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Sulla possibilità che venga tolto l’isolamento per le persone positive al Covid, "adesso penso lo toglieremo, ma di fatto credo sia ampiamente inapplicato". Così il ministro della Salute, Orazio Schillaci, a margine dell’Assemblea di Farmindustria, in corso a Roma.
La sollecitazione a rimuovere le norme ancora in vigore contro il Covid per le persone positive al virus è arrivata dalla Fto, Federazione turismo organizzato, che ha scritto al ministro della Salute Schillaci e alla ministra del Turismo Santanché.
Sull'argomento si sono espressi diversi esperti, da Matteo Bassetti a Pier Luigi Lopalco e Maria Rita Gismondo e Fabrizio Pregliasco.
Durante la sua seduta del 21 giugno 2023, il Consiglio federale ha adottato il rapporto finale concernente le ripercussioni finanziarie della pandemia di COVID-19 sui soggetti che assumono i costi nel settore sanitario. Nel documento sono riassunti i due rapporti intermedi, completati con le cifre relative al 2022 e i dati sulle spese dei Cantoni.
L’attenzione è rivolta in particolare ai costi sanitari diretti dovuti alla pandemia di COVID-19 sostenuti dalla Confederazione, dai Cantoni, dagli assicuratori e dagli assicurati negli anni dal 2020 al 2022. Per la Confederazione essi sono ammontati a circa 5 miliardi di franchi, per i Cantoni a un importo compreso tra i 2,3 e i 2,9 miliardi di franchi.
Con un postulato (20.3135), nell’aprile del 2020 il Consiglio degli Stati aveva incaricato il Consiglio federale di presentare un rapporto in merito alle ripercussioni della pandemia sui costi della salute. Il rapporto finale fornisce una panoramica completa dei costi sanitari diretti derivanti dall’erogazione dell’assistenza sanitaria alla popolazione in relazione alla pandemia di COVID-19.
Nel caso dei Cantoni, si tratta di una stima dei costi sostenuti sulla base di un sondaggio condotto fra tali soggetti dall’istituto di ricerca INFRAS su incarico dell’UFSP. Alcune cifre stimate si collocano pertanto entro una determinata forbice.
Elevato impegno di Confederazione e Cantoni
La maggior parte dei costi assunti della Confederazione negli anni 2020 al 2022 riguardava i test COVID-19 (3 miliardi di franchi) nonché l’acquisto di vaccini e materiale medico (1,7 miliardi di franchi).
A ciò si aggiungono ancora costi dell’ordine di 160 milioni di franchi per l’impiego dell’esercito nel settore sanitario. Negli anni 2020 e 2021 l’esercito ha prestato tre volte servizio d’appoggio e circa 380 000 giorni di servizio per fornire supporto alla sanità pubblica civile.
I Cantoni hanno speso 413 milioni di franchi per la vaccinazione della popolazione. I costi per la messa a disposizione di capacità supplementari negli ospedali sono oscillati tra 570 e 938 milioni di franchi negli anni 2020–2022.
Per quanto concerne i trattamenti stazionari dei pazienti COVID-19, il 55 per cento delle spese sono assunte dai Cantoni e il 45 per cento è a carico degli assicuratori. I costi per il trattamento stazionario a carico dei Cantoni si sono attestati tra 997 e 1171 milioni di franchi nel periodo 2020–2022.
Le ripercussioni finanziarie per gli assicuratori e gli assicurati
Per quanto riguarda il trattamento stazionario dei pazienti COVID-19, la quota dei costi a carico degli assicuratori nell’assicurazione obbligatoria delle cure medico-sanitarie (AOMS) è oscillata tra 816 e 958 milioni di franchi negli anni dal 2020 al 2022.
Gli assicuratori hanno inoltre assunto 380 milioni di franchi di costi per le vaccinazioni, ovvero gli importi forfettari per le prestazioni di vaccinazione e quelli per ogni dose di vaccino. Per la vaccinazione non è stata riscossa alcuna partecipazione ai costi. La stessa è quindi stata gratuita per le persone coperte dall’AOMS. In aggiunta, all’inizio della pandemia nel 2020 gli assicuratori si sono fatti carico dei test COVID-19.
I costi per i trattamenti ambulatoriali in relazione a una malattia COVID-19 non hanno potuto essere identificati poiché non è stato possibile operare una chiara distinzione tra questi trattamenti e altre prestazioni ambulatoriali.
Il forte rialzo del premio medio per il 2023 è imputabile soprattutto alla pandemia di COVID-19: da un lato, ai costi diretti degli assicuratori indicati nel rapporto e, dall’altro, agli effetti di recupero degli interventi medici rinviati.
Lo smart working fa bene alla salute? Se lo è chiesto il quotidiano statunitense 'The Hill' e la risposta non sembrerebbe lasciare spazio a dubbi: il lavoro a distanza, esploso negli ultimi anni a seguito della pandemia da Covid-19, rappresenta un rischio per la salute fisica e mentale.
Secondo i dati del Pew Research Center, infatti, tre anni dopo che l'arrivo del coronavirus ha innescato un esodo di massa dagli uffici, a marzo 2023 circa 22 milioni di americani stavano ancora lavorando completamente da remoto.
Il passaggio al lavoro a distanza ha cambiato la vita di molti lavoratori adulti, come coloro che hanno una disabilità o quanti si prendono cura dei propri familiari, mentre da alcuni sondaggi emerge che agli americani piace molto lavorare da casa. Ma farlo tra le mura domestiche, si legge sul 'The Hill', ha i suoi lati negativi. Il lavoro a distanza è stato infatti collegato a un sonno meno riposante, problemi di rilassamento e disturbi di salute mentale. Nel 2008, secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità, circa il 31% delle persone di età pari o superiore a 15 anni era "insufficientemente attivo fisicamente". Una crisi. secondo Ross Arena, professore di terapia fisica presso l'Università dell'Illinois, a Chicago, che sembra essere stata aggravata dalle restrizioni legate al Covid-19 e potenzialmente peggiorata proprio dallo smart working.
"A meno che i lavoratori remoti non facciano uno sforzo consapevole per fare attività fisica- ha ammonito Arena- essere sedentari durante il giorno li mette a rischio di ingrassare e aumentare la resistenza all'insulina, facendo crescere le probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete". Secondo un sondaggio realizzato da Upright nel 2022, il lavoratore remoto medio fa solo 16 passi dal letto alla propria postazione di lavoro e numerosi studi mostrano che questi lavoratori sono fisicamente meno attivi di quelli che, invece, lavorano in ufficio. Dallo stesso sondaggio emerge inoltre che il 54% dei lavoratori remoti e ibridi ritiene che il proprio movimento durante la giornata lavorativa si sia ridotto del 50% o più nell'ultimo anno. Non è tutto. Un'analisi del 2021 della Standford University rileva che tra il 2007 e il 2016 il tempo medio trascorso da un adulto americano seduto è aumentato da 5,5 a 6,4 ore al giorno. Ad aprile 2020, il 40% degli adulti statunitensi sedeva più di otto ore al giorno. Una preoccupazione associata a uno stile di vita prevalentemente sedentario sono i coaguli di sangue.
Stare seduti troppo a lungo, riporta l'edizione on line del giornale americano, può aumentare le possibilità che si vada incontro a una trombosi venosa profonda o a un coagulo, che può quindi arrivare fino ai polmoni e causare un'embolia polmonare o un blocco della circolazione del sangue. Un'embolia polmonare può a sua volta impedire all'ossigeno di entrare nel flusso sanguigno, danneggiando gli organi. Per evitare coaguli di sangue, i sanitari incoraggiano le persone che lavorano da casa a rimanere idratate e ad alzarsi dalla scrivania e spostarsi ogni due o tre ore.
Il tempo in eccesso passato davanti allo schermo può, tra l'altro, peggiorare la vista e causare emicranie. Secondo un sondaggio condotto su 2.000 lavoratori a casa e ibridi, più della metà dei lavoratori a distanza ha riferito di aver riscontrato un aumento dell'affaticamento degli occhi durante il primo anno della pandemia. Un sondaggio di All About Vision rileva, invece, che una persona che lavora da casa trascorre in media 13 ore al giorno davanti a uno schermo, che si tratti del proprio laptop, telefono o televisione, oltre due ore in più rispetto a quanto trascorre il lavoratore medio in loco fissando uno schermo. Lo stesso sondaggio mette in luce che il 68% di quanti lavorano da casa ha riportato nuovi problemi agli occhi o alla vista da quando ha iniziato lo smart working.
Lavorare da casa può inoltre facilitare lo sviluppo di cattive abitudini: se, infatti, per chi lavora in ufficio le opportunità di fumare sono limitate e gli spostamenti spesso impediscono alle persone di mangiare o bere qualcosa dopo il lavoro nel momento in cui finisce la giornata lavorativa, chi rimane a casa in smart working è certamente più tentato a fumare di più, bere maggiormente e fare numerosi spuntini durante il giorno. Fatto, quest'ultimo, che può portare a un aumento di peso indesiderato. Nel 2021, secondo un sondaggio nazionale condotto dalla Sierra Tuscon, centro di cura per la salute mentale in Arizona, un lavoratore statunitense su cinque ha infine ammesso di aver usato alcol, marijuana o altre droghe mentre lavorava a distanza. Il 22% ha inoltre affermato di aver partecipato a una chiamata di lavoro virtuale mentre era sotto l'effetto di alcol, cannabis o altre sostanze stupefacenti.
La pandemia da Covid-19, nella sua drammaticità, ha mostrato a tutti un lavoro che spesso è invisibile: quello degli specialisti della Terapia Intensiva. In questo reparto circa un paziente su dieci ha una sindrome da distress respiratorio acuto (nota con la sigla ARDS): una patologia aumentata di molto a causa del nuovo coronavirus, ma che può avere anche altre origini.
Le ARDS in un caso su quattro (23%) richiedono di applicare la ventilazione meccanica, e uccidono quasi una persona su due tra i pazienti più gravi (45%). Visto l'impatto di questa sindrome, è chiara l'importanza delle nuove linee guida per la gestione delle ARDS appena pubblicate sulla rivista scientifica Intensive Care Medicine: sono state stilate da un gruppo di esperti della società europea per le cure intensive (ESICM) e hanno come primo firmatario Giacomo Grasselli, direttore della Struttura di Anestesia e Terapia Intensiva Adulti del Policlinico di Milano.
La sindrome da distress respiratorio acuto consiste in un danno diffuso a livello degli alveoli, che sono quegli elementi che permettono ai nostri polmoni di farci respirare. In particolare il danno è a livello dei capillari che circondano gli alveoli: se non possono funzionare correttamente, non riescono a introdurre ossigeno nell'organismo né ad eliminare l'anidride carbonica, provocando nel paziente una grave insufficienza respiratoria. Per questi motivi non è sufficiente dare più ossigeno al paziente (il danno agli alveoli non permetterebbe di utilizzarlo correttamente), ma spesso bisogna ricorrere alla ventilazione meccanica: le cose però non sono affatto semplici, perché ventilare in modo forzato i polmoni può danneggiarli, se le cose non sono fatte in modo estremamente preciso e considerando tutti gli aspetti clinici del paziente.
E' qui che entrano in gioco le linee guida: sono uno strumento fondamentale per gli specialisti, perché riassumono tutte le scoperte scientifiche sul tema accumulate negli anni e le strutturano in modo chiaro, codificando percorsi specifici sulla gestione del paziente, omogenei a livello europeo. Significa che in tutte le Terapie Intensive le procedure diventano le stesse, aggiornate alle più recenti scoperte, facendo tesoro anche di tutto quello che gli specialisti e i ricercatori hanno imparato durante la gestione della pandemia da Covid-19. Le linee guida appena pubblicate aggiornano e vanno a sostituire quelle del 2017, e riguardano i pazienti adulti.
"Sono molto soddisfatto della pubblicazione di queste linee guida - ha commentato Giacomo Grasselli - sono il frutto di due anni di lavoro che ha coinvolto tutti i maggiori esperti internazionali, oltre a metodologi e rappresentanti dei pazienti. Sono particolarmente orgoglioso del fatto che anche la prestigiosa rivista Journal of American Medical Association abbia dedicato un articolo alle nuove Linee Guida ESICM, riconoscendo che rappresentano uno strumento importante per migliorare la cura dei pazienti con ARDS e per guidare le future ricerche su questa patologia".
La variante BQ.1 del Covid, alias Cerberus, esce dai radar dall'Organizzazione mondiale della sanità, che la sfila dall'elenco delle cosiddette Vum (varianti sotto monitoraggio) "a causa della sua bassa prevalenza globale, inferiore all'1% nell'ultimo mese".
A dominare sempre più la scena globale è la famiglia XBB, in linea con le raccomandazioni per i vaccini anti-Covid del futuro. E' il quadro disegnato dall'ultimo bollettino settimanale Covid-19 diffuso dall'Oms, nel quale Kraken (XBB.1.5) e Arturo (XBB.1.16) si confermano le uniche 2 varianti di interesse (Voi), mentre le Vum scendono a 6: sono BA.2.75 (Centaurus), CH.1.1 (Orthrus), XBB (Gryphon), XBB.1.9.1 (Hyperion), XBB.1.9.2 e XBB.2.3 (Acrux).
Se Kraken continua a essere il lignaggio di Sars-CoV-2 più segnalato in tutto il mondo, la sua prevalenza è in calo costante. Nella settimana dal 29 maggio al 4 giugno XBB.1.5 rappresentava il 23,3% delle sequenze virali condivise sulla piattaforma Gisaid, rispetto al 36,7% della settimana 1-7 maggio. Nello stesso periodo Arturo sale invece dal 14,1% al 21,9%.Tra le varianti sotto monitoraggio, XBB, XBB.1.9.2 e XBB.2.3 hanno mostrato nelle ultime settimane tendenze in aumento, mentre per le altre Vum il trend è in discesa o stabile.
Casi e morti Covid intanto in continuo calo nel mondo. Negli ultimi 28 giorni (22 maggio-18 giugno) sono stati segnalati 1,2 milioni di contagi e oltre 7.100 decessi, con una riduzione del 48% e del 58% rispettivamente secondo l'ultimo bollettino Oms. Il report aggiorna il contatore a oltre 768 milioni di casi confermati e oltre 6,9 milioni di decessi da inizio pandemia.
L'Oms ribadisce che "i contagi segnalati non offrono una rappresentazione accurata dei tassi di infezione, a causa della riduzione dei test e delle segnalazioni a livello globale. Alcuni Paesi - sottolinea l'agenzia ginevrina - continuano a riportare carichi elevati di Covid-19, inclusi l'aumento di nuovi casi segnalati e, ancora più importante, la crescita di ricoveri e morti, elementi considerati gli indicatori più attendibili considerata la riduzione dei test".
Ciò premesso, i nuovi contagi scendono in tutte e 6 le regioni dell'Oms (-78% Sudest asiatico, -71% Mediterraneo orientale, -70% Americhe, -46% Europa, -33% Pacifico occidentale, -26% Africa), mentre i decessi diminuiscono in 5 regioni (-73% America, -70% Mediterraneo orientale, -57% Sudest asiatico, -49% Europa, -28% Pacifico occidentale) e segnano un +5% nella regione africana. Zoomando sulla regione europea, nell'ultimo mese i nuovi casi sono oltre 315mila e i nuovi decessi 3.523. Il maggior numero di contagi è stato segnalato da Francia (71.197, 109,5/100mila, -42%), Federazione Russa (46.109, 31,6/100mila, -49%) e Grecia (41.730, 389,3/100mila, -25%), mentre per le morti in testa c'è la Spagna (729, 1,5/100mila, +70%), seguita da Federazione Russa (577, meno di 1/100mila, -13%) e Italia (420, meno di 1/100mila, -36%).
Un nuovo rapporto declassificato conferma che l'intelligence Usa rimane divisa sull'origine del Covid, e non in grado quindi di affermare in modo certo se il virus ha avuto un'origine naturale o è stato creato in un laboratorio. "Tutte le agenzie continuano a ritenere che sia l'ipotesi naturale che quella del laboratorio rimangono plausibili per spiegare la prima infezione umana" da coronavirus, si legge nel rapporto di 10 pagine dell'Ufficio del direttore della National Intelligence.
Se il National Intelligence Council ed altre quattro agenzie di intelligence propendono per l'ipotesi dell'esposizione ad un animale infetto, il dipartimento dell'Energia e l'Fbi invece considerano più plausibile l'incidente in un laboratorio cinese. Mentre la Cia non si sbilancia tra le due ipotesi, sottolineando che entrambe "si fondono su supposizioni valide e fronteggiano sfide a causa di notizie contrastanti".
Su una cosa però tutte le agenzie concordano cioè sul fatto che il virus non è stato prodotto come arma biologica e "quasi tutte" ritengono che non sia stato geneticamente modificato.
Nel rapporto si analizza l'attività del laboratorio di virologia di Wuhan, la città cinese dove è scoppiata la pandemia, al centro dell'ipotesi dell'incidente di laboratorio. E si descrive come tra il 2017 e il 2019 il laboratorio ha finanziato e realizzato una ricerca in collaborazione con i militari cinesi per aumentare le conoscenze su agenti patogeni e la capacità di difesa e biosicurezza.
La ricerca "comprendeva il lavoro con diversi virus, compresi coronavirus, ma nessun di quelli di cui si ha conoscenza potrebbe essere considerato in modo plausibile il progenitore del Covid", conclude il rapporto.
I tempi di attesa per le prestazioni sanitarie costituiscono una delle principali criticità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) con cui cittadini e pazienti si scontrano quotidianamente subendo gravi disagi (necessità di ricorrere alle strutture private, migrazione sanitaria, aumento della spesa out-of-pocket, impoverimento), sino alla rinuncia alle cure con pesanti conseguenze sulla salute.
"Il problema delle liste di attesa- dichiara Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE- affligge da sempre il nostro SSN, ma negli ultimi anni si è aggravato per l'enorme quantità di prestazioni non erogate durante la pandemia COVID-19". In particolare, secondo i dati del Ministero della Salute, nel 2020 - rispetto al 2019 - in Italia sono stati oltre 1,57 milioni i ricoveri programmati in meno; per gli screening oncologici oltre 4,1 milioni di inviti e oltre 2,53 milioni di prestazioni in meno; infine, oltre 112 milioni le prestazioni ambulatoriali "saltate", tra visite specialistiche, esami di laboratorio e strumentali. Per fronteggiare il problema sono state stanziate risorse ad hoc per il recupero delle prestazioni: € 500 milioni come da Legge di Bilancio 2022 che ha ulteriormente prorogato quanto previsto dal DL 104/2020, le cui risorse non erano state completamente utilizzate dalle Regioni. Nel gennaio 2022 il Ministero della Salute, con le 'Linee di indirizzo per il recupero delle prestazioni sanitarie non erogate in ragione dell'epidemia da SARS-CoV-2' ha individuato tre categorie di prestazioni prioritarie: ricoveri per interventi chirurgici programmati, inviti e prestazioni per le campagne di screening oncologici e prestazioni ambulatoriali.
"Seguendo le indicazioni ministeriali- spiega Cartabellotta- ciascuna Regione ha elaborato un Piano Operativo Regionale (POR) dove ha delineato strategie e modalità organizzative per recuperare le prestazioni non erogate durante il periodo pandemico". Il recente Rapporto sul coordinamento della Finanza Pubblica della Corte dei Conti ha reso noti i dati del Ministero della Salute sia sul recupero delle prestazioni nel 2022 da parte delle Regioni, sia sul finanziamento utilizzato: dati su cui la Fondazione GIMBE ha effettuato le analisi di seguito riportate.
RICOVERI PER INTERVENTI CHIRURGICI PROGRAMMATI - Complessivamente le Regioni hanno inserito nei POR oltre 512 mila ricoveri programmati da recuperare, per le quali il Ministero della Salute riporta un recupero stimato di poco più di 338 mila (66%). Notevoli le variabilità regionali: dal 92% del Piemonte al 14% della Liguria.
SCREENING ONCOLOGICI: INVITI E PRESTAZIONI - Le Regioni hanno previsto nei POR di recuperare oltre 5 milioni di inviti e quasi 2,84 milioni di prestazioni. La rendicontazione ministeriale riporta un recupero stimato di quasi 4,2 milioni di inviti (82%) e poco più di 1,9 milioni di prestazioni (67%). Notevoli le differenze regionali: per gli inviti si va dal 100% di Piemonte, Valle d'Aosta, Provincia Autonoma di Trento, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Molise e Basilicata al 14% del Friuli Venezia Giulia. Relativamente alle prestazioni, il recupero oscilla dal 100% di Toscana, Provincia Autonoma di Trento, Piemonte e Basilicata al 9% di Calabria e Lazio. Da segnalare che la Regione Umbria aveva già recuperato tutte le prestazioni di screening nell'anno 2021.
PRESTAZIONI AMBULATORIALI - In totale le Regioni hanno programmato di recuperare quasi 11,9 milioni di prestazioni, di cui Ministero della Salute riporta un recupero stimato di quasi 6,8 milioni (57%). "Un dato- spiega Cartabellotta- che ha avuto conseguenze rilevanti sui tempi di attesa delle nuove prestazioni ambulatoriali, e verosimilmente ne continua ad avere, visto che ne rimangono da recuperare oltre 5 milioni". Anche per queste prestazioni nette le differenze regionali in termini di recupero: dal 100% di Valle D'Aosta, Provincia Autonoma di Trento e Toscana al 7% della Campania.
RECUPERO COMPLESSIVO DELLE PRESTAZIONI - "Delle 20,3 milioni di prestazioni arretrate, nel 2022 complessivamente ne sono state recuperate poco meno di due su tre, ovvero il 65%- precisa Cartabellotta- e nessuna Regione ha raggiunto per tutte le prestazioni le quote di recupero previste dai POR". Inoltre, i risultati evidenziano un'ampia variabilità nei livelli di performance sia tra le varie Regioni, sia all'interno della stessa Regione tra differenti tipologie di prestazioni. Al fine di fornire un quadro complessivo sulla capacità di recupero delle singole Regioni è stata calcolata la percentuale totale di prestazioni recuperate sul totale di quelle inserite nei relativi POR . "Pur trattandosi di tipologie differenti di prestazioni- spiega Cartabellotta- che richiedono un diverso impegno organizzativo ed economico, questa "classifica" vede sul podio Toscana (99%), Provincia autonoma di Trento (95%) ed Emilia-Romagna (91%) e sul fondo Calabria (18%) e Campania (10%)".
FINANZIAMENTO UTILIZZATO - L'attività di audit conclusa nell'aprile 2023 dal Ministero della Salute sull'attuazione dei POR fornisce anche il quadro sull'utilizzo delle risorse. La spesa rendicontata al 31 dicembre 2022 sfiora i € 348 milioni, ovvero quasi il 70% di quella stanziata, con notevoli differenze regionali: dal 2% del Molise al 100% della Liguria, con alcune Regioni (Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia e Piemonte) che superano il 100%, verosimilmente in ragione dello stanziamento di risorse proprie. "Il dato più rilevante- commenta Cartabellotta- è che non risulta una correlazione diretta tra risorse utilizzate e prestazioni recuperate: in altre parole, dalla rendicontazione del Ministero della Salute emergono inspiegabili variabilità regionali tra risorse investite e prestazioni recuperate".
COINVOLGIMENTO DELLE STRUTTURE PRIVATE ACCREDITATE - Al fine di agevolare il recupero delle prestazioni, la normativa ha previsto che Regioni e Province Autonome potessero coinvolgere gli erogatori privati accreditati, integrando accordi e contratti esistenti, con la possibilità di destinare ai privati sino a un massimo di € 150 milioni sui complessivi € 500 milioni di finanziamento. Il Ministero della Salute riporta una stima complessiva a livello nazionale di committenza alle strutture private del 29%: in dettaglio, il 30% del finanziamento destinato ai ricoveri, il 13% di quello per gli screening e il 32% delle risorse allocate per le prestazioni ambulatoriali.
"Tuttavia esiste una enorme variabilità regionale- spiega il presidente- sia in termini di quota di committenza totale, sia rispetto alla distribuzione delle tre tipologie di prestazioni erogate dal privato". La percentuale stimata di committenza al privato è pari o superiore alla media nazionale in Puglia (93%), Lombardia (46%), Campania (37%), Sicilia (35%), Liguria (32%) e Calabria (30%); le altre Regioni si collocano al di sotto del valore nazionale, con Marche e Molise che non hanno fatto ricorso al privato. "Il monitoraggio del Ministero della Salute- conclude Cartabellotta- dimostra che complessivamente che le Regioni non hanno recuperato il 35% delle prestazioni "saltate" durante la pandemia per complessive 7,13 milioni di prestazioni. In dettaglio, 174mila ricoveri programmati, 914mila inviti e 936mila di prestazioni per gli screening oncologici e 5,1 milioni di prestazioni ambulatoriali. Inoltre, i dati restituiscono un quadro molto eterogeneo tra le varie Regioni sia sulle percentuali di prestazioni recuperate, sia sul finanziamento utilizzato che non sempre è correlato con le prestazioni recuperate".
Esiste un legame tra incidenza di infezioni da SARS-CoV2, mortalità per COVID-19 ed esposizione di lungo periodo (2016-2019) ad alcuni fra i principali inquinanti atmosferici in Italia, quali il biossido di azoto (NO2) e il particolato atmosferico (PM2.5 e PM10).
Lo dimostrano i risultati di EpiCovAir, un progetto epidemiologico nazionale di ricerca su COVID-19 e inquinamento promosso dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale - Sistema Nazionale per la Protezione dell'Ambiente (ISPRA-SNPA), in collaborazione con la Rete Italiana Ambiente e Salute (RIAS), presentati durante un webinar nella sede dell’ISS.
Le indagini hanno riguardato circa 4 milioni di casi di SARS-CoV-2 e 125 mila decessi registrati dal Sistema Nazionale di Sorveglianza Integrata COVID-19 tra i 60 milioni di italiani residenti in 7800 comuni durante le prime tre ondate epidemiche (da febbraio 2020 a giugno 2021), con un’incidenza di 67 casi infetti su 1000 abitanti e un tasso di letalità di 31 decessi ogni 1000 persone contagiate.
La distribuzione geografica dell'infezione e dei decessi per COVID-19 mostra incidenza e letalità più alte nelle aree del nord Italia, che hanno anche più elevati livelli di inquinamento atmosferico di lungo periodo. Questo vale particolarmente nella prima ondata dell'epidemia, che si è originata e propagata a partire dalle regioni settentrionali, mentre le distribuzioni dei casi e dei decessi per COVID-19 sono più omogenee sul territorio nazionale nella seconda e terza fase pandemica.
Le associazioni con l'inquinamento atmosferico, più forti tra i soggetti anziani, rivelano che in Italia l'incidenza di nuovi casi cresce significativamente dello 0.9%, dello 0.3% e dello 0.3% per ogni incremento di 1 microgrammo per metro cubo (μg/m3) nei livelli di esposizione di lungo periodo a NO2, PM2.5 e PM10, rispettivamente.
Lo stesso vale per i tassi di letalità per COVID-19 che aumentano dello 0.6%, dello 0.7% e dello 0.3% ad ogni innalzamento di 1 μg/m3 nell’esposizione cronica rispettivamente agli stessi inquinanti.
Le analisi effettuate, spiegano gli autori, tengono conto di numerose variabili geografiche, demografiche, socio-economiche, sanitarie, così come della mobilità della popolazione durante la pandemia grazie ai dati forniti da ENEL X sui flussi di traffico per tutti i comuni italiani.
“I risultati conseguiti da EpiCovAir”, afferma Ivano Iavarone, coordinatore del Progetto, “sono coerenti con le più recenti evidenze disponibili nella letteratura scientifica internazionale, e supportano la necessità di agire tempestivamente per ridurre le emissioni di inquinanti atmosferici ed il loro impatto sanitario, in linea con la recente proposta della Commissione Europea di una nuova Direttiva sulla qualità dell’aria e di contrasto alla crisi climatica”.
“Sotto questo punto di vista, e non potendo escludere futuri rischi epidemici,” dichiarano congiuntamente i Presidenti ISS ed ISPRA-SNPA Silvio Brusaferro e Stefano Laporta “sarà importante individuare strategie sinergiche ed intersettoriali di prevenzione integrata che su scala europea, nazionale, regionale e locale accelerino l’implementazione di politiche improntate sui co-benefici, attraverso interventi strutturali in settori chiave quali i trasporti, l’industria, l’energia e l’agricoltura”.
I due lavori del progetto EpiCovAir, recentemente pubblicati, sono disponibili ai seguenti link:
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/37167483/
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/37154300/
Ci sono un milione e 200mila pazienti con fragilità severa in Italia, in alcuni di loro il sistema immunitario non riesce a difendersi efficacemente da virus e infezioni. Il virus SARS-CoV-2 quindi è ancora un rischio concreto per chi ha un sistema immunitario compromesso o una immunodeficienza congenita e non gode della stessa risposta in termini di protezione vaccinale della popolazione generale.
Pazienti, clinici e istituzioni si sono confrontati sul punto durante il Convegno "Fragili! Proteggere con cura... Covid e infezioni virali, pericolo scampato?" realizzato dall'Associazione AIP OdV, con il supporto di GSK. Per loro, in caso di sintomi riconducibili alla Covid-19, è necessario accelerare i tempi della diagnosi tramite un tampone, e avviare al più presto la terapia con antivirali o anticorpi monoclonali. Questi ultimi, sono una opzione concreta per i soggetti fragili in politerapia o che non possono assumenti antivirali, grazie all'assenza di interazioni farmacologiche. L'obiettivo di queste terapie è quello di bloccare l'ingresso del virus prima che riesca ad entrare nella cellula ospite.
"I pazienti con immunodeficienze congenite e acquisite vivono con preoccupazione il prossimo arrivo della stagione influenzale: nonostante le nuove indicazioni vaccinali indicate nel Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale 23-25, le informazioni corrette su come gestire le infezioni non sono adeguatamente diffuse. Abbiamo bisogno di essere maggiormente tutelati. Per noi non vale la 'normalizzazione' del virus come fattore endemico e paghiamo un prezzo altissimo anche per eventuali ospedalizzazioni che vanno evitate il più possibile", è l'appello di Alessandro Segato, Presidente di AIP l'Associazione Immunodeficienze Primitive.
"Per le persone con fragilità, in caso di sintomi riconducibili alla Covid-19, è necessario accelerare i tempi della diagnosi, eseguendo immediatamente un tampone e avviare al più presto la terapia con antivirali e anticorpi monoclonali- spiega il professor Federico Perno, Direttore di Microbiologia Clinica e Diagnostica di Immunologia Ospedale Bambin Gesù di Roma- il virus cambia continuamente e il fatto che la diffusione sia stata contenuta dalla vaccinazione non significa che non sia più rischioso, specialmente per alcune categorie di persone. La fragilità interessa un terzo della popolazione, non solo anziana. Basti pensare che la stessa influenza, che non gode della stessa attenzione, provoca tantissimi decessi ogni anno. Valutare il coefficiente di rischio di ogni paziente e prendere le opportune precauzioni per salvaguardarli è obbligatorio".
Inoltre, non dobbiamo dimenticare che nell'ambiente circolano decine e decine di altri patogeni che sferrano i loro attacchi sui più deboli. Mentre l'andamento del Covid-19 ci racconta di una normalizzazione e l'OMS ha dichiarato la fine della pandemia, per alcuni le malattie virali rimangono un elemento di allerta. In Italia, infatti, si contano ancora circa 30 morti al giorno per infezioni SARS-CoV-2. "La protezione individuale e collettiva tramite vaccinazione- ha sottolineato Filippo Cristoferi, Responsabile delle Relazioni Istituzionali di AIP OdV- la diagnosi precoce e tempestiva e una pronta somministrazione del farmaco monoclonale sono pertanto le semplici linee di azione che devono vedere una collaborazione sinergica di pazienti, medici e sanitari". Le istituzioni sanitarie, ed in particolare le Regioni, e la politica devono facilitare la conoscenza, tramite informazione e comunicazione dedicata e multicanale, e interventi che semplifichino il percorso di accesso alle terapie. La pandemia è finita, ma non per tutti. Tuteliamo i più fragili.
In un nuovo studio pubblicato su The Lancet Infectious Diseases , i ricercatori dell'Università del Minnesota hanno scoperto che la metformina, un farmaco comunemente usato per trattare il diabete, previene lo sviluppo del Long COVID.
Lo studio, chiamato COVID-OUT , ha esaminato se il trattamento ambulatoriale precoce del COVID-19 con metformina, ivermectina o fluvoxamina potesse prevenire il Long COVID, malattia cronica che può colpire fino al 10% delle persone che hanno avuto COVID-19.
"I risultati di questo studio sono importanti perché il long COVID può avere un impatto significativo sulla vita delle persone - afferma la dott.ssa Carolyn Bramante, ricercatrice principale e assistente professore presso la U of M Medical School- La metformina è un farmaco economico, sicuro e ampiamente disponibile e il suo uso come misura preventiva potrebbe avere implicazioni significative per la salute pubblica".
Questo è stato un ampio studio clinico randomizzato controllato con placebo, che ha arruolato volontari negli Stati Uniti. Lo studio ha rilevato:
Lo studio ha incluso più di 1.200 partecipanti che sono stati scelti in modo casuale per ricevere metformina o placebo, e un ulteriore sottogruppo ha ricevuto ivermectina, fluvoxamina o i loro placebo. I partecipanti avevano tra i 30 e gli 85 anni che si qualificavano come sovrappeso o obesi. Oltre 1.100 dei partecipanti hanno riportato i propri sintomi fino a 10 mesi dopo la diagnosi iniziale di COVID-19.
"Questo risultato a lungo termine di uno studio randomizzato è una prova di alta qualità che la metformina previene i danni del virus SARS-CoV-2- aggiunge Bramante, che è anche internista e pediatra presso M Health Fairview. -Sebbene metà della nostra sperimentazione fosse stata vaccinata, nessuno era stato precedentemente infettato dal virus COVID-19. Ulteriori ricerche potrebbero mostrare se è efficace anche in quelli con precedente infezione o negli adulti con indice di massa corporea inferiore.
La capacità della metformina di fermare il virus è stata prevista da un simulatore sviluppato dalla facoltà di ingegneria biomedica della U of M Medical School e del College of Science and Engineering. Il modello è stato finora molto accurato, prevedendo con successo, tra gli altri, il fallimento dell'idrossiclorochina e il successo del remdesivir prima che venissero annunciati i risultati degli studi clinici, che testavano queste terapie.
Uno studio condotto congiuntamente dal Consiglio nazionale delle ricerche e dall’Azienda Ospedaliera “A. Cardarelli” di Napoli, pubblicato sulla rivista internazionale Viruses, ha dimostrato l’efficacia della vaccinazione di richiamo anti Covid-19 nel rafforzamento della protezione immunologica contro l’infezione da SARS-CoV2 in una popolazione di pazienti sottoposti a trapianto di rene.
La ricerca è frutto del lavoro di ricercatori e ricercatrici di due Istituti del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli - l’Istituto di biochimica e biologia cellulare (Cnr-Ibbc) e l’Istituto di genetica e biofisica (Cnr-Igb), entrambi afferenti al Dipartimento di scienze biomediche dell’Ente e dell’UOC Medicina 1 dell’AORN Cardarelli. Il team ha dimostrato che le dosi booster somministrate a soggetti con un importante stato di immunosoppressione farmacologica in seguito a trapianto di reni hanno favorito una buona risposta immunologica al virus SARS-CoV-2, sia nei confronti del ceppo virale originario Wuhan che della varante Omicron, in termini di produzione di anticorpi neutralizzanti e di risposta cellulare mediata dai linfociti T.
“Nonostante lo stato di emergenza a livello globale sia ormai terminato, anche grazie al successo delle campagne di vaccinazione, resta alta l’attenzione sanitaria nei confronti dei pazienti con fragilità, quali pazienti oncologici, trapiantati o immunosoppressi, solo per citarne alcuni, in quanto maggiormente esposti al rischio di infezione da SARS-CoV-2: è qui che si inquadra il nostro studio, che ha riunito competenze di immunologia e biologia cellulare”, spiega Carmen Gianfrani (Cnr-Ibbc).
La sperimentazione ha coinvolto soggetti sottoposti a trapianto di rene e volontari sani reclutati dal Cardarelli, sottoposti ad un prelievo di sangue a vari tempi dopo la seconda e terza dose di richiamo del vaccino a mRNA. “Le cellule del sangue sono state analizzate per la reattività immunologica ad un’ampia libreria peptidica della proteina Spike sia wild-type che del ceppo Omicron”, aggiunge Giovanna Del Pozzo (Cnr-Igb), co-coordinatrice assieme a Gianfrani della sperimentazione svolta al Cnr.
“Sia nei pazienti sani che nei pazienti trapiantati abbiamo rilevato, a seguito alla terza vaccinazione, una robusta espansione ed attivazione dei linfociti antivirali specifici, con produzione di interferone-gamma contestualmente con l’incremento del titolo anticorpale anti-Spike. Sebbene l’intensità della reattività immunologica nei confronti della variante Omicron sia risultata minore rispetto al ceppo originario di Wuhan, lo studio dimostra l’efficacia della dose booster nell’indurre una protezione anti-virale specifica”.
Lo studio dimostra anche l’importanza di una sinergia a livello territoriale tra istituti del Cnr impegnati nella ricerca biomedica e strutture ospedaliere, al fine di fornire un supporto scientifico alle istituzioni nazionali deputate a prevenire eventuali infezioni virali emergenti o a pianificare nuove campagne vaccinali, per la tutela della salute del singolo individuo e della collettività.
Il gruppo di lavoro Cnr, coordinato dalla dott.ssa Luciana D’Apice (Cnr-Ibbc) è inserito nel progetto NextGenerationEU-MUR PNRR Extended Partnership Initiative on Emerging Infectious Diseases.
Dopo l'emergenza Covid, è diminuita la quota di alunni che arriva all'ultimo anno di scuole con competenze almeno adeguate: il 52% gli studenti delle V superiori che nel 2022 hanno raggiunto un livello di competenza almeno adeguato in italiano, erano il 64% nel 2019. È quanto emerge da un'indagine dell'Osservatorio 'Con i bambini'.
Dopo alcuni anni di emergenza Covid, le prove di maturità 2023 rappresentano un progressivo ritorno alla normalità. La prima prova, uguale per tutti, in tutto il Paese, inizierà alle 8.30 del 21 giugno. La seconda prova varia in base all'indirizzo di studi, ma quest'anno è comunque definita a livello nazionale, mentre l'anno scorso le tracce erano elaborate dalle singole commissioni d'esame. Solo in alcuni casi specifici (ad esempio le scuole della Valle d'Aosta e della provincia autonoma di Bolzano) è prevista una terza prova. La maggioranza degli studenti sosterrà direttamente un colloquio multidisciplinare di fronte alla commissione d'esame. Nelle prove del 2022 è emerso come ragazze e ragazzi arrivino in V superiore con un forte bagaglio di disuguaglianze in termini di apprendimento.
Disparità educative che non sono nuove e che ne incrociano altre. Da quelle di genere alla condizione sociale della famiglia di origine, dalla cittadinanza al tipo di percorso di studi intrapreso. Fino al territorio di residenza. Confermando tendenze già emerse nelle prove del passato. Il primo divario, quello legato all'origine familiare, sembra paradossalmente ridursi alla fine del percorso di studi: fenomeno su cui anche gli abbandoni precoci possono avere un ruolo. Tuttavia esiste, ed è emerso anche nelle prove dell'anno scorso della V superiore. Gli studenti con alle spalle una famiglia di status socio-economico-culturale alto raggiungono un punteggio medio di 202,6 in italiano. La quota scende a 191,3 tra quelli di famiglie di condizione medio-alta e a 185 in quelle medio-basse. Tra gli studenti con le famiglie più svantaggiate crolla a 171: oltre 30 punti in meno dei coetanei avvantaggiati.
Ma come arrivano i candidati a questo momento? Uno dei requisiti per l'ammissione è lo svolgimento dei test Invalsi. I risultati dei maturandi 2023 saranno diffusi nelle prossime settimane, e sarà necessario monitorarli per capire se il livello di apprendimento è migliorato dopo il crollo successivo all'emergenza pandemica. Le prove di maturità, ma in generale il livello di competenza con cui vi si arriva, riguardano i ragazzi e le loro prospettive. Ma non c'è solo questo. Sul tavolo c'è anche la capacità del sistema educativo di formarli, e soprattutto le prospettive dell'intero paese. In attesa dei risultati degli studenti che nel 2023 faranno gli esami, vediamo come erano andate le V superiori dello scorso anno.
I DIVARI TRA GLI STUDENTI ALLA MATURITÀ 2022 - Nelle prove del 2022 è emerso come ragazze e ragazzi arrivino in V superiore con un forte bagaglio di disuguaglianze in termini di apprendimento. Disparità educative che non sono nuove e che ne incrociano altre. Da quelle di genere alla condizione sociale della famiglia di origine, dalla cittadinanza al tipo di percorso di studi intrapreso. Fino al territorio di residenza. Confermando tendenze già emerse nelle prove del passato. Il primo divario, quello legato all'origine familiare, sembra paradossalmente ridursi alla fine del percorso di studi: fenomeno su cui anche gli abbandoni precoci possono avere un ruolo.
Tuttavia esiste, ed è emerso anche nelle prove dell'anno scorso della V superiore. Gli studenti con alle spalle una famiglia di status socio-economico-culturale alto raggiungono un punteggio medio di 202,6 in italiano. La quota scende a 191,3 tra quelli di famiglie di condizione medio-alta e a 185 in quelle medio-basse. Tra gli studenti con le famiglie più svantaggiate crolla a 171: oltre 30 punti in meno dei coetanei avvantaggiati. 31,6 i punti che separano gli studenti di condizione familiare migliore da quelli più svantaggiati nelle prove Invalsi di italiano in V superiore. Anche i percorsi di istruzione riflettono questi gap. Come abbiamo avuto modo di raccontare in passato, la scelta della scuola superiore non è neutra. Tende a riprodurre i divari sociali di partenza: i figli di lavoratori esecutivi sono la maggioranza relativa dei diplomati nei professionali e nei tecnici, mentre sono una minoranza nei licei. Lo stesso vale, a parti invertite, per chi proviene da una famiglia di classe elevata.
LE DISPARITÀ TERRITORIALI CHE ANCORA RESISTONO - Tra ragazze e ragazzi che l'anno scorso sono arrivati alla fine delle superiori, solo il 52% ha conseguito un livello di apprendimento adeguato in italiano. Un dato che conferma quello dell'anno precedente (2021), in significativo peggioramento rispetto all'ultimo test prima della pandemia. E che comunque lascia trasparire una criticità di ben più lungo periodo rispetto all'emergenza stessa. Questa problematica ha le sue radici in profondi divari territoriali. A fronte di una media nazionale del 48% di risultati inadeguati in V superiore, in Calabria, Campania e Sicilia la quota supera il 60%. Parliamo di ragazzi che in italiano si collocano nei livelli di apprendimento più bassi (1 e 2), ovvero con un risultato non in linea con i traguardi previsti alla fine del secondo ciclo d'istruzione. Se si isolano solo gli studenti al livello 1, che in base alla metodologia Invalsi si caratterizzano per un 'risultato molto debole, corrispondente ai traguardi di apprendimento in uscita al massimo dalla II secondaria di secondo grado', sono ancora queste le regioni più colpite, rispettivamente con il 38,4% in Campania, il 36,9% in Calabria e il 33,9% in Sicilia. Per avere un termine di paragone, in Valle d'Aosta e nella provincia di Trento sono meno del 10%, e poco più di uno su 10 in Veneto.
I dati disponibili a livello comunale mostrano come il fenomeno riguardi soprattutto i comuni del mezzogiorno. Sono 14 i capoluoghi dove oltre un terzo degli studenti di V superiore si attesta al livello 1 di italiano, quello più basso, nelle prove Invalsi. In tutti i casi si tratta di città del sud e delle isole: Enna, Crotone, Agrigento, Brindisi, Caserta, Napoli, Cosenza, Sassari, Messina, Catanzaro, Vibo Valentia, Palermo, Catania e Oristano. A Enna e Crotone oltre il 40% degli studenti di V superiore si attesta al livello minimo di competenze in italiano La quota di ragazzi che si fermano al livello 1 è più contenuta a Cuneo (5,7%), Belluno (6,5%) e Lecco (7,4). Del resto si tratta anche dei territori dove più studenti avevano conseguito risultati adeguati nelle prove 2022. In generale, i capoluoghi con più studenti che hanno raggiunto livelli almeno sufficienti (dal terzo al quinto) in italiano si trovano nell'Italia settentrionale. Nell'ordine, Belluno, Lecco, Cuneo, Brescia, Aosta, Pordenone, Trento, Gorizia, Treviso e Sondrio. Nei plessi situati in questi comuni oltre il 70% degli alunni delle quinte ha raggiunto un risultato adeguato.
I pazienti che hanno avuto un infarto durante il primo lockdown per il COVID-19 nel Regno Unito e in Spagna vivranno, secondo le previsioni, rispettivamente 1,5 e 2 anni in meno rispetto al periodo pre-COVID. È quanto emerge da uno studio pubblicato oggi su European Heart Journal - Quality of Care and Clinical Outcomes, una rivista della Società Europea di Cardiologia (ESC)1 .
I costi aggiuntivi per le economie del Regno Unito e della Spagna sono stimati rispettivamente in 36,6 milioni di sterline (41,3 milioni di euro) e 88,6 milioni di euro, in gran parte dovuti all'assenza dal lavoro.
"Le limitazioni al trattamento di patologie potenzialmente letali hanno conseguenze negative immediate e a lungo termine per gli individui e per la società nel suo complesso- ha dichiarato l'autore dello studio, il professor William Wijns del Lambe Institute for Translational Medicine dell'Università di Galway, Irlanda- È necessario predisporre dei piani di riserva in modo che i servizi di emergenza possano essere mantenuti anche durante le catastrofi naturali o sanitarie".
Gli attacchi di cuore richiedono un trattamento urgente con stent (chiamato intervento coronarico percutaneo o PCI) per aprire l'arteria bloccata e ripristinare il flusso di sangue che trasporta ossigeno. I ritardi, e la conseguente mancanza di ossigeno, provocano danni irreversibili al muscolo cardiaco e possono causare insufficienza cardiaca o altre complicazioni. Quando una grande quantità di tessuto cardiaco è danneggiata, il cuore smette di battere (chiamato arresto cardiaco) e questo può essere fatale.
Durante la prima ondata della pandemia, circa il 40% in meno di pazienti colpiti da infarto si è recato in ospedale2,3 perché i governi hanno detto alla gente di rimanere a casa, le persone avevano paura di contrarre il virus e alcune cure di emergenza di routine sono state interrotte. Rispetto a chi ha ricevuto un trattamento tempestivo, i pazienti colpiti da infarto che sono rimasti a casa hanno avuto più del doppio delle probabilità di morire4 , mentre quelli che hanno ritardato il ricovero in ospedale hanno avuto quasi il doppio delle probabilità di avere complicazioni gravi che avrebbero potuto essere evitate5.
Questo studio ha stimato le implicazioni cliniche ed economiche a lungo termine della riduzione del trattamento dell'infarto durante la pandemia nel Regno Unito e in Spagna. I ricercatori hanno confrontato l'aspettativa di vita prevista dei pazienti che hanno avuto un attacco cardiaco durante la prima serrata con quelli che hanno avuto un attacco cardiaco nello stesso periodo dell'anno precedente. Lo studio si è concentrato sull'infarto miocardico con sopraslivellamento ST (STEMI), in cui un'arteria che fornisce sangue al cuore è completamente bloccata. I ricercatori hanno anche confrontato il costo degli STEMI durante il lockdown con il periodo equivalente dell'anno precedente.
L'analisi dei costi si è concentrata sul ricovero e sul trattamento iniziale, sul trattamento di follow-up, sulla gestione dell'insufficienza cardiaca e sulla perdita di produttività dei pazienti che non possono tornare al lavoro. Ad esempio, il costo applicato a un ricovero per STEMI con PCI è stato di 2.837 sterline nel Regno Unito e di 8.780 euro in Spagna. I costi dell'insufficienza cardiaca sono stati stimati in 6.086 sterline nel primo anno e in 3.882 sterline in tutti gli anni successivi per il Regno Unito. Le cifre equivalenti per la Spagna erano di 3.815 euro (primo anno) e 2.930 euro (ogni anno successivo).
L'analisi ha previsto che i pazienti che hanno avuto uno STEMI durante il primo blocco del Regno Unito avrebbero perso in media 1,55 anni di vita rispetto ai pazienti che hanno avuto uno STEMI prima della pandemia. Inoltre, si prevedeva che i pazienti con uno STEMI in vita durante il blocco avrebbero perso circa un anno e due mesi di vita in perfetta salute. Le cifre equivalenti per la Spagna erano 2,03 anni di vita persi e circa un anno e sette mesi di vita in perfetta salute.
Nel Regno Unito, il costo aggiuntivo di uno STEMI durante la pandemia, rispetto a prima, è stato di 8.897 sterline, di cui 214 sterline per il Servizio Sanitario Nazionale e 8.684 sterline di assenteismo lavorativo.6 Sulla base di un'incidenza di 49.332 STEMI all'anno, la riduzione dell'accesso alla PCI durante il primo mese di blocco è stata proiettata ad un costo aggiuntivo di 36,6 milioni di sterline (41,3 milioni di euro) nel corso della vita di questi pazienti.
Per la Spagna, il costo aggiuntivo per STEMI durante il blocco è stato stimato in 20.069 euro. Sulla base di un'incidenza annuale di 52.954 STEMI, la riduzione dell'accesso alla PCI durante il mese di marzo 2020 è stata stimata in un costo aggiuntivo di 88,6 milioni di euro nell'arco della vita di questi pazienti. L'assenteismo lavorativo è stato il principale responsabile, con un costo aggiuntivo di 23.224 euro per paziente (81.062 euro prima contro 104.286 euro dopo la pandemia). Tuttavia, questo dato è stato parzialmente compensato dai minori costi dei ricoveri per insufficienza cardiaca, poiché un numero maggiore di pazienti con STEMI è morto durante le chiusure.
Il professor Wijns ha dichiarato: "I risultati illustrano le ripercussioni di una cura ritardata o mancata. I pazienti e le società pagheranno per anni il prezzo della riduzione del trattamento dell'infarto durante un solo mese lockdown. I servizi sanitari hanno bisogno di un elenco di terapie salvavita che dovrebbero essere sempre disponibili, e devono essere creati sistemi sanitari resilienti in grado di passare ai piani di emergenza senza ritardi. Le campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica dovrebbero sottolineare i benefici di un'assistenza tempestiva, anche duarante una pandemia o un'altra crisi".
1Lunardi M, Mamas MA, Mauri J, et al. Predicted clinical and economic burden associated with reduction in access to acute coronary interventional care during the COVID-19 lockdown in two European countries. Eur Heart J Qual Care Clin Outcomes. 2023. doi:10.1093/ehjqcco/qcad025.
Link will go live on publication:
https://academic.oup.com/
2Mafham MM, Spata E, Goldacre R, et al. COVID-19 pandemic and admission rates for and management of acute coronary syndromes in England. Lancet. 2020;396:381–389.
3Pessoa-Amorim G, Camm CF, Gajendragadkar P, et al. Admission of patients with STEMI since the outbreak of the COVID-19 pandemic: a survey by the European Society of Cardiology. Eur Heart J Qual Care Clin Outcomes. 2020;6:210–216.
4Wadhera RK, Shen C, Gondi S, et al. Cardiovascular deaths during the COVID-19 pandemic in the United States. J Am Coll Cardiol. 2021;77:159–169.
5De Rosa S, Spaccarotella C, Basso C, et al. Reduction of hospitalizations for myocardial infarction in Italy in the COVID-19 era. Eur Heart J. 2020;41:2083–2088.
6Numbers add up to £8,898, rather than £8,897, due to rounding.
Patients who had heart attacks during the first COVID-19 lockdown in the UK and Spain are predicted to live 1.5 and 2 years less, respectively, than their pre-COVID counterparts. That’s the finding of a study published today in European Heart Journal – Quality of Care and Clinical Outcomes, a journal of the European Society of Cardiology (ESC).1
The additional costs to the UK and Spanish economies are estimated at £36.6 million (€41.3 million) and €88.6 million, respectively, largely due to absence from work.
“Restrictions to treatment of life-threatening conditions have immediate and long-term negative consequences for individuals and society as a whole,” said study author Professor William Wijns of the Lambe Institute for Translational Medicine, University of Galway, Ireland. “Back-up plans must be in place so that emergency services can be retained even during natural or health catastrophes.”
Heart attacks require urgent treatment with stents (called percutaneous coronary intervention or PCI) to open the blocked artery and restore the flow of oxygen-carrying blood. Delays, and the resulting lack of oxygen, lead to irreversible damage of the heart muscle and can cause heart failure or other complications. When a large amount of heart tissue is damaged, the heart stops beating (called cardiac arrest) and this can be fatal.
During the first wave of the pandemic, about 40% fewer heart attack patients went to hospital2,3 as governments told people to stay at home, people were afraid of catching the virus, and some routine emergency care was stopped. Compared to receiving timely treatment, heart attack patients who stayed at home were more than twice as likely to die,4 while those who delayed going to the hospital were nearly twice as likely to have serious complications that could have been avoided.5
This study estimated the long-term clinical and economic implications of reduced heart attack treatment during the pandemic in the UK and Spain. The researchers compared the predicted life expectancy of patients who had a heart attack during the first lockdown with those who had a heart attack at the same time in the previous year. The study focused on ST-elevation myocardial infarction (STEMI), where an artery supplying blood to the heart is completely blocked. The researchers also compared the cost of STEMIs during lockdown with the equivalent period the year before.
A model was developed to estimate long-term survival, quality of life and costs related to STEMI. The UK analysis compared the period 23 March (when lockdown began) to 22 April 2020 with the equivalent time in 2019. The Spanish analysis compared March 2019 with March 2020 (lockdown began on 14 March 2020). Survival projections considered age, hospitalisation status and time to treatment using published data for each country. For example, using published data, it was estimated that 77% of STEMI patients in the UK were hospitalised prior to the pandemic compared with 44% during lockdown. The equivalent rates for Spain were 74% and 57%. The researchers also compared how many years in perfect health were lost for patients with a STEMI before versus during the pandemic.
The cost analysis focused on initial hospitalisation and treatment, follow-up treatment, management of heart failure and productivity loss in patients unable to return to work. For example, the cost applied to a STEMI admission with PCI was £2,837 in the UK and €8,780 in Spain. Heart failure costs were estimated at £6,086 in year one and £3,882 in all subsequent years for the UK. The equivalent figures for Spain were €3,815 (year one) and €2,930 (each subsequent year).
The analysis predicted that patients who had a STEMI during the first UK lockdown would lose an average of 1.55 years of life compared to patients presenting with a STEMI before the pandemic. In addition, while alive, those with a STEMI during lockdown were predicted to lose approximately one year and two months of life in perfect health. The equivalent figures for Spain were 2.03 years of life lost and around one year and seven months of life in perfect health lost.
In the UK, the extra cost of one STEMI during the pandemic, compared to before, was £8,897 which included £214 for the National Health Service and £8,684 in work absenteeism.6 Based on an incidence of 49,332 STEMIs per year, reduced access to PCI during the first month of lockdown was projected to cost an extra £36.6 million (€41.3 million) over the lifetime of these patients.
For Spain, the extra cost per STEMI during lockdown was estimated at €20,069. Based on an annual STEMI incidence of 52,954 STEMIs, reduced access to PCI during March 2020 was projected to cost an additional €88.6 million over these patients’ lifetimes. Work absenteeism was the main contributor, costing an extra €23,224 per patient (€81,062 pre- vs. €104,286 post-pandemic). However, this was partially offset by lower costs of heart failure hospitalisations since more STEMI patients died during lockdown.
Professor Wijns said: “The findings illustrate the repercussions of delayed or missed care. Patients and societies will pay the price of reduced heart attack treatment during just one month of lockdown for years to come. Health services need a list of lifesaving therapies that should always be delivered, and resilient healthcare systems must be established that can switch to emergency plans without delay. Public awareness campaigns should emphasise the benefits of timely care, even during a pandemic or other crisis.”
References and notes
1Lunardi M, Mamas MA, Mauri J, et al. Predicted clinical and economic burden associated with reduction in access to acute coronary interventional care during the COVID-19 lockdown in two European countries. Eur Heart J Qual Care Clin Outcomes. 2023. doi:10.1093/ehjqcco/qcad025.
Link will go live on publication:
https://academic.oup.com/
2Mafham MM, Spata E, Goldacre R, et al. COVID-19 pandemic and admission rates for and management of acute coronary syndromes in England. Lancet. 2020;396:381–389.
3Pessoa-Amorim G, Camm CF, Gajendragadkar P, et al. Admission of patients with STEMI since the outbreak of the COVID-19 pandemic: a survey by the European Society of Cardiology. Eur Heart J Qual Care Clin Outcomes. 2020;6:210–216.
4Wadhera RK, Shen C, Gondi S, et al. Cardiovascular deaths during the COVID-19 pandemic in the United States. J Am Coll Cardiol. 2021;77:159–169.
5De Rosa S, Spaccarotella C, Basso C, et al. Reduction of hospitalizations for myocardial infarction in Italy in the COVID-19 era. Eur Heart J. 2020;41:2083–2088.
6Numbers add up to £8,898, rather than £8,897, due to rounding.
Sono 603 le nuove startup dell’ecosistema italiano delle Life Science nate dal 2021 ad oggi, 48 delle quali nel primo trimestre dell'anno in corso, destinatarie di quasi 2 miliardi di investimenti diretti.
Sono l’eredità positiva dell'era Covid, che ha impresso forte accelerazione allo sviluppo della sanità digitale, da due anni a questa parte, trainando il settore delle scienze della vita: quel ramo delle scienze naturali che si occupa degli organismi viventi e che oggi è al centro della continua innovazione tecnologica del comparto sanitario, in particolare a livello di produzione grazie alla presenza di imprese innovative. L’area del Biotech è la più presidiata, con 227 iniziative; seguono le nuove startup dell’area Med Tech, che sono 168, quindi le 112 iniziative in Digital Health le 96 di servizi di Life Science.
È il quadro presentato oggi a Milano, incorniciato dalle parole-chiave “competenze” e “specializzazione degli investitori”, nella giornata di confronto fra imprese, mondo scientifico, tecnologie, venture capitalist e istituzioni, sul tema “L’Italia è (o non è) una Paese per l’innovazione nelle scienze della vita?”, promossa al Museo della Scienza e della Tecnica in occasione del debutto della rivista INNLIFES. In particolare, per le startup delle LifeScience, tema centrale della nuova iniziativa editoriale, ci sono fondi per 1,4 miliardi di euro di venture capital italiani, a cui si aggiungono 520 milioni della missione 6 del PNRR, dedicata alla ricerca biomedica. Con la possibilità di attrarre ulteriori risorse dalla missione 4 del PNRR, dedicata al technology transfer, che ha un plafond di 2,4 miliardi.
Sul tema, il Governo sta muovendo i suoi passi: “Stiamo lavorando alla specifica missione di modernizzare le strutture pubbliche sanitarie, far avanzare la medicina digitale e migliorare le terapie digitali”, ha annunciato, in apertura dei lavori, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega all’Innovazione, Alessio Butti.
L’ecosistema delle Life Science è in forte sviluppo e si conferma come il più competitivo, produttivo e dinamico in questo momento della nostra storia economica. INNLIFES, edita da Indicon società benefit, nasce dedicata a questo comparto che in Italia conta più di 5.600 imprese, nei settori farmaceutico, medical device e biotecnologie, con valore della produzione (dati 2021) di circa 250 miliardi di euro (+6,9% rispetto al 2020). “È un settore che ha il bisogno e l’opportunità di accelerare: INNLIFES nasce per agevolare questo processo di crescita - spiega Elena Paola Lanati, CEO di Indicon -. L'ecosistema che genera innovazione è spesso popolato da attori che neppure si conoscono fra loro. La rivista vuole dare il suo contributo a chiudere questi gap, innanzitutto in tema di conoscenza, creando connessioni, informando, aiutando singole persone (business angel), società o istituzioni a capire cosa vuol dire individuare eccellenze e investire in start up”.
Il percorso offre prospettive, condizionate a una maggiore convergenza fra i diversi attori. La medicina, innanzitutto, deve affrontare il tema della digitalizzazione a partire dalla ricerca di base, tenendo conto di un fattore chiave: “Tutto oggi si muove in funzione della medicina preventiva e personalizzata, che cambia le logiche dell’innovazione in funzione della capacità di gestire le quantità di dati disponibili. SI tratta di fare non più un solo prodotto per tanti, ma tanti prodotti per ciascuno”, ha sottolineato Gianmario Verona Presidente del Consiglio di Sorveglianza della Fondazione Human Technopole. Per riuscirci, le tecnologie informatiche, l’intelligenza artificiale, la digitalizzazione, vanno innervate nel sistema Life Science “a partire dalla costruzione dei processi, da riprogettare in funzione dei nuovi strumenti, per poterne implementare al massimo le potenzialità”, come ha evidenziato Paolo Locatelli, responsabile scientifico dell’Osservatorio Sanità Digitale del Politecnico di Milano.
Un monito alle startup è stato lanciato da un investitore di primo piano, come Giovanni Tamburi, presidente amministratore delegato di TIP, che ha diversificato nelle startup attraverso Digital Magics: “Devono imparare a fare sistema. La moltiplicazione di incubatori, emanazioni di università e istituzioni locali, ripropone l'eccessiva frammentazione che caratterizza il mondo delle imprese e non agevola la crescita e il trasferimento delle idee e delle ricerche verso lo sviluppo per l’applicazione su scala industriale”.
La dimensione dell’opportunità rappresentata dallo sviluppo delle Life Science, dalle quali nascono nuovi farmaci e terapie avanzate per combattere le malattie e migliorare la qualità della vita delle persone, viene dai numeri del settore farmaceutico, che in Europa e nel mondo è il primo per intensità di R&D, raggiungendo nel 2021 il 16,6% (pari a oltre 200miliardi di dollari) degli investimenti in rapporto al fatturato. Nel solo comparto Biotech, non a caso quello che annovera anche il maggior numero di startup, gli analisti prevedono a livello globale una crescita di tre volte entro i prossimi anni, passando dai 223 miliardi di euro del 2020 alla proiezione di 731 miliardi di euro nel 2028. Durante la pandemia, il LifeScience ha acquistato ulteriore rilevanza e ampiezza, facendo crescere gli investimenti in Digital Health per il 92% delle aziende italiane della farmaceutica.
Ma l’Italia del farmaco, pur continuando ad essere leader d'Europa per produttività, con oltre 34 miliardi di euro di valore della produzione, davanti a Germania (32,4 miliardi di euro) e Regno Unito (25,3 miliardi di euro), resta indietro per attrazione di investimenti in R&D rispetto ai principali partner. Ad oggi (dati EPPIA), è ferma al 4% del totale come investimenti innovativi in ricerca e sviluppo dell’industria farmaceutica in Europa, mentre la Germania ha il 20%, il Regno Unito il 14%, la Francia l'11%. Da qui la scelta di Indicon, che è essa stessa una startup: “Con INNLIFES, a partire da questa giornata - ha commentato il direttore editoriale della rivista, Angelica Giambelluca -, daremo voce ai protagonisti delle LifeScience, dai ricercatori agli imprenditori, passando per i rappresentanti delle istituzioni, di medici e pazienti, per contribuire a fare sistema: l’Italia è un paese di innovatori, ma, come messo chiaramente in luce dal confronto sviluppato in questa giornata, deve accelerare in competitività e in capacità di attrarre e produrre innovazione al servizio delle persone”.
Scendono i contagi e i morti Covid in Italia nell’ultima settimana. Dal 26 maggio all’1 giugno si sono registrati 13.208 nuovi casi, in calo del 9,6% rispetto ai 7 giorni precedenti (quando erano 14.619). Sono stati 125 i decessi in 7 giorni, -16,7% rispetto alla settimana precedente (quando erano 150).
Sono i dati del bollettino settimanale del ministero della Salute, che fotografano l’andamento della situazione epidemiologica da Covid-19. E’ più o meno stabile il tasso di positività, che scende di 0,2 punti percentuali dal 5,6% al 5,4%. I test eseguiti sono stati 246.019, -5,1% rispetto ai 259.227 dei 7 giorni precedenti.
“L’incidenza di nuovi casi identificati e segnalati con infezione da Sars-CoV-2 in Italia è circa 25 casi ogni 100mila abitanti, stabile rispetto alla settimana precedente. E’ complessivamente basso l’impatto sugli ospedali, con un tasso di occupazione dei posti letto in lieve diminuzione sia nelle aree mediche che nelle terapie intensive”.
“Si ribadisce l’opportunità, in particolare per le persone a maggior rischio – si legge – di sviluppare una malattia grave in seguito all’infezione da Sars-CoV-2, di continuare ad adottare le misure comportamentali individuali previste e/o raccomandate, l’uso della mascherina, aerazione dei locali, igiene delle mani, ponendo attenzione alle situazioni di assembramento. L’elevata copertura vaccinale, il completamento dei cicli di vaccinazione e il mantenimento di una elevata risposta immunitaria attraverso la dose di richiamo, con particolare riguardo alle categorie indicate dalle disposizioni ministeriali come gli anziani e i gruppi di popolazione più fragili – ribadiscono gli esperti – rappresentano strumenti importanti per mitigare l’impatto clinico dell’epidemia”.
Non si può escludere l'ipotesi di una fuga del virus del Covid dal laboratorio. Passati più di tre anni dall'inizio dell'emergenza, ne parla l'esperto cinese George Gao, virologo e immunologo, che è stato a capo del Cdc cinese e ha avuto un ruolo centrale nella risposta alla pandemia e nel lavoro per tracciare le origini del virus.
Il governo cinese ha sempre respinto le ipotesi che tutto sia iniziato in un laboratorio di Wuhan. Invece Gao, come ha detto in un'intervista per un podcast di Bbc Radio 4, ritiene che "si possa sempre sospettare qualcosa". "E' la scienza - ha affermato - Non escludere nulla".
Gao ha lasciato lo scorso anno il Cdc cinese ed è ora vice presidente della Fondazione nazionale di scienze naturali della Cina. Alla Bbc ha detto che c'è stata una sorta di inchiesta formale sull'Istituto di virologia di Wuhan.
"Il governo ha organizzato qualcosa", ha aggiunto, precisando che il Cdc cinese non è stato coinvolto. "Sì, quel laboratorio è stato sottoposto a doppio controllo dagli esperti del settore", ha risposto quando gli è stato chiesto di chiarire se altri organi del governo si fossero occupati dell'indagine. E le sue parole, sottolinea la Bbc, sono il primo riconoscimento di una qualche forma di inchiesta ufficiale.
Gao ha sostenuto di non conoscerne le conclusioni, ma di aver "sentito" che il laboratorio ha avuto una certificazione di via libera. "Penso abbiano concluso che stanno seguendo tutti i protocolli - ha affermato - Non hanno riscontrato illeciti".
E Wang Linfa, scienziato di Singapore soprannominato 'Batman', che era nell'Istituto di virologia di Wuhan nel gennaio del 2020 ha raccontato alla Bbc di una collega dell'Istituto che era preoccupata per l'ipotesi fuga dal laboratorio, ma che era stata in grado di scartarla.
Wang collabora regolarmente con la virologa Shi Zhengli, nota come 'Batwoman', e ha raccontato che l'esperta gli ha detto di "non aver dormito per uno o due giorni" preoccupata per la possibilità che "nel suo laboratorio ci fosse un campione di cui non era a conoscenza, ma con un virus, che ha contaminato qualcosa ed è sfuggito". Secondo Wang, la virologa ha poi controllato i suoi campioni senza trovare problemi e non c'è "nessuna possibilità" che la 'Batwoman' o qualcuno del suo staff abbia nascosto prove di una fuga dal laboratorio, perché si sono sempre comportati tutti come se nulla fosse accaduto. E, ha aggiunto, la virologa ha seguito il suo suggerimento di prelevare campioni di sangue al suo staff per verificare l'eventuale presenza di anticorpi Covid nel gennaio 2020 e tutti gli esami sono risultati negativi. "Non sappiamo davvero da dove provenga il virus - ha concluso Gao nelle dichiarazioni alla Bbc - la questione è ancora aperta".
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"Nel 2020 ci sono stati 746.324 decessi, 108.496 casi in eccesso rispetto alla media del periodo 2015-19 (+14,7%)".
È quanto emerge dai dati definitivi sulle cause dei decessi avvenuti in Italia nell'intero anno 2020, diffusi oggi dall'Istat nel corso di una conferenza stampa organizzata a Roma presso la sede dell'Istituto Nazionale di Statistica. L'analisi, in particolare, consente di valutare dettagliatamente gli effetti sulla mortalità per cause specifiche dei primi dieci mesi della pandemia da Covid-19. I dati sono desunti dalle schede individuali per la denuncia delle cause di morte compilate dai medici.
"Malgrado questo incremento- si legge nel report- anche nel 2020 l'Italia si colloca tra i Paesi a bassa mortalità nel contesto europeo". La mortalità maggiore è causata da malattie circolatorie (227.350 decessi), tumori (177.858) e malattie respiratorie (57.113). "I decessi per Covid-19- spiega quindi l'Istat- ammontano a 78.673 e costituiscono il 73% dell'incremento complessivo dei decessi in eccesso registrati nel 2020 rispetto alla media dei cinque anni precedenti".
Il numero dei decessi con Covid-19 (che include anche i casi in cui il Covid-19 non è direttamente responsabile del decesso) è pari a 89.791. Più del 90% dei decessi per Covid-19 si sono verificati oltre i 65 anni di età, ma anche prima dei 65 anni si registrano più di 6mila morti. Al di sotto dei 50 anni di età i morti per Covid-19 sono 785, pari al 4,2% del totale dei morti in questa fascia di età. La frequenza dei decessi per Covid-19 in questa fascia di età è paragonabile a quella di altre cause di morte, quali malattie dell'apparato digerente e malattie ischemiche del cuore.
"Rispetto al 2015-19- rileva ancora l'Istat- nel 2020 aumentano i tassi standardizzati di mortalità per molte delle principali cause di morte: polmoniti e influenza (+13%), diabete (+12%), demenza e malattia di Alzheimer, (+6%), malattie genitourinarie (+11%), alcune malattie circolatorie (+8%), cadute accidentali (+14%); si riduce la mortalità per tumori (-4%), malattie ischemiche del cuore (-8%), malattie cerebrovascolari (-5%), accidenti di trasporto (-27%) e suicidi (-4%)". L'incremento del tasso di mortalità osservato nel 2020 sia per le demenze sia per polmoniti e influenza appare in linea con l'andamento di crescita osservato negli anni precedenti.
Per il gruppo delle altre malattie respiratorie (incluse le polmoniti interstiziali), il diabete, le altre malattie circolatorie e le malattie genitourinarie, il 2020 ha rappresentato un anno di picco della mortalità.
"Nel caso del diabete la forte crescita del tasso nel 2020- spiega ancora l'Istat- interrompe bruscamente la diminuzione osservata nel quinquennio precedente; un effetto simile è visibile anche con riferimento alla mortalità per il gruppo delle altre malattie circolatorie, determinato essenzialmente dall'aumento dei morti per cardiopatie ipertensive". Oltre i 65 anni di età aumentano i decessi per malattie respiratorie, soprattutto tra 65 e 74 anni (+23%); tra gli ultra-ottantacinquenni si osserva un aumento rilevante anche dei decessi per diabete, demenze e alcune malattie circolatorie. In continuità con quanto avviene negli anni precedenti, al di sotto dei 50 anni diminuiscono i decessi, per accidenti di trasporto (-32%), per tumori (-10%) e per suicidio (-11%), ma aumenta del 10% la mortalità delle malattie del sistema respiratorio.
Nel nord-ovest del Paese si rileva un forte aumento del tasso di mortalità per polmoniti e influenza (+27%) rispetto al quinquennio 2015-19, a fronte di aumenti più contenuti nel Sud (+4%) e nelle Isole (+3%), nessun incremento nel Nord-Est e una lieve riduzione nel Centro (-5%). Sempre nel Nord-Ovest si rilevano gli incrementi maggiori della mortalità per diabete (+19%) e per demenze (+14%). Aumentano i decessi nelle abitazioni in tutti i mesi successivi all'inizio della pandemia e riguardano tutte le cause. Negli istituti di cura, infine, si osserva un incremento delle morti per polmoniti e influenza (+42%), nelle strutture residenziali aumentano le morti per diabete (+37%) e per demenze (+29%).
Dompé farmaceutici S.p.A. ha annunciato oggi nuovi dati peer-reviewed che dimostrano come modifiche minime nella sequenza della proteina Spike (S) di SARS-CoV-2 possano annullare la sua capacità di indurre coagulazione nei pazienti Covid-19.
La capacità della proteina Spike di indurre infiammazione e coagulazione è collegata alla coagulopatia osservata nei polmoni, nel cuore e nei reni dei pazienti infettati dal virus, con effetti simili ed estremamente rari osservati in una minoranza di pazienti che hanno ricevuto i vaccini anti-Covid-19.
Le prime indicazioni di un possibile ruolo della proteina Spike nella coagulazione attraverso l’interazione con il recettore umano degli estrogeni Alfa (ERα) erano arrivate nei mesi scorsi dalla piattaforma di supercalcolo Exscalate. La piattaforma proprietaria di Dompé utilizza il supercomputer Marconi100 del Cineca di Bologna ed è già il primo utente industriale del nuovo Leonardo, quarto al mondo per potenza. Lo studio italo americano ha sviluppato le conoscenze prodotte da altre recenti ricerche, che avevano già indicato l’importanza dell’interazione di Spike con l’ERα umano nelle coagulopatie. Regolando la risposta immunitaria all'infezione, gli estrogeni normalmente circolanti nel flusso sanguigno svolgono infatti un ruolo protettivo per l’organismo umano. Lla proteina Spike presente sulla superficie del coronavirus è però in grado di modulare il segnale degli estrogeni, stimolando così segnali pro infiammatori che portano a ipertrofia, vasocostrizione e ostruzione dei vasi nei pazienti Covid.
Nel nuovo articolo gli scienziati della collaborazione italo-americana (che comprende, tra gli altri, il Centro Cardiologico Monzino, l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani e il Cnr in Italia e il National Institute on Drug Abuse e la Johns Hopkins School of Medicine negli Stati Uniti) hanno dimostrato che l'interazione tra la proteina Spike e l'ERα porta a un aumento del fattore tissutale (TF) e dell'attività pro-coagulativa complessiva in due linee cellulari endoteliali umane. I risultati sono stati ulteriormente validati nei modelli animali.
I ricercatori hanno anche mostrato che, come previsto da Exscalate, l’azione pro-coagulativa di Spike può essere eliminata o fortemente ridotta creando varianti delle proteine Spike con minime mutazioni nella zona della proteina che interagisce con il recettore umano degli estrogeni ERα.
“Il valore e i benefici dei vaccini nel contrastare la pandemia di COVID-19 rimangono indiscutibili rispetto ai rischi associati all'infezione da SARS-CoV-2” sottolinea Maurizio Pesce, responsabile dell’Unità di ricerca in ingegneria tissutale presso il Centro Cardiologico Monzino di Milano, e iniziatore dello studio nel 2021 insieme a Silvia Barbieri, responsabile dell’Unità di ricerca cuore-cervello del Monzino, “Ci auguriamo che questi risultati vengano considerati nello sviluppo della prossima generazione di vaccini, per ridurre gli effetti collaterali dei farmaci e i rischi residui. I nostri dati rivelano anche una nuova funzione della proteina virale nella regolazione diretta dei fattori associati alle trombosi. Ciò ha implicazioni generali non solo per Covid-19, ma anche per altre infezioni virali che alterano il profilo coagulativo dei pazienti”.
“Questa continua ricerca è fondamentale per comprendere i meccanismi patogenetici associati all'infezione da SARS-CoV2 e le cause di alcuni rari effetti collaterali del vaccino Covid-19", sottolinea Marcello Allegretti, Chief Scientific Officer di Dompé farmaceutici “La continua evoluzione della ricerca sta rivelando una regione ben conservata con le stesse caratteristiche della subunità S2 della proteina virale, che si osserva anche in altri Coronavirus. Questa evidenza potrebbe aprire nuovi scenari per una vaccinazione 'pan-Coronavirus'. Siamo entusiasti di identificare un percorso verso ulteriori strategie di perfezionamento per consentire benefici ancora più potenti attraverso future iniziative di vaccinazione e richiamo.”
Presso la Sala Caduti di Nassirya del Senato della Repubblica, nel corso della Conferenza Stampa “Covid-19, 3 anni dopo: quali impatti sulla salute e sulle prestazioni e il ruolo delle vaccinazioni” promossa dalla Senatrice Tilde Minasi, in collaborazione con The European House - Ambrosetti e il CEIS - Centre for Economic and International Studies - dell’Università di Roma Tor Vergata e il contributo non condizionante di Pfizer, esperti e Istituzioni si sono confrontati su come affrontare la nuova “normalità”, a poco più di 3 anni di distanza dalla dichiarazione della pandemia da parte dell’OMS e a 15 giorni dalla dichiarazione di fine emergenza sanitaria globale.
“Quello di oggi - ha affermato la Senatrice Tilde Minasi, Componente della Commissione Affari Sociali, Sanità, Lavoro pubblico e privato e Previdenza Sociale del Senato - è stato un appuntamento importante per discutere non solo degli impatti della pandemia sull’erogazione delle prestazioni e del contributo delle vaccinazioni, sia sugli outcome di salute che come contributo alla crescita economica, ma anche di come riorganizzare il sistema sanitario per essere in grado di saper rispondere prontamente, qualora dovessero verificarsi, a nuovi shock esterni come lo è stato la pandemia da Covid-19. Anche se l’emergenza globale si è conclusa dobbiamo avere in mente che ci accingiamo a vivere una fase di convivenza prolungata con il virus e dobbiamo prestare attenzione sia al monitoraggio dell’arrivo di nuove varianti che potranno comunque causare altre ondate di casi e decessi sia alla tutela della salute dei più fragili”.
A livello globale sono più di 765 milioni i casi di positività al virus confermati nel mondo dall'inizio della pandemia e quasi 7 milioni i decessi registrati. Nel panorama internazionale l’Italia, con più di 25 milioni di casi è stato uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia, con un numero significativo di decessi, pari a quasi 190.000, che si è rilevato soprattutto nella prima fase della pandemia, prima dell’avvio della campagna vaccinale. Nel corso della conferenza stampa sono stati anche presentati i risultati di una survey realizzata da The European House - Ambrosetti in collaborazione con SWG su un campione di 2.300 cittadini.
Dall’indagine emerge come il 47% dei cittadini che hanno contratto il virus ha seguito una terapia domiciliare, ma soltanto il 3% ha assunto i nuovi farmaci antivirali anti- Covid. Il 37% dei cittadini che ha contratto il virus ha avuto sintomi persistenti o segni e sintomi legati all’infezione a un mese di distanza della guarigione, ma di questi soltanto il 47% ha ricevuto una diagnosi conclamata di Long-Covid, con sintomi che hanno avuto impatti significativi sulla vita lavorativa a vario titolo e con solo il 12% che non ha riscontrato differenze nel portare avanti le proprie attività rispetto alla normalità. Escludendo inoltre la prima fase dell’emergenza pandemica, durante la quale erano state sospese alcune attività e prestazioni sanitarie pubbliche o convenzionate, il 47% dei cittadini ha dichiarato di aver subito dei disservizi nella prenotazione e fruizione di prestazioni sanitarie in termini di esami e prestazioni diagnostiche, esami/visite previste nel piano di cura o interventi chirurgici non urgenti, con un 13% che non è ancora riuscito a recuperare tali prestazioni.
In aggiunta, l’89% dei cittadini che si è rivolto al sistema pubblico ha riscontrato un allungamento delle liste di attesa che ha portato il 20% a rivolgersi al privato. Un intervistato su 5 ha riscontrato maggiori difficoltà di accesso anche alla somministrazione della terza e quarta dose di vaccinazione anti-Covid, riconducibile alla poca chiarezza da parte delle autorità sanitarie e alla distanza dei centri vaccinali dai domicili dei cittadini verificatasi dopo la chiusura degli hub vaccinali. Dell’89% del campione che si è vaccinato contro il Covid-19, il 67% ha dichiarato di aver effettuato anche la terza dose mentre solo il 15% riferisce di aver effettuato anche la quarta; pensando a eventuali dosi booster solo il 42% si dice propenso a un ulteriore richiamo mentre il 9% si dice ancora indeciso, segno evidente di quella che può essere definita vaccine fatigue.
“La survey fornisce alcune indicazioni importanti anche in riferimento alla fiducia dei cittadini italiani nei confronti delle vaccinazioni – ha sottolineato Rossana Bubbico, Consulente dell’Area Healthcare di The European House – Ambrosetti. Deve far riflettere come rispetto alla rilevazione condotta esattamente un anno fa, la percentuale di cittadini che ritiene i vaccini uno strumento sanitario sicuro ed efficace per contrastare le malattie infettive sia passata dal 92% al 76%, mentre la percentuale di cittadini in disaccordo con quest’affermazione sia cresciuta di 11 punti percentuali, dal 6% al 17%. Anche il livello di fiducia nei confronti di tutti i vaccini dopo l’esperienza della pandemia risulta aumentato solo per il 15% del campione, rispetto al 33% del 2022: questo potrebbe voler significare che l’entusiasmo registrato nella precedente rilevazione fosse dettato più dalla paura del virus che da una reale comprensione del valore dei vaccini come strumento di tutela della salute del singolo e della collettività. Basti pensare infatti che nell’ultimo anno, se si esclude la vaccinazione anti-Covid, il 34% degli over 65 del campione ha dichiarato di non aver eseguito nessun’altra vaccinazione nonostante fossero raccomandate dal Ministero della Salute”.
Tra gli strumenti che, a detta degli stessi cittadini, possono contribuire ad aumentare il livello di fiducia nei confronti dei programmi di vaccinazione, figurano una maggiore e più efficace comunicazione da parte del Ministero della Salute e delle ASL e un maggior dialogo con il proprio medico o farmacista di fiducia, così come un aumento dei punti di vaccinazione a partire da luoghi di lavoro e farmacie; il 61% della platea di non vaccinati non pensa ci siano strumenti efficaci di contrasto dell’esitazione.
Il rafforzamento della comunicazione in campo vaccinale è anche uno dei 10 obiettivi del nuovo Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale 2023-2025 non ancora approvato dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, ad oltre un anno e mezzo dal termine dei lavori del Tavolo tecnico incaricato dal Ministero della Salute di perfezionare la proposta di Piano (31 dicembre 2021) e a quasi un anno dal termine della revisione dei contenuti dello stesso Piano da parte del Gruppo consultivo nazionale sulle vaccinazioni (28 maggio 2022).
Tra le novità più rilevanti del nuovo Piano, figura anche il percorso distinto di aggiornamento del Calendario Vaccinale in funzione degli scenari epidemiologici, delle evidenze scientifiche e delle innovazioni in campo biomedico. Non compare all’interno del nuovo Calendario la vaccinazione anti-Covid, così come non vengono fornite indicazioni circa l’organizzazione della campagna vaccinale anti-Covid per i fragili. “È necessario procedere con estrema urgenza all’inserimento della vaccinazione anti SARS-CoV-2 nel piano vaccinale la cui assenza è dovuta al fatto che il piano è stato redatto durante il picco pandemico quando la vaccinazione era routinaria e normata da criteri di emergenza - ha ripreso la Professoressa Roberta Siliquini, Presidente della Società Italiana d’Igiene, Medicina preventiva e Sanità pubblica. La copertura ampia e continuativa di soggetti fragili ed anziani e dei loro contatti e conviventi è di fondamentale importanza per prevenire gli effetti più severi di una patologia la cui gravità è nota ed è mutata solo grazie alle ampie coperture vaccinali raggiunte”.
Il vaccino anti-Covid-19 rappresenta ad oggi una delle più prodigiose scoperte della medicina moderna, arrivata sul mercato a meno di un anno dal sequenziamento del virus. Il processo di sviluppo del vaccino anti-Covid ha subito un’accelerazione senza precedenti a livello globale grazie a una serie di motivazioni tra cui le ricerche già condotte in passato sulla tecnologia a RNA messaggero, gli studi sui coronavirus umani correlati al SARS-CoV-2, le ingenti risorse umane ed economiche messe a disposizione in tempi stretti, la conduzione parallela delle varie fasi di valutazione e di studio, la produzione del vaccino parallelamente agli studi e al processo di autorizzazione, l’ottimizzazione della parte burocratica/amministrativa.
“La tutela della salute dei cittadini ha un impatto positivo diretto anche in termini di crescita sociale ed economica - ha sottolineato Paivi Kerkola, Country President di Pfizer Italia - Dal nostro punto di vista Pfizer mette a disposizione le competenze, la scienza e la capacità organizzativa con cui abbiamo dimostrato di poter sviluppare il vaccino contro il Covid- 19 in tempi record. Auspicando una sempre maggiore collaborazione tra pubblico e privato, credo che il sistema Paese sarà in grado di rispondere alle crescenti esigenze sanitarie e alle sfide sanitarie del futuro". Il successo della campagna di vaccinazione anti-Covid ha permesso non solo di ridurre la probabilità di ammalarsi di malattia grave, e conseguentemente la probabilità del verificarsi di ospedalizzazioni, ricoveri in terapia intensiva e decessi e di incorrere nel Long-Covid, ma ha giocato un ruolo chiave anche nel determinare la ripresa economica, dopo la maggior contrazione del PIL dal dopoguerra ad oggi registrata nel nostro Paese nel 2020.
“Lo studio che abbiamo pubblicato nel 2021 sul Journal of Knowledge Management – ha affermato Francesco Saverio Mennini, Research Director EEHTA del CEIS, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Roma Tor Vergata; Presidente SIHTA – ha evidenziato come la crescita del PIL sia dipendente dal tempo necessario alla messa in atto e all'esecuzione del piano vaccinale nazionale. Un ritardo nel raggiungimento dell'obiettivo di copertura vaccinale contro la COVID-19 avrebbe generato una perdita di PIL pari a più di 200 miliardi di euro tra il 2021 ed il 2022. L'enormità di queste cifre indica, una volta di più, come la sanità rappresenta un investimento e non un costo per il Paese e per la società nel suo complesso. Al suo interno, la prevenzione rappresenta una delle forme di investimento più costo efficace e più cost saving. L’accelerazione impressa alla campagna vaccinale anti-Covid registrata nel corso del 2021 ha consentito una ripresa che ancora oggi continua ad essere sostenuta e superiore alle attese che si è concretizzata con una crescita del PIL importante; in aggiunta anche a livello regionale nel corso del 2021, per ogni punto percentuale di copertura vaccinale anti-Covid aggiuntivo, si è assistito a un delta-crescita del PIL dello 0,12%.
Valutare (anche in modo molto anticipato), quindi, le condizioni sotto le quali una Innovazione possa trovare spazio nei budget dei sistemi pubblici, in quanto in grado di assicurare quel “Valore” che la collettività (e non solo il payor) si aspetta e intende pagare sembra proprio essere l’approccio da seguire al fine di garantirci un “nuovo rinascimento” per il nostro SSN”. L’esperienza pandemica ha quindi messo in luce il valore chiave delle vaccinazioni, ma ha anche mostrato una non marginale ed eterogenea parte della popolazione che mostra una qualche forma di esitanza, anche tra i vaccinati, e alcune sacche di forte resistenza verso i vaccini sui cui è importante intervenire rafforzando la comunicazione e personalizzando fortemente i messaggi in funzione del target da raggiungere.
Una nuova ondata di Covid 19 è in corso in Cina, con un picco da circa 65 milioni di contagi a settimana atteso a fine giugno secondo le previsioni di Zhong Nanshan, il principale esperto di malattie respiratorie del gigante asiatico, intervenuto a Guangzhou al Greater Bay Area Science Forum.
Ad alimentare la nuova ondata di contagi - riporta il 'Globel Times' - sono le varianti XBB di Sars-CoV-2, diventate dominanti nel Paese. Mutanti contro cui la Cina ha approvato due nuovi vaccini prossimi alla commercializzazione e si appresta ad autorizzarne altri 3 o 4, ha riferito Zhong.
Per la National Health Commission le varianti XBB, ricombinanti di Omicron, mostrano una trasmissibilità e una fuga immunitaria superiori a Omicron, ma senza cambiamenti significativi in termini di patogenicità. L'ondata in corso non dovrebbe dunque produrre sugli ospedali cinesi gli effetti travolgenti visti lo scorso inverno dopo l'abbandono della politica Zero Covid. Wang Guangfa, esperto di malattie respiratorie del Peking University First Hospital, ha però sottolineato al Global Times l'importanza per le persone fragili di adottare opportune misure di prevenzione.
Le restrizioni adottate per contrastare la pandemia di Covid-19 hanno drasticamente aumentato l'esposizione ai dispositivi elettronici nei minori, comportando un forte incremento dei disturbi del sonno. È quanto ha rilevato uno studio condotto su più di 1.000 tra bambini e adolescenti e coordinato dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù insieme all’Università La Sapienza e a quella di Tor Vergata. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Sleep Medicine.
LO STUDIO
Lo studio è stato realizzato somministrando tra aprile e giugno 2021 1.209 questionari a genitori di bambini e adolescenti di età compresa tra i 2 e i 18 anni. Di questi, 1084 sono stati poi effettivamente utilizzati, dopo aver scartato quelli compilati in maniera parziale. Il questionario era suddiviso in più parti: quella anagrafica, quella sullo stato di salute, quella sull’uso dei dispositivi elettronici prima e durante la pandemia, quella specifica per valutare i disturbi del sonno (Sleep Disturbance Scale for Children).
La coorte è stata costruita includendo una vasta fascia di popolazione di bambini e ragazzi sani, di età compresa tra i 2 e i 18 anni ed era composta da 569 maschi e 515 femmine. Dei 1.084 tra bambini e ragazzi, il 6,3% frequentava il nido, il 23,5% la scuola d'infanzia, il 39,7% quella primaria, il 15,9% quella secondaria, il 12,9% le scuole superiori e l’1,7% non era ancora scolarizzato.
LA PANDEMIA E L’AUMENTO DELL’ESPOSIZIONE AGLI SCHERMI
Lo studio ha rilevato che rispetto al periodo pre-pandemia l'aumento del tempo trascorso davanti a uno schermo ha riguardato complessivamente il 68.7% dei bambini e dei ragazzi. Nello specifico il tempo di esposizione è più che triplicato per motivi scolastici (da poco meno di un’ora al giorno a tre ore e mezza) e ha riguardato il 72% di bambini e ragazzi. Mentre per uso ricreativo l’uso è quasi raddoppiato (da un’ora e trequarti a tre ore) e ha riguardato il 49,7% dei soggetti.
Considerando solo le ore serali (dopo le 18) l'aumento del tempo di esposizione ai dispositivi è stato osservato nel 30% del campione (325 bambini). Si è passati da appena il 13,7% di bambini e ragazzi che trascorrevano più di due ore davanti agli schermi prima del Covid al 29,1% (più del doppio). Un dato particolarmente significativo visto che i fattori maggiormente associati al rischio di insorgenza di disturbo del sonno sono proprio quelli relativi al tempo passato davanti a uno schermo nelle ore serali.
DISTURBI DEL SONNO: UNA CRESCITA DEL 50%
Obiettivo dello studio era quello di verificare l’aumento dell’uso dei dispositivi elettronici durante la pandemia studiandone gli effetti sul sonno dei minori. Per valutare la presenza o meno dei disturbi del sonno, è stato utilizzato lo Sleep Disturbance Scale for Children, un apposito questionario che consiste in 26 domande che consentono di valutare le abitudini riguardanti il sonno nei bambini e negli adolescenti. Le domande comprendono la durata del sonno, le difficoltà nell’addormentarsi e nello svegliarsi, il numero di volte in cui ci si sveglia durante la notte, lo stato di agitazione durante il sonno, ecc.
Lo studio condotto dai medici della Neurologia dello Sviluppo e dai ricercatori di Malattie Neurologiche e Neurochirurgiche del Bambino Gesù insieme ai colleghi dell’Università della Sapienza e a quelli di Tor Vergata, ha dimostrato un aumento di oltre il 50% dei disturbi del sonno rispetto al periodo pre-pandemia. Nel dettaglio, si è passati da 240 bambini e adolescenti che mostravano già disturbi del sonno prima dell’inizio della pandemia, ai 367 durante la pandemia: il 33,9% di tutto il campione, praticamente un minore su tre.
«I dati dello studio hanno dimostrato una correlazione tra l’aumento dell’uso di dispositivi elettronici durante il Covid e l’aumento dei disturbi del sonno – spiega la dottoressa Romina Moavero della neurologia dello sviluppo del Bambino Gesù – Ma c’è un altro elemento molto importante. E cioè che lo stile di vita dei bambini e di ragazzi è cambiato profondamente. Ormai i dispositivi elettronici fanno parte della loro vita, sia scolastica che sociale, e questo persiste anche ora che siamo molto lontani dalle chiusure pandemiche. Tutto questo non fa che sottolineare l'importanza delle raccomandazioni di igiene del sonno che devono essere sempre considerate la prima linea di trattamento per promuovere comportamenti adeguati a favorire il buon sonno in infanzia e in adolescenza. Soprattutto perché il sonno in questa fascia di età è cruciale per migliorare apprendimenti, abilità cognitive, scolastiche e anche sociali».
L'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha inserito la variante XBB.2.3 di Sars-CoV-2, battezzata Acrux dagli esperti sui social, fra le varianti Covid sotto monitoraggio (Vum), dopo che questo mutante è cresciuto nell'arco di 5 settimane, da 1,8% del totale sequenze rilevate nel mondo a 4,64% (ultimo dato, relativo al 24-30 aprile). E' quanto spiega l'Oms nell'ultimo aggiornamento settimanale su Covid.
Al momento l'agenzia Onu per la salute ha come 'osservate speciali' due varianti Covid, considerate varianti d'interesse (Voi): la prima è Kraken (XBB.1.5) che, sebbene sia ancora la più rilevata nel mondo (in 110 Paesi), ha un trend ormai in calo da settimane ed è scesa al 43,8% sul totale sequenze nella settimana 17 (dal 24 al 30 aprile 2023); l'altra è Arturo (XBB.1.16) che invece continua a crescere e, nella stessa settimana, è a quota 11,6%, segnalata da 49 Paesi.
Le evidenze disponibili, spiega l'Oms, "non mostrano un aumento della gravità per i lignaggi discendenti di XBB. Uno studio epidemiologico condotto a Singapore per valutare la gravità delle varianti di Sars-CoV-2 in 3.798 partecipanti, non ha trovato significative differenze nell'infezione da Covid o negli esiti dei ricoveri tra i lignaggi discendenti di XBB, incluso Arturo e Kraken. Inoltre, un recente studio di laboratorio ha mostrato che XBB.1.16 e XBB.1.5 hanno simili caratteristiche di immunoevasione. Oltre ad Acrux, tra le varianti sotto monitoraggio hanno mostrato tendenze in aumento nelle ultime settimane Hyperion (XBB.1.9.1), che nella settimana 17 pesa per il 13,9% delle sequenze depositate; XBB Gryphon (9,85%) e XBB.1.9.2 (4,1%).
Intercettato all'ospedale Sacco di Milano un caso dell'ultima variante di Sars-CoV-2 finita al centro dell'attenzione degli esperti e già battezzata sui social 'Acrux'.
"Si tratta di quello che dovrebbe essere il secondo caso rilevato in Italia di XBB.2.3.2", spiega all'Adnkronos Salute Maria Rita Gismondo, che nella struttura meneghina è direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze. Nel dettaglio, una 'figlia' di Acrux, che è XBB.2.3 e ha già sfornato mutanti derivati ??(come questo ritenuto il più veloce da esperti indiani).
"E' un dato epidemiologico, niente di allarmante - puntualizza Gismondo - Perché questa variante è già presente in molti Paesi del mondo: in India, negli Stati Uniti, in Spagna, in alcune regioni asiatiche. E lì l'unica osservazione che è stata fatta, e che stiamo facendo, è che si mostra forse un po' più contagiosa, ma non con una maggiore gravità di patologia. Rimane tutto in uno scenario non pandemico".
"Certo - aggiunge Gismondo - tutto questo è importante, perché significa che la rete di controllo funziona. E' necessario, visto che questo virus continua a dare varianti, tenerlo sotto controllo, appunto con una buona rete epidemiologica a livello mondiale, ma è solo una questione speculativa di osservazione, niente di allarmante per la popolazione. Questo va sottolineato".
Oggi, spiega la microbiologa, "abbiamo veramente pochissimi tamponi da analizzare al giorno" per Covid, " pochissimi positivi e sicuramente anche dal punto di vista clinico nessuna particolare preoccupazione". Nella fase attuale, quella di Sars-CoV-2 "è una circolazione identificata da virus endemico".
Acrux è stata intercettata "nell' ambito della sorveglianza nella nostra area di competenza, che è la città di Milano", informa l'esperta, che spiega che il tampone poi risulta essere un caso di questa nuova variante "è venuto fuori da un controllo sul territorio. Controlli che bisogna continuare a fare, assolutamente. Come si dovrebbe fare anche per gli altri virus - evidenzia Gismondo - E infatti ci siamo organizzati proprio così come Regione Lombardia, per un'osservazione della circolazione di tutti i maggiori virus respiratori".
" Noi oggi prendiamo i tamponi positivi a Sars-CoV-2, che come ho detto sono ormai un numero ridotto, e li sequenziamo totalmente in modo da evidenziare di quale variante si tratta. Questa volta - conclude - era XBB.2.3.2", da poco dotata di 'nickname' dagli esperti attivi sui social e impegnati nell'osservazione delle varianti Covid, che per la nuova arrivata della famiglia dei ricombinanti XBB hanno scelto un nome evocativo: Alfa Crucis, sistema stellare appartenente alla costellazione della Croce del Sud e una delle stelle più luminose.
I medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta potranno contare su un documento snello, con solide basi scientifiche, per decidere in autonomia e sulla base della situazione contingente se e come rendere obbligatorio l'uso delle mascherine nei loro studi e garantire il contenimento del rischio infettivo.
Grazie ad un lavoro realizzato di concerto tra i medici della Federazione italiana dei medici di medicina generale (Fimmg) e della Federazione italiana dei medici pediatri (Fimp), è stato infatti varato un manuale operativo che, in poco più di 10 pagine, offre ai singoli camici bianchi criteri di valutazione che si adattano ai differenti scenari epidemiologici e alle rispettive specificità organizzative. "Non un'elencazione rigida di linee guida- sottolinea Tommasa Maio (Fimmg)- bensì uno strumento agile e flessibile che, guardando alle differenze che inevitabilmente contraddistinguono le varie realtà assistenziali di prossimità, riesca a favorire comportamenti omogenei.
Il documento è un po' come 'una cassetta degli attrezzi' che vuole supportare le scelte dei singoli professionisti chiamati ad applicare questo strumento ai vari contesti ed offrire quella pronta risposta e resilienza alle emergenze infettive auspicate dall'OMS". A rendere impellente la realizzazione delle raccomandazioni operative è stato il cambiamento dello scenario epidemiologico legato al Covid, ma non per questo il documento guarda solo al Sars-Cov-2. "Sono misure rapide, modulabili, efficaci per tutte le forme respiratorie infettive che si trasmettono con le medesime modalità- aggiunge Maio- sia che si tratti di forme infettive stagionali (come l'influenza), sia che si tratti di virus come il Covid, privi di una loro stagionalità, e quindi utili a contenere il rischio di infezioni per gli assistiti che afferiscono ai nostri studi, ma anche a proteggere i medici ed i loro collaboratori".
Una risposta, quella della Fimmg e della Fimp, che dimostra quanto i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta abbiano apprezzato la valorizzazione del ruolo e della professionalità riconosciuta dalla recente ordinanza del ministro Orazio Schillaci (GU n.100 del 29.04.2023). Ordinanza che riconosce ai singoli medici un primario ruolo di prevenzione e tutela della salute della collettività e autonome capacità professionali, organizzative e gestionali. Altro aspetto fondamentale, dice Martino Barretta (Fimp) è che "la sinergia tra prevenzione vaccinale ed utilizzo appropriato delle mascherine FFP2 rappresenta una strategia di controllo delle principali infezioni respiratorie efficace ed economicamente sostenibile. Si determina, insomma, un approccio proattivo alle malattie infettive che il setting della pediatria di libera scelta e della medicina generale, se ben organizzato e dotato dei necessari strumenti, riesce a sviluppare in maniera diffusa". Come detto, sono due i macro-criteri indicati nel documento stilato da Fimmg e Fimp, ovvero quello epidemiologico e di contesto organizzativo.
Ciò consentirà di organizzare le attività negli studi alla luce dei dati di prevalenza e incidenza ed eventuali nuove indicazioni ministeriali. Il documento guarda con lungimiranza alla possibilità che nel futuro ci si trovi ad affrontare nuove epidemie o pandemie, consentendo ai singoli medici di mettere in campo una risposta rapida ed efficace, improntata alla migliore organizzazione possibile.
A partire da un approccio "One care", tipico dell'azione fiduciaria e di rapporto individuale e personalizzato del medico di medicina generale e del pediatra di libera scelta, si mira quindi ad una risposta che possa considerare da subito aspetti emergenti sulla salute pubblica, con azioni che riducano - ove possibile - l'impatto ambientale legato all'utilizzo continuo e persistente dei dispositivi di protezione respiratoria, in equilibrio con le emergenze sanitarie derivanti dai cambiamenti climatici con conseguenze nuove e non ancora espresse in ambito sanitario. Medici di medicina generale e pediatri di libera scelta puntano ad essere resilienti al nuovo mondo che evolve con le migliori scelte organizzative e gestionali sul livello di prossimità di cura del territorio. Comportamenti che consentiranno di tenere il passo, in attesa di una vera politica di sviluppo "One Health", che dovrà entrare nella cultura dei cittadini grazie ad un nuovo ruolo dei medici e pediatri di famiglia, che con questi atti raccolgono la sfida.
"Sfida- concludono Maio e Barretta- che attraverso strumenti come questo potrà anche rafforzare la rete di scambio informativo tra Territorio e Dipartimenti di Prevenzione, con i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta, primarie sentinelle territoriali della salute pubblica, rispondendo in pieno al concetto della 'collaborative surveillance', pilastro del piano strategico OMS appena emanato".