meglio la natura dei 'colpi' che Covid infligge al cuore, Marks e colleghi hanno utilizzato un modello di topo infettato da Sars-CoV-2. Hanno visto così cambiamenti nel tessuto cardiaco del roditore malato di Covid-19, tra cui infiltrazione di cellule immunitarie, accumulo di collagene indicativo di lesioni, morte di cellule cardiache e formazione di coaguli di sangue. Gli studiosi hanno inoltre misurato come mutava il proteoma cardiaco, l'insieme delle proteine ??espresse dalle cellule del cuore, evidenziando alterazioni con quelle osservate nei pazienti Covid umani, nonché marcatori di cardiomiopatia che possono rendere più difficile al cuore pompare il sangue al resto del corpo e possono perciò causare scompenso cardiaco.
"Più consapevolezza si guadagna intorno ai meccanismi specifici di una malattia, e più è probabile che si riesca a migliorare la cura dei pazienti", afferma Marks, sottolineando che "i medici dovrebbero essere consapevoli dei cambiamenti cardiaci legati alle infezioni Covid-19 e dovrebbero cercarli". Con le ricerche in corso, "vogliamo davvero capire cosa causa la malattia cardiaca" associata a Sars-CoV-2 "e come risolverla".
Comprendere i cambiamenti che Covid provoca a livello molecolare dentro al cuore può indicare bersagli farmacologici per riuscire ad alleviare i sintomi cardiaci correlati all'infezione, nonché aiutare gli operatori sanitari a diagnosticare e trattare questi problemi in modo più efficace. Inoltre, vederci più chiaro sulle complicanze cardiache di Covid-19 può aiutare i funzionari di sanità pubblica a prendere decisioni più informate su come rispondere alla pandemia, in maniera mirata ai gruppi a più alto rischio.
"Tre anni fa, proprio nel mio laboratorio, è stato diagnosticato il primo caso italiano di Covid-19. Sono stati tre anni lunghissimi", tre anni che hanno cambiato tutto: "La sensazione" di Maria Rita Gismondo, a capo del team che il 20 febbraio 2020 all'Ospedale Sacco di Milano scoprì la positività del 'paziente uno' di Codogno, nel Lodigiano, "è che sia passata veramente un'epoca".
Che sia finita un'era, che quel tampone abbia fatto da spartiacque fra un passato che uguale non tornerà più e un futuro da costruire facendo tesoro di ciò che è stato per non ripetere gli errori commessi. Lo dobbiamo venire "un ricordo a tutte le vittime", dice Gismondo all'Adnkronos Salute. Morti "che forse, ce lo auguriamo, la scienza un domani potrà evitare almeno in parte".
Dal test di Mattia Maestri, il 'caso 1' che svelò l'ingresso dell'epidemia di nuovo Coronavirus in Italia, sono passati "tre anni che ci hanno molto cambiato - riflette la direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze del Sacco - che ci hanno graffiato, fatto male, ma ci hanno anche insegnato qualcosa. Siamo adesso nel momento in cui potremmo raccogliere i frutti" di quanto abbiamo vissuto e sofferto, "perché nella prossima pandemia - auspica l'esperta - non si ripetano gli sbagli che sono stati fatti in questa, forse inevitabilmente".
Nella mente di chi, in una notte di tre anni fa, nel padiglione numero 62 del Sacco guardava incredulo l' esito di un test che si sarebbe abbattuto sul Paese come uno tsunami, il ricordo non sbiadisce. Oggi riaffiora uguale a com'era a poche settimane da quel giorno: "Sono passati tre mesi che sembrano 300 anni - diceva la microbiologa già il 21 maggio 2020 - Covid ci ha traghettato da un pianeta a un altro e ancora non sappiamo se sul pianeta di prima ci torneremo mai".
"Le campagne di vaccinazione contro il Covid-19 potrebbero svolgersi principalmente una volta all'anno e all'inizio dell'inverno. Stiamo discutendo con i partner internazionali i criteri e il processo per un aggiornamento dei vaccini"
. E' lo scenario prospettato da Marco Cavaleri, responsabile della strategia per le minacce sanitarie e i vaccini dell'Agenzia europea del farmaco Ema, che durante il periodico briefing per la stampa conferma la possibilità di adottare un 'modello influenza' per la vaccinazione anti-Covid.
Cavaleri ha quindi reso noto che "l'Ema è in contatto con gli sviluppatori di vaccini Covid-19 mucosali", spray nasali o da somministrare per bocca. "Siamo pronti a discutere i dati emergenti sui vaccini" di questo tipo "che sono già stati distribuiti in India e Cina".
Sottolineando che "la situazione epidemiologica in Europa è in costante miglioramento", l'esperto ha tuttavia incoraggiato i fragili alla vaccinazione. "Nel complesso i dati Covid mostrano un netto calo del numero di nuove infezioni, ricoveri e decessi e secondo l'Ecdc", Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, "sono ai livelli più bassi osservati nell'Ue negli ultimi 12 mesi".
Ma il "Covid-19 rappresenta ancora un onere significativo per i sistemi sanitari. La scarsa diffusione delle dosi di richiamo vaccinale tra i gruppi vulnerabili" all'infezione e alle sue conseguenze più gravi "è motivo di preoccupazione per la sanità pubblica". Per questo "incoraggiamo gli anziani, le donne in gravidanza e i pazienti immunocompromessi che non sono stati rivaccinati con un vaccino anti-Covid adattato" alle nuove varianti "a farlo".
KRAKEN - "I dati di sorveglianza hanno mostrato che la sottovariante chiamata XBB.1.5 si sta attualmente diffondendo molto rapidamente. Attualmente in Ue" questo ricombinante, battezzato Kraken sui social, "è presente a bassi livelli, tuttavia si prevede che diventerà dominante nelle prossime settimane". "Nonostante questa variante sembra non aver causato un carico eccessivo di malattia in altre regioni come il Nord America - ha proseguito - è importante non abbassare la guardia mentre il virus continua ad evolversi. Mentre accogliamo con favore le tendenze epidemiologiche positive nell'Unione europea, continuiamo dunque a monitorare la situazione molto da vicino".
Il New York Times vuole portare la Commissione europea in tribunale per non aver diffuso i messaggi che si sono scambiati la presidente Ursula von der Leyen e il Ceo di Pfizer, Albert Bourla.
Secondo il quotidiano, la Commissione ha l'obbligo legale di rendere pubblici i messaggi, che potrebbero contenere informazioni sugli accordi per l'acquisto di dosi di vaccino Covid-19 per miliardi di euro.
Il caso verrà discusso davanti alla Corte di giustizia europea, svela la testata giornalistica americana Politico, sulla base delle conferme di 2 persone informate dei fatti. Il caso è stato depositato il 25 gennaio e pubblicato lunedì nel registro pubblico della Corte di giustizia europea, ma online non sono ancora disponibili informazioni dettagliate.
Il New York Times ha preferito non commentare il caso, spiegando la sua posizione in un comunicato: "Avanziamo molte richieste di accesso a documenti di interesse pubblico. Non possiamo fare commenti al momento sul soggetto al centro della causa", riferisce Politico. No comment anche dalla Commissione europea.
La causa fa seguito a un'inchiesta del gennaio 2022 del Mediatore europeo Emily O'Reilly, che ha individuato una cattiva amministrazione nei tentativi della Commissione di recuperare originariamente i messaggi di testo, a seguito di una richiesta di accesso pubblico da parte del giornalista di netzpolitik.org Alexander Fanta . L'indagine del Mediatore ha rilevato che la Commissione non ha chiesto esplicitamente all'ufficio personale del Presidente di cercare messaggi di testo.
In risposta, V?ra Jourová, commissaria per i valori e la trasparenza dell'UE, ha affermato che i messaggi di testo potrebbero essere stati cancellati, a causa della loro "natura effimera e di breve durata".
Il quotidiano tedesco Bild aveva precedentemente intentato una serie di azioni legali contro la Commissione, chiedendo la divulgazione di documenti relativi alle trattative per l'acquisto dei vaccini COVID-19 effettuate da Pfizer/BioNTech e AstraZeneca.
"I dati dell'Istituto superiore di Sanità usciti oggi evidenziano che c'è una diminuzione dell'incidenza del Covid e che le ospedalizzazioni sono in calo, per cui si può dire che stiamo definitivamente uscendo dalla pandemia e possiamo guardare con ottimismo al futuro". Ha risposto così il ministro della Salute, Orazio Schillaci, intervistato questa mattina da 'RaiNews 24' a Sanremo.
Il tasso di occupazione in terapia intensiva è in lieve calo all'1,6% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 9 febbraio) vs il 1,8% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 2 febbraio). Il tasso di occupazione in aree mediche a livello nazionale scende al 5,4% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 9 febbraio) vs il 5,8%% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 2 febbraio). È quanto emerge dal monitoraggio della Cabina di regia Iss-ministero della Salute sul Covid-19. Nel periodo 25-31 gennaio 2023, l'Rt medio calcolato sui casi sintomatici è stato pari a 0,73 (range 0,64-0,91), in aumento rispetto alla settimana precedente ma sotto la soglia epidemica anche nel range superiore. L'indice di trasmissibilità basato sui casi con ricovero ospedaliero è in lieve aumento ma rimane sotto la soglia epidemica: Rt=0,85 (0,80-0,89) al 31/1/2023 vs.Rt=0,78 (0,74-0,83) al 24/1/2023.
Il documento evidenzia, invece, un calo dell'incidenza settimanale a livello nazionale: 52 ogni 100.000 abitanti (3/01/2023-9/02/2023) vs 58 ogni 100.000 abitanti (27/01/2023-2/02/2023). Due regioni sono classificate a rischio alto ai sensi del Dm del 30 aprile 2020, per molteplici allerte di resilienza. Sette sono a rischio moderato e dodici classificate a rischio basso. Dieci regioni/ppaa riportano almeno una allerta di resilienza. Sei regioni/ppaa riportano molteplici allerte di resilienza.
Nei pazienti con Covid-19 trattati con anticorpi monoclonali si può sviluppare una risposta antinfiammatoria specifica, che facilita il virus Sars-CoV-2 a sviluppare mutazioni evasive della proteina Spike.
Questo significa che il virus può sviluppare resistenza agli anticorpi monoclonali in maniera simile ai batteri, che sviluppano resistenze agli antibiotici. E' quanto emerso da uno studio, coordinato dall'Università di Verona, che ha portato allo sviluppo di un algoritmo, che identifica precocemente i pazienti nei quali il virus può sviluppare mutazioni.
La ricerca, condotta nell'ambito della collaborazione tra l'ateneo veronese e l'Università di Anversa, in Belgio, all'interno del progetto europeo 'Orchestra' e finanziata con fondi europei del programma Horizon 2020, è stata pubblicata in pre print su 'Journal of Clinical Investigation'. Gli anticorpi monoclonali - si spiega - riducono in maniera significativa il rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19 e vengono utilizzati nei pazienti ad alto rischio non vaccinati o immunocompromessi, affetti da neoplasie o sottoposti a trapianto. Gli anticorpi monoclonali forniscono, in questi pazienti, una risposta immunitaria rapida a una specifica variante di virus, che il singolo paziente non è in grado di sviluppare da solo. I ricercatori hanno ora scoperto che il trattamento potrebbe essere in grado di favorire mutazioni del virus Sars-CoV-2 come risposta alla sostanziale pressione immunitaria creata dal trattamento con monoclonali, congiunta alla risposta immunitaria del paziente.
Nello studio clinico condotto all'Università di Verona e guidato da Evelina Tacconelli, direttrice della sezione di Malattie infettive e coordinatrice del progetto Orchestra, sono stati studiati pazienti ad alto rischio di sviluppo di Covid-19 severo che hanno ricevuto una terapia con anticorpi monoclonali. L'analisi delle varianti virali, eseguita nel laboratorio di Microbiologia medica dell'Università di Anversa guidato da Surbhi Malhotra, mostra come nell'8% circa dei pazienti trattati con monoclonali il virus sviluppa mutazioni evasive della proteina Spike con notevole velocità. Mentre la maggior parte dei pazienti eliminano il virus nel tempo, i pazienti immunocompromessi hanno una carica virale significativamente più alta per periodi più lunghi e una probabilità 3 volte più alta che il virus sviluppi mutazioni evasive della proteina Spike.
Gli autori dello studio hanno quindi sviluppato un algoritmo in grado di predire con il 96% di precisione in quali pazienti è più alto il rischio di mutazioni evasive alla terapia con anticorpi monoclonali, usando una combinazione di esami immunologici misurati nel sangue del paziente prima dell'inizio della terapia con anticorpi monoclonali. "Lo studio fornisce dati innovativi utili nella selezione di pazienti ad alto rischio per trattamenti precoci", spiega Tacconelli, "e ci permette di mantenere alta l'efficacia dei monoclonali utilizzandoli solo nei pazienti che ne possono avere un beneficio. Riteniamo che l'utilizzo di monoclonali sulla base delle varianti circolanti e della corretta selezione dei pazienti da trattare riduce non solo la mortalità da Covid-19, ma anche il rischio di Long Covid".
"E' stato interessante scoprire che nello sviluppo delle mutazioni evasive non contano solo la capacità neutralizzante dei monoclonali e il sistema immunitario del paziente, ma anche l'intero processo di guarigione”, prosegue Samir Kumar-Singh, co-autore dello studio e direttore del gruppo di Patologia molecolare nel laboratorio di Biologia cellulare e Istologia dell'Università di Anversa, che ha supervisionato gli studi della risposta dell'ospite.
L'algoritmo sviluppato potrà aiutare nel prendere decisioni a livello del singolo paziente per ridurre il rischio di fallimento del trattamento con monoclonali, permettendo ai pazienti di ricevere altre opzioni terapeutiche, come ad esempio antivirali orali. L'applicazione dell'algoritmo potrà inoltre migliorare le strategie di riduzione del rischio, diminuendo la possibile circolazione di mutazioni evasive di Sars-CoV-2, specialmente tra contatti stretti ad alto rischio dei pazienti con Covid-19.
Nei 28 giorni dal 9 gennaio al 5 febbraio, a livello globale sono stati registrati quasi 10,5 milioni di nuovi contagi Covid e oltre 90mila morti.
Rispetto ai 28 giorni precedenti, "dominati da una grande ondata di contagi e decessi nella regione del Pacifico occidentale e in particolare in Cina", i casi segnano un -89% e le morti un -8%, riporta l'Organizzazione mondiale della sanità nel bollettino che diffonde settimanalmente. Al 5 febbraio scorso, da inizio pandemia sono oltre 754 milioni i contagi confermati e oltre 6,8 milioni i decessi.
L'Oms torna a precisare che "le tendenze attuali sono sottostime del numero reale di infezioni e reinfezioni" da Sars-CoV-2, "come mostrano le indagini sulla prevalenza. Questo è in parte dovuto alla riduzione dei test e ai ritardi nella segnalazione in molti Paesi. I dati presentati possono essere incompleti e pertanto dovrebbero essere interpretati con cautela", avverte l'agenzia ginevrina che, nel monitorare le variazioni delle tendenze epidemiologiche, ha deciso di effettuare i confronti su intervalli di 28 giorni perché "questo aiuta a tenere conto dei ritardi di segnalazione, ad appianare le fluttuazioni settimanali nel numero di contagi e a fornire un quadro più chiaro rispetto a dove la pandemia sta accelerando o decelerando".
A livello regionale, negli ultimi 28 giorni i nuovi casi sono diminuiti o rimasti stabili in tutte le regioni Oms (-92% Pacifico occidentale, -65% Sudest asiatico, -62% Europa, -43% Americhe, -27% Africa, -2% Mediterraneo orientale), mentre le nuove morti sono aumentate in tre regioni (+45% Mediterraneo orientale, +21% Africa, +14% Americhe) e diminuiti o rimasti stabili nelle altre tre (-61% Sudest asiatico, -38% Europa, -3% Pacifico occidentale). Per l'Italia, sempre negli ultimi 28 giorni, l'Oms riporta un calo del 66% per i contagi e del 40% per i decessi.
Negli ultimi 28 giorni il numero più alto di nuovi casi Covid è stato segnalato da Cina (3.485.265, -96%), Giappone (2.429.215, -42%), Stati Uniti (1.328.654, -27%), Repubblica di Corea (736.811, -59%) e Brasile (389.444, -59%), mentre per decessi riportati in testa ci sono Cina (40.812, -11%), Usa (15.294, +40%), Giappone (9.874, +28%), Regno Unito (2.671, -32%) e Brasile (2.566, -37%).
Per quanto riguarda l'Europa, il report Oms indica negli ultimi 28 giorni oltre 1,2 milioni di contagi e 13.652 decessi. Tre Paesi hanno registrato aumenti del 20% o più dei nuovi casi (Kosovo +131%, Georgia +65% e Montenegro +38%). Il numero più alto di nuovi contagi è stato segnalato da Germania (300.876, 361,8/100mila, -59%), Italia (187.023, 313,6/100mila, -66%) e Federazione Russa (169.762, 116,3/100mila, +5%), mentre in testa per nuove morti ci sono Regno Unito (2.671, 3,9/100mila, -32%), Italia (1.740, 2,9/100mila, -40%) e Francia (1.522, 2,3/100mila, -51%).
Il rischio di trombosi legato all’infezione COVID-19 è da 50 a 70 volte superiore a quello legato ai vaccini: la conferma viene dalla rivista Thrombosis Research, che ha appena pubblicato lo studio più ampio e completo coordinato dal Centro Cardiologico Monzino e dall’Università Statale di Milano, in collaborazione con l’Ospedale San Raffaele, sugli effetti di tutti i quattro vaccini utilizzati contro il Covid-19 sul nostro sistema emostatico.
“Il nostro studio TREASURE (ThRombotic risk aftEr AStrazeneca and pfizeR vaccinEs) pone fine alle discussioni fra esperti e ai dubbi della popolazione circa il nesso di causalità tra eventi trombotici e somministrazione dei vaccini anti COVID-19” - dichiara Marina Camera, coordinatrice dello studio, docente di Farmacologia dell’Università degli Studi di Milano e Responsabile dell’Unità di Biologia Cellulare e Molecolare Cardiovascolare del Centro Cardiologico Monzino. “I tanti studi precedenti su questo tema sono nati, giustamente, sull’onda dell’urgenza e nessuno è pertanto completo come Treasure. Va ricordato che i casi di trombosi, per quanto rari, a seguito della somministrazione del vaccino AstraZeneca, avevano seminato il panico nella popolazione, mettendo a rischio l’adesione alla campagna vaccinale, anche in assenza di dati scientifici consolidati. Per questo ad aprile dello scorso anno abbiamo raccolto l’invito delle Società Scientifiche Internazionali ad indagare i meccanismi di interazione fra cellule del sangue e vaccini, realizzando uno studio approfondito, i cui risultati potessero essere utili non solo per l’emergenza presente, ma anche per il futuro dei vaccini a mRNA”.
“Nel periodo Aprile – Luglio 2021” - spiega Marina Camera – “abbiamo arruolato 368 soggetti della popolazione generale di età compresa tra i 18 ei 69 anni, arruolati per il 50% attraverso una campagna media e social network e per il restante 50% fra il personale Monzino e Università Statale di Milano. Tutti i partecipanti stavano per ricevere la prima o la seconda dose di vaccino anti-COVID-19, sia a vettore virale (Astra Zeneca o Janssen) che a mRNA (Pfizer o Moderna) e per questo abbiamo intitolato il nostro articolo su Thrombosis Research “un confronto testa a testa” fra 4 vaccini. Ai partecipanti è stato effettuato un semplice prelievo di sangue il giorno prima e 8-10 giorni dopo la vaccinazione. Il nostro obiettivo era infatti quello di valutare il più esaustivamente possibile l’effetto dei diversi vaccini sui meccanismi emostatici dell’organismo.
Oltre all’attivazione piastrinica abbiamo studiato anche altri processi che intervengono nelle complicanze trombotiche, misurando biomarcatori specifici dell’infiammazione, dell’attivazione della coagulazione, e della disfunzione endoteliale per un totale di più di 30.000 determinazioni. In fase di analisi dei dati abbiamo tenuto anche in considerazione se aver contratto l’infezione prima della vaccinazione potesse in qualche modo influire sui risultati”.
“La nostra conclusione è che i quattro vaccini inducono una risposta infiammatoria temporaneanel nostro organismo ma nessuna attivazione piastrinica”, conclude il professor Armando D’Angelo, Responsabile del Servizio di Coagulazione e Unità Ricerca Trombosi del San Raffaele. “Le lievi alterazioni che abbiamo riscontrato nella coagulazione e nella funzionalità endoteliale potrebbero spiegare il leggero aumento degli eventi tromboembolici venosi verificatisi a seguito della vaccinazione. Siamo convinti che i nostri dati offrano una base solida per la programmazione e il successo delle prossime campagne vaccinali e contiamo che la scienza possa dissipare le paure che tengono la gente lontano dai vaccini, quando il loro utilizzo previene un rischio tromboembolico 50-70 volte maggiore proprio dell’infezione da COVID-19, perlomeno di quella causata dal virus circolante in Lombardia nel 2020”.
La variante Omicron di Sars-CoV-2 rappresenta la quasi totalità (99,97%) dei sequenziamenti. Il restante 0,03% è da attribuire a un ricombinante Delta/Omicron. BA.5 risulta predominante (87%), con 138 differenti sottolignaggi identificati (incluso il lignaggio parentale). Tra questi, BQ.1.1, ribattezzata Cerberus, ha raggiunto una frequenza del 38,9% (era 30,8% del precedente rapporto).
Si continua a osservare un incremento, sebbene moderato, nella proporzione di sequenziamenti attribuibili ai sottolignaggi CH.1.1 (Orthrus) e XBB.1.5 (Kraken). E' la fotografia scattata dal rapporto 'Prevalenza e distribuzione delle varianti di Sars-CoV-2 di interesse per la sanità pubblica in Italia' dell'Istituto superiore di sanità, con i dati di sequenziamento depositati in I-Co-Gen nelle ultime 6 settimane (19 dicembre 2022-29 gennaio 2023).
"Nell'attuale scenario è necessario continuare a monitorare, in coerenza con le raccomandazioni nazionali ed internazionali, la diffusione delle varianti virali circolanti nel Paese attraverso il sequenziamento dei campioni positivi per Covid-19", rimarca l'Iss.
Kraken e Orthrus, dunque, in Italia al momento sembrano non decollare. La proporzione di sequenziamenti attribuibili ai sottolignaggi CH.1.1 è pari al 2,2%, rispetto allo 0,6% del precedente bollettino, mentre la quota XBB.1.5 è dell'1,1% contro lo 0,05%.
Alterazioni del metabolismo cerebrale e possibile accumulo di molecole tossiche: secondo una ricerca coordinata dall’Università degli Studi di Milano, gli effetti del COVID si ripercuotono sulla memoria anche a distanza di un anno.
Questa è la conclusione a cui è giunto lo studio che ha valutato le conseguenze cognitive (memoria, attenzione, linguaggio…), il funzionamento del cervello e, in un caso, anche la deposizione di molecole tossiche nel cervello, in un gruppo selezionato di pazienti che a distanza di un anno dalla malattia lamentavano ancora disturbi e stanchezza mentale.
La ricerca, coordinata dal neurologo Alberto Priori, docente della Statale di Milano e frutto di una collaborazione tra il Centro “Aldo Ravelli” dell’Università degli Studi di Milano, l’ASST Santi Paolo e Carlo e l’IRCCS Auxologico, è stata condotta da un team di neurologi, psicologi e medici nucleari e appena pubblicata su Journal of Neurology.
Lo studio ha selezionato sette pazienti che presentavano persistenti disturbi cognitivi rilevati da specifici test neuropsicologici 1 anno dopo il COVID, disturbi mai lamentati prima del COVID. Questo gruppo di pazienti è stato esaminato poi con la metodica di tomografia ad emissione di positroni (PET) usando come marcatore il glucosio legato ad un isotopo radioattivo. Tale metodica consente di valutare quanto una specifica zona del cervello o del tronco encefalico è attiva.
Tutti i pazienti presentavano test neurologici alterati: in particolare, quattro pazienti presentavano disturbi cognitivi oggettivati da test neuropsicologici ma PET normali mentre tre pazienti avevano disturbi cognitivi con test neuropsicologici e PET alterati.
In tre dei quattro pazienti con persistenti alterazioni cognitive, la PET ha mostrato un ridotto funzionamento delle aree temporali (sede della funzione della memoria), del tronco encefalico(sede di alcuni circuiti che regolano l’attenzione e l’equilibrio) e nelle aree prefrontali (che regolano l’energia mentale, la motivazione e, in parte, il comportamento). In uno di questi pazienti che presentava un disturbo cognitivo più grave è stata anche eseguita anche una PET con una sostanza che permette di visualizzare la deposizione di amiloide nel cervello.
“L’amiloide è una proteina che quando si accumula nei neuroni ne determina l’invecchiamento precoce e la degenerazione e che è implicata nella malattia di Alzheimer. Ebbene nel paziente esaminato la PET ha rilevato un abnorme accumulo di amiloide nel cervello e particolarmente nei lobi frontali e nella corteccia cingolata (legate a funzioni cognitive complesse ed alle emozioni)”, sottolinea Luca Tagliabue, direttore della divisione di Medicina Nucleare e Radiodiagnostica dell’ASST-Santi Paolo e Carlo.
Le conclusioni che si possono trarre sono che in poco meno della metà dei pazienti, che lamentano disturbi di memoria e concentrazione a distanza di un anno dal COVID possono esserci alterazioni di funzionamento delle aree cerebrali temporali, frontali e del tronco dell’encefalo. L’osservazione dell’aumento di amiloide in un paziente, riportata per la prima volta in questo studio, potrebbe essere in relazione all’infezione oppure all’innesco da parte dell’infezione della cascata neurodegenerativa. Questo dato impone che dovrà essere valutato da futuri studi se la pregressa infezione da Sars-Cov-2 ed il COVID potranno determinare in futuro un aumentato rischio di malattie neurodegenerative.
“Oltre la metà dei pazienti esaminati, pur lamentando ancora disturbi cognitivi (memoria, attenzione e “nebbia” mentale), avevano una PET normale. Questo dato suggerisce che i disturbi cognitivi che persistono ad un anno dalla malattia in più della metà dei casi non hanno un riscontro funzionale sul cervello ma possono derivare da modificazioni di tipo esclusivamente psicologico analoghe al disturbo postraumatico da stress”, afferma Roberta Ferrucci, docente di psicobiologia dell’Università Statale Milano.
“Questo studio offre un ventaglio di ipotesi interpretative del danno post-COVID e pone le basi per una valutazione diversificata del paziente nel lungo termine. I processi neurodegenerativi potrebbero anche innestarsi post-infezione in casi selezionati secondo diverse vie patogenetiche e questa, ovviamente, è la domanda principale che ci poniamo: possiamo attenderci nel futuro patologie neurodegenerative?”, afferma Vincenzo Silani, già docente di Neurologia dell’Università Statale Milano e direttore del Dipartimento di Neuroscienze di Auxologico IRCCS.
Nell’insieme, i risultati dello studio indicano che a distanza di un anno dalla malattia ci possono essere in un certo numero di pazienti ancora alterazioni cognitive che in parte possono essere dovute ad alterazioni psichiche senza un correlato metabolico sul cervello ma, in poco meno della metà dei casi, possono essere correlate ad alterazioni del metabolismo cerebrale e, occasionalmente anche a deposizione di molecole tossiche per i neuroni.
"Stiamo pensando di prorogare" l’obbligo dei tamponi per i passeggeri cinesi in arrivo in Italia "fino 15 febbraio o a fine febbraio, per maggiore sicurezza anche se i dati Covid nell’ultima settimana sono scesi molto".
Lo ha detto il ministro della Salute Orazio Schillaci a margine del convegno ‘Evoluzione tecnologica in diagnostica per immagini e Radiologia interventistica. Stato dell’arte e prospettive future’ al Fatebenefratelli Isola Tiberina-Gemelli Isola a Roma.
Il ministro ha parlato anche della vicenda tragica" del neonato deceduto al Pertini di Roma. "Ha acceso la luce su una questione che riguarda molte donne. Con le associazioni di categoria vogliamo avere dei percorsi più sicuri per le mamma e i neonati", ha detto Schillaci, secondo il quale "l’innovazione è la strada per abbattere i costi".
"Può portare a nuovi protocolli e ad un migliore efficientamento delle risorse a disposizione. Io credo però che oggi si debba puntare soprattutto sulla prevenzione, bisogna far sì che in futuro si ammalino sempre meno persone. Trovare una fonte di finanziamento sicuro e poi ridurre il numero dei potenziali malati”.
A tre anni dall’inizio della pandemia vaccini e anti-virali hanno reso gestibile il Covid, ma il virus non è scomparso. Prevedere l’evoluzione della malattia non è semplice, ma un dato è certo: difficilmente sarà eradicabile e la nuova emergenza è il long Covid, che colpisce 1 persona su 3, anche tra i giovani, vittima del Covid.
Infatti, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, sarebbero 65 milioni nel mondo e 17 milioni in Europa le persone alle prese con la coda di infezione da Coronavirus. Poche però le conoscenze e i progressi della comunità scientifica sul fronte dei trattamenti contro la sindrome post-Covid. Ovvero quella sequela di manifestazioni conseguenze a lungo termine del Covid, caratterizzate soprattutto dalla “fatigue”, che provoca una prolungata e invalidante spossatezza, più o meno intensa da persona a persona, associata a debolezza muscolare, insonnia e tachicardia.
In questo contesto, in cui si inserisce il filone di ricerca SIGG, hanno suscitato particolare interesse i primi risultati di un nuovo studio sul long Covid condotto dalla Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – Università Cattolica Campus di Roma. Questo studio si inserisce in un filone di ricerca già aperto da una recente pubblicazione sulla rivista Nutrients, che attestava l’efficacia dell’azione sinergica di arginina e vitamina C nel ridurre la stanchezza cronica e migliorare la performance funzionale.
Nel nuovo studio, in corso di pubblicazione sulla rivista International Journal of Molecular Sciences, il gruppo di ricerca coordinato da Francesco Landi, past president della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG) e direttore del Dipartimento di Scienze dell’invecchiamento ortopediche e reumatologiche del Policlinico Gemelli di Roma, ordinario di Geriatria all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha messo in luce che nei pazienti con long Covid si verifica un'alterazione del metabolismo dell'arginina, un amminoacido prodotto naturalmente dall'organismo, il quale stimola l'ossido nitrico, enzima chiave per una corretta funzione immunitaria e vascolare. I ricercatori hanno inoltre dimostrato che la somministrazione di 1,6 grammi di arginina e 500 mg di vitamina C liposomiale per 28 giorni, riporta il metabolismo dell'arginina a un livello normale e consente di contrastare efficacemente la “fatigue”.
Lo studio
Nello studio sono stati coinvolti 57 persone, 46 adulti con long Covid a otto mesi dalla diagnosi e 11 persone abbinate per sesso ed età senza evidenze di precedenti infezioni da Sars-CoV-2. I pazienti con long Covid sono stati divisi in due gruppi: 23 hanno ricevuto il mix di arginina e vitamina C liposomiale e gli altri 23 un placebo per un periodo di 28 giorni. “Prima di iniziare il trattamento abbiamo misurato le concentrazioni di arginina nel sangue, osservando livelli significativamente più bassi di arginina nei pazienti con long Covid – racconta Landi, coordinatore dello studio -. Alla fine dei 28 giorni abbiamo scoperto che le concentrazioni di arginina nel sangue dei pazienti con long Covid è salita, raggiungendo livelli ‘sani’ come quelli rilevati nei pazienti appartenenti al gruppo di controllo”.
“Abbiamo dimostrato per la prima volta che il metabolismo dell'arginina è alterato nei pazienti con long Covid rispetto alle persone senza storia di infezione da Sars-Cov-2 – aggiunge Matteo Tosato, coautore dello studio e Responsabile Unità Operativa Day Hospital post-Covid, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma -. L’arginina è un indispensabile amminoacido alla base di molteplici funzioni ed è coinvolta principalmente nella sintesi di ossido nitrico, che gioca un ruolo chiave nella reattività endoteliale in risposta all’esigenza dei diversi tessuti, favorendo un corretto apporto di sangue in relazione alle loro necessità, migliorando così la performance funzionale”.
“Attualmente in assenza di trattamenti disponibili contro una sindrome di cui ancora sappiamo ben poco, ripristinare i valori di arginina potrebbe rappresentare una nuova strategia integrativa efficace contro la ‘fatigue’ da Long Covid, che può essere associata a disfunzioni immunitarie e vascolari, che a loro volta aumentano il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari”, conclude Landi.
"Siamo ormai vicini a una fase di convivenza con il Covid ampiamente gestibile. La discesa dei parametri è molto rapida e siamo tornati sul trend pre-natalizio.
Mi pare evidente che monitorare l'incidenza ha poco senso perché le persone non si tamponano più, è importante invece osservare la diminuzione degli accessi in terapia intensiva e nei reparti ordinari perché sono gli indicatori più robusti dell'endemia. Addirittura, l’incidenza dell’influenza è maggiore di quella del Covid in questa settimana. Insomma, ci siamo avvicinano alla fine ma c'è sempre un però legato alle varianti".
Così all'Adnkronos Salute Antonello Maruotti, ordinario di Statistica dell'Università Lumsa e co-fondatore dello StatGroup19, gruppo interaccademico di studi statistici sulla pandemia di Covid 19, commenta i dati del monitoraggio settimanale della Cabina di regia Iss-ministero della Salute.
"Abbiamo notato che alcune ricombinazioni di varianti passate sono più infettive del loro ceppo originale e questo potrebbe far ripartire ma al momento non ci sono varianti registrate che ci fanno temere una ripresa del Covid", precisa. Ma sulla possibilità che si arriverà a zero casi Covid, Maruotti è chiaro: "Non ci sarà la fase zero-Covid, la riduzione dei contagi e dell'occupazione dei posti letto non sarà infinita - conclude - Ci sarà un certo numero di casi ma molto basso".
Roche lancia sul mercato un nuovo test Covid per rilevare la sottovariante Omicron XBB.1.5, ribattezzata 'Kraken', che è ormai prevalente negli Stati Uniti e si sta diffondendo rapidamente anche in altri Paesi grazie alla sua super trasmissibilità. La multinazionale svizzera ha sviluppato il prodotto con la società partner tedesca Tib Molbiol.
Differenziare le diverse varianti emergenti del coronavirus Sars-CoV-2, comprendendone somiglianze e mutazioni, permette agli esperti di anticiparne la diffusione e rispondere con strategie terapeutiche adeguate, spiega il colosso basilese in una nota. "Roche continua a sviluppare innovazioni diagnostiche tempestive relative a Covid-19, fornendo preziose indicazioni per aiutare scienziati e medici a comprendere il nuovo ceppo, come si differenzia da altre varianti e l'impatto che può avere sulla salute pubblica", afferma Matt Sause, Ceo della divisione diagnostica del gruppo renano. Il test svela-Kraken, denominato VirSNiP Sars-CoV-2 Spike F486P, è compatibile con i sistemi diagnostici Lightcycler 480 II e Cobas z 480.
"Sono arrivati anche da noi diversi casi della variante Kraken di Sars-CoV-2". E' quanto ha detto all'Adnkronos Salute l'infettivologo Matteo Bassetti. "Secondo gli ultimi dati dell'Istituto superiore di sanità ci sono 12 casi" segnalati, rispetto all'unico dell'indagine precedente.
"Abbiamo avuto i primi report da Veneto e Lombardia. E' chiaro che questa variante XBB.1.5probabilmente nel breve termine prenderà il sopravvento anche da noi, come è già successo per esempio negli Stati Uniti. Quindi avremo a che fare probabilmente con Kraken e con " un'altra variante, in crescita per esempio in Gb, e battezzata sui social 'Orthrus', cioè la variante CH.1.1, che competeranno per prendersi la scena". "Aumenteranno i contagi? Probabilmente sì, ma io non credo che ci sarà un aumento delle forme impegnative e delle forme gravi" di Covid.
"Probabilmente - ribadisce il direttore di Malattie Infettive dell'Ospedale San Martino di Genova - vedremo un aumento dei casi, ma credo che dobbiamo oggi guardare con occhi molto diversi al Covid rispetto a come lo guardavamo un anno fa. E quindi non più dare i numeri tutti i giorni, non andare più a guardare esattamente cosa succede, ma guardare unicamente se aumentano le forme gravi e le ospedalizzazioni. Un modo diverso di porsi nei confronti del Covid, rispetto a quanto avvenuto negli ultimi 3 anni".
Hanno il test Covid che risulta negativo da un numero di giorni che può sfiorare l'anno, ma ciò nonostante soffrono di una polmonite potenzialmente letale, del tutto simile a quella associata a un'infezione acuta da Sars-CoV-2. Un 'mistero' sul quale ha indagato uno studio dell'Università di Trieste, del King's College of London e dell'International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology (Icgeb) triestino, pubblicato sul 'Journal of Pathology'.
Gli scienziati - riferiscono da UniTs - hanno analizzato il tessuto polmonare di una particolare categoria di pazienti, quelli apparentemente negativizzati, ma le cui condizioni cliniche si sono progressivamente aggravate fino a condurli alla morte con sintomi del tutto sovrapponibili a quelli di un'infezione Covid acuta. La coorte analizzata, nonostante la ripetuta negatività virale fino a 300 giorni consecutivi, presentava evidenze di polmonite interstiziale focale o diffusa, accompagnata da estesa sostituzione fibrotica nella metà dei casi.
"Assolutamente inattesi - spiegano gli esperti - alcuni aspetti significativi dal punto di vista patologico". Il primo aspetto è che, "nonostante l'apparente remissione virologica, la patologia polmonare si è rivelata molto simile a quella osservata negli individui con infezione acuta, con frequenti anomalie citologiche, sincizi e la presenza di caratteristiche dismorfiche nella cartilagine bronchiale". Il secondo aspetto, ritenuto dagli autori "forse ancora più inquietante", è legato all'"assenza di tracce virali nell'epitelio respiratorio, coerente con la negatività del test molecolare, mentre sono state individuate nella cartilagine bronchiale e nell'epitelio ghiandolare parabronchiale la proteina Spike e quella del nucleocapside virale, indispensabili rispettivamente all'infezione e alla replicazione del virus". Dunque "il distretto cartilagineo appare come un 'santuario' che rende il virus non identificabile con alcuna delle metodiche di cui si dispone al momento". Una sorta di 'nascondiglio' di Sars-CoV-2.
Insieme, questi i risultati indicano che "l'infezione da Sars-CoV-2 può persistere significativamente più a lungo di quanto suggerito dai risultati negativi dei test Pcr - sottolineano i ricercatori - con segni evidenti d'infezione in specifici tipi di cellule nel polmone. Quale sia il ruolo effettivo di questa latente infezione a lungo termine nel quadro clinico della cosiddetta 'sindrome del Covid lungo'", il Long Covid, però "resta ancora da esplorare".
Lo studio, coordinato da Mauro Giacca, docente di Biologia molecolare dell'Università di Trieste, Group Leader del Laboratorio di Medicina molecolare in Icgeb, e in Gb direttore della Scuola di Medicina cardiovascolare del King's College di Londra, ha tratto vantaggio - si legge in una nota - dalla pluriennale esperienza di Rossana Bussani dell'Istituto di Anatomia patologica di Asugi (Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina), docente di Anatomia patologica dell'Università di Trieste, nell'esame autoptico dei pazienti deceduti all'ospedale del capoluogo giuliano.
Il team di scienziati include anche Chiara Collesi, docente di Biologia molecolare dell'Università di Trieste, e Serena Zacchigna, docente di Biologia molecolare dell'ateneo triestino e Group Leader del Laboratorio di Biologia cardiovascolare in Icgeb.
I pazienti Covid mantengono un alto rischio di morte per almeno 18 mesi dopo l'infezione. E' quanto suggerisce uno studio condotto su quasi 160mila persone e pubblicato su 'Cardiovascular Research', rivista della European Society of Cardiology (Esc).
Secondo gli autori, scienziati dell'Università di Hong Kong, Covid-19 è associato a maggiori rischi di malattie cardiovascolari e morte a breve e lungo termine. Rispetto alle persone non infettate, la probabilità che i pazienti Covid muoiano è risultata essere fino a 81 volte superiore nelle prime 3 settimane di infezione ed è rimasta 5 volte superiore fino a 18 mesi dopo.
"I pazienti Covid - spiega Ian C.K. Wong dell'ateneo di Hong Kong, autore del lavoro - avevano maggiori probabilità di sviluppare numerose condizioni cardiovascolari" rispetto ai partecipanti allo studio non colpiti dal virus, "il che potrebbe aver contribuito ai loro maggiori rischi di morte. I risultati - evidenzia l'esperto - indicano dunque che i pazienti con Covid dovrebbero essere monitorati per almeno un anno dopo il recupero dalla malattia acuta per diagnosticare le complicanze cardiovascolari dell'infezione, che fanno parte del Long Covid".
Lo studio ha confrontato l'insorgenza di patologie cardiovascolari e morte in persone infettate e non,reclutate prima di dicembre 2020, quando non erano disponibili vaccini nel Regno Unito. Più di 7.500 pazienti con infezione diagnosticata dal 16 marzo 2020 al 30 novembre 2020 sono stati identificati dalla Uk Biobank. Ciascuno è stato abbinato a un massimo di 10 persone senza Covid durante il periodo di studio (che è andato da marzo 2020 ad agosto 2021) e a una coorte storica pre-pandemia (marzo-novembre 2018). Ogni gruppo no Covid aveva più di 70mila partecipanti, simili a quello del gruppo Covid per età, sesso, fumo, diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari e di altro tipo, indice di massa corporea, etnia e deprivazione economica. In tutti e tre i gruppi l'età media era di 66 anni e il numero di donne e uomini era quasi uguale.
"La coorte di controllo" pre-pandemia, precisano gli scienziati, "è stata inclusa per escludere l'effetto della riduzione o della cancellazione di servizi sanitari di routine" durante la crisi Covid, "che ha portato a un peggioramento della salute e a un aumento della mortalità anche nelle persone non infettate". Rispetto ai due gruppi di non contagiati, i pazienti Covid avevano circa 4 volte più probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari maggiori nella fase acuta e il 40% in più nella fase post-acuta. Rispetto ai non infettati, il rischio di morte nei pazienti Covid era fino a 81 volte più alto nella fase acuta e 5 volte più alto nella fase post-acuta. I pazienti con Covid grave avevano più probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari maggiori o di morire, rispetto ai casi non gravi.
In generale i contagiati, rispetto ai non infetti, avevano maggiore probabilità di sviluppare, sia a breve che a lungo termine, patologie come infarto del miocardio, malattia coronarica, insufficienza cardiaca e trombosi venosa profonda. I rischi di alcune condizioni cardiovascolari, ad esempio ictus e fibrillazione atriale, sono stati elevati a breve termine, ma poi sono tornati a livelli normali.
Se questo studio è stato condotto durante la prima ondata pandemica, "la ricerca futura - osserva Wong - dovrebbe valutare i successivi focolai". E indagare, concludono gli esperti, anche sull'eventuale efficacia dei vaccini nel ridurre i rischi cardiovascolari e di mostre post infezione.
L'immunità ibrida conferita da un mix di vaccinazione anti-Covid e guarigione dall'infezione offre una protezione maggiore, rispetto alla sola infezione, contro le forme gravi di malattia da Sars-CoV-2.
E' quanto emerge da una revisione sistematica di 26 studi pubblicata su 'The Lancet Infectious Diseases', frutto di una collaborazione tra Organizzazione mondiale della sanità, Unity Studies e SeroTracker. "L'analisi dimostra i vantaggi di sottoporsi a vaccinazione anche dopo avere contratto Covid", sottolinea l'Oms.
La revisione - riassume l'agenzia delle Nazioni Unite per la sanità - mostra che "la protezione contro malattie gravi e ricovero resta elevata 12 mesi dopo aver sviluppato immunità ibrida o avere avuto un'infezione" da Sars-CoV-2, "rispetto all'essere non vaccinati e non contagiati". In particolare, "un anno dopo aver sviluppato immunità ibrida" emerge "una probabilità inferiore di almeno il 95% di contrarre Covid-19 in forma grave o di necessitare di un ricovero in ospedale, mentre nelle persone infettate un anno prima, ma non vaccinate, il rischio è del 75% inferiore".
"La protezione contro la reinfezione è risultata minore rispetto a quella contro le malattie gravi" causate dal coronavirus pandemico, "sebbene ancora sostanziale - rimarca inoltre l'Oms - Le persone con immunità ibrida hanno una probabilità del 42% inferiore di essere reinfettate" da Sars-CoV-2 "un anno dopo, mentre quelle solo infettate hanno un rischio del 25% inferiore".
Spray nasali o da somministrare per bocca: saranno questi i prossimi vaccini anti-Covid? Il mondo della scienza guarda con una certa attesa ai cosiddetti vaccini mucosali, ma "siamo ancora in una situazione piuttosto interlocutoria. Come Agenzia europea del farmaco Ema che cosa ci aspettiamo?
E' molto incerto: speriamo di poter vedere dei risultati clinici o di uso reale con il vaccino cinese di CanSino, diciamo a metà del 2023. E poi cercare di instaurare un dialogo con queste aziende, per vedere se questi vaccini possano eventualmente arrivare all'autorizzazione. Anche se avere vaccini autorizzati entro la fine dell'anno sembra piuttosto difficile a questo punto". E' il quadro tracciato all'Adnkronos Salute da Marco Cavaleri, responsabile della strategia per le minacce sanitarie e i vaccini dell'Ema.
"Chiaramente c'è un grosso interesse sia da parte di chi si occupa di salute pubblica e di ricerca, sia da parte di un'agenzia regolatoria come l'Ema nel vedere avanzare questi vaccini e capire quale possa essere il loro valore nel futuro - evidenzia l'esperto - Stiamo monitorando la situazione e parlando con chi sta sviluppando questi prodotti. A fine dell'anno scorso ho anche partecipato a un meeting organizzato dai Nih", gli statunitensi National Institutes of Health, "per cercare di capire come si può far avanzare i vaccini mucosali e direi che siamo ancora in una situazione abbastanza incerta, visto che stiamo aspettando i risultati di test clinici per capire in effetti se questi vaccini possono essere una possibilità e se possiamo eventualmente approvarli".
In questo momento, spiega Cavaleri, "guardiamo con attenzione al vaccino di CanSino, che è in uso in Cina. E' un vaccino inalatorio che utilizza un adenovirus. Sarebbe comunque molto interessante riuscire ad avere dati su qual è la sua efficacia e il livello di protezione che riesce a produrre. Stiamo poi guardando ad altri tipi di tecnologie mucosali, inclusi vaccini che usano un virus vivo, ma attenuato. C'è un vaccino che è in sperimentazione clinica e anche per questo stiamo cercando di capire quanto sia efficace". Ad oggi "è tutto ciò che si può dire", precisa. "L'idea - aggiunge - è che questi vaccini possano essere più efficaci nel prevenire anche l'infezione e la trasmissione del virus. E' quello che ci si aspetta".
Quanto ai progetti in corso, l'esperto dell'Ema riferisce che "ci sono diverse compagnie al lavoro", anche negli Usa, per esempio "Vaxart", per citarne una, che studia un vaccino orale. "Ci sono diverse piccole aziende che lavorano su questo tipo di progetti e magari fanno più fatica a portare avanti lo sviluppo clinico di prodotti", osserva Cavaleri. Un altro esempio di realtà che sta puntando su prodotti simili è Codagenix, che sta sviluppando il vaccino a virus attenuato intranasale.
"Ci sono quindi anche dei vaccini sviluppati negli Usa che sono specificatamente mucosali, non solo il vaccino cinese e un altro indiano, anch'esso approvato. Ma questi due sono già nel mondo reale e sarebbe estremamente interessante avere dei dati di qual è la loro efficacia, soprattutto in questo momento dalla Cina, se viene usato, visto che i casi non mancano", riflette. L'Ema è "in contatto con CanSino", riporta Cavaleri. "Come sempre con le aziende che non vengono dal mondo occidentale è più difficile avanzare rapidamente, ma la nostra porta è sempre aperta. Poi vediamo cosa riusciamo a fare".
Una barriera già alle porte di ingresso del virus Sars-CoV-2, naso e bocca, quindi più in grado di evitare il contagio. E' dunque questa la promessa dei vaccini spray anti-Covid, o meglio mucosali. "L'aspettativa è che possano essere più efficaci nel prevenire anche l'infezione e la trasmissione del virus. Anche se quello che purtroppo dobbiamo accettare è che anche questi vaccini potrebbero aver bisogno di richiami continui", suggerisce Cavaleri, "perché - chiarisce - anche l'immunità mucosale, per quel che sappiamo, non viene mantenuta a lungo termine con i virus respiratori".
Al di là della necessità di richiami, però, ribadisce l'esperto, "indubbiamente il vaccino mucosale potrebbe essere un'alternativa o qualcosa che può aiutare a raggiungere un livello di protezione dall'infezione e dalla trasmissione" di Covid, "che purtroppo i vaccini attuali non riescono a raggiungere. Sebbene, va precisato, non è che siano completamente inefficaci da questo punto di vista. Semplicemente non sono molto efficaci", conclude Cavaleri.
I ricercatori dell'UBC -Università della Columbia Britannia hanno identificato tre composti che prevengono l'infezione da COVID-19 nelle cellule umane, derivati ??da fonti naturali tra cui una spugna di mare BC.
La scoperta apre la strada allo sviluppo di nuovi farmaci per le varianti di COVID-19 a base di fonti naturali. E data l'abbondanza della natura, potrebbero esserci moltissimi nuovi antivirali in attesa di essere scoperti.
In un uno studio su Antiviral Research, un team internazionale di ricercatori guidato da scienziati dell'UBC ha studiato una lista di oltre 350 composti derivati ??da fonti naturali tra cui piante, funghi e spugne marine nel tentativo di trovare nuovi farmaci antivirali che possano essere utilizzati per trattare le Varianti come Omicron. "Questo team di ricerca interdisciplinare sta svelando le importanti possibilità della biodiversità e delle risorse naturali e scoprendo soluzioni basate sulla natura per le sfide sanitarie globali come il COVID-19", afferma l'autore senior François Jean, professore associato presso il dipartimento di microbiologia e immunologia.
Immergendo le cellule polmonari umane in soluzioni a base di questi composti e quindi infettando le cellule con SARS-CoV-2, i ricercatori hanno trovato 26 composti, che hanno ridotto completamente l'infezione virale nelle cellule. Tre erano efficaci in dosi molto piccole. "Il vantaggio di questi composti è che prendono di mira le cellule, piuttosto che il virus, bloccando la replicazione del virus e aiutando la cellula a riprendersi- aggiunge la co-autrice Jimena Pérez-Vargas, ricercatrice associata nel dipartimento. di microbiologia e immunologia- Le cellule umane si evolvono più lentamente dei virus, quindi questi composti potrebbero funzionare contro varianti future e altri virus come l'influenza se usano gli stessi meccanismi".
I ricercatori hanno utilizzato una versione del virus SARS-CoV-2 che fa brillare le cellule di verde fluorescente quando vengono infettate, oltre a una speciale tecnica di screening, per identificare i 26 principali composti naturali che hanno mostrato un'inibizione dell'infezione da COVID-19 con un basso danno cellulare. Il virus fluorescente è uno strumento potente, ha spiegato il primo autore, il dottor Tirosh Shapira, borsista post-dottorato presso la facoltà di medicina: "Con esso, i passaggi sperimentali più laboriosi sono resi superflui e possiamo controllare facilmente e rapidamente migliaia di composti. E, cosa ancora più importante, abbiamo la possibilità di seguire la SARS-CoV-2 'in diretta' mentre si propaga da una cellula all'altra".
Composti canadesi
Tutti e tre i composti più efficaci sono stati trovati in Canada: l'alotaketal C da una spugna marina raccolta a Howe Sound, B.C., la bafilomicina D da un batterio marino raccolto a Barkley Sound, B.C., e la santrina A da batteri marini raccolti nelle acque di Terranova.
"Abbiamo raccolto sostanze per 40 anni in tutto il mondo ma si dà il caso che queste tre siano canadesi e che due provengano dal B.C.", ha dichiarato il co-autore Raymond Andersen, professore del dipartimento di chimica.
Ulteriori test hanno dimostrato che i tre composti sono efficaci contro la variante Delta e diverse varianti Omicron, e che sono sicuri per le cellule umane quanto gli attuali trattamenti per la COVID-19. Molti di questi trattamenti non sono più efficaci contro le varianti Omicron attualmente in circolazione perché il virus si sta evolvendo. Ciò evidenzia la necessità di nuovi antivirali, evidenzia il Dr. Jean.
Lavorare insieme ad altri antivirali
I ricercatori hanno esaminato l'efficacia del composto bafilomicina D in combinazione con un antivirale COVID-19 di recente scoperta, la molecola N-0385. Il composto e la molecola funzionavano sinergicamente contro la sottovariante Omicron BA.2. Questo suggerisce un punto di partenza promettente per lo sviluppo di trattamenti multifarmaco delle varianti, che siano efficaci nel trattamento di COVID-19 e di altri virus.
I ricercatori prevedono di testare i composti in modelli animali entro i prossimi sei mesi. "La nostra ricerca sta anche aprendo la strada alla sperimentazione su larga scala di farmaci a base di prodotti naturali in grado di bloccare l'infezione associata ad altri virus respiratori, che destano grande preoccupazione in Canada e nel mondo, come l'influenza A e l'RSV", conclude il dottor Jean.
DOI: 10.1016/j.antiviral.2022.105484
Antonio Caperna