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- COVID. OMS DICHIARA LA FINE DELLA PANDEMIA
- Il Consiglio federale proroga il programma di promozione per medicamenti anti-COVID-19
- COVID, MASCHERINE OBBLIGATORIE IN RSA E PER TUTELA FRAGILI. RACCOMANDATE IN OSPEDALE MA DECIDE DIRETTORE SANITARIO
- Covid, 11 milioni di genomi virali per scoprire le varianti pericolose
- COVID. OMS, ARTURO (XBB.1.16) NELL' ELENCO DELLE VARIANTI DI INTERESSE VOI. ALTRE 6 VARIANTI SONO MONITORAGGIO
- Covid, variante Arturo identificata a Pavia
- COVID. BASSETTI, NO A MASCHERINE IN OSPEDALE DOPO 30 APRILE
- COVID, 5957 persone decedute in Svizzera nel 2021. Terza causa di morte dopo malattie cardiovascolari e tumori. 19 morti per il vaccino tutti over 80
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- Covid. Moderna, studi su mRna porteranno a vaccino per il tumore
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Dopo oltre tre anni la pandemia da Covid-19 è arrivata alla fine. A dichiararlo è l'Organizzazione mondiale della sanità che su twitter ha pubblicato un'ultima ora in cui annuncia: "L'emergenza sanitaria globale è finita".
"Ieri il Comitato di emergenza si è riunito per la 15esima volta e mi ha raccomandato di dichiarare la fine dell'emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale. Ho accettato il consiglio", scrive nel post il direttore generale dell'Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus.
Il Direttore Generale dell'OMS ha preso in considerazione il parere fornito dal Comitato in merito alle Raccomandazioni Temporanee proposte e le ha emesse come da dichiarazione sottostante. Il direttore generale dell'OMS convocherà un comitato di revisione del RSI per fornire consulenza sulle raccomandazioni permanenti per la gestione a lungo termine della pandemia di SARS-CoV-2, tenendo conto del piano strategico di preparazione e risposta al COVID-19 2023-2025 . Durante questa transizione, si consiglia agli Stati Parte di continuare a seguire le Raccomandazioni temporanee emesse. Il Direttore Generale ha espresso la sua sincera gratitudine al Presidente, ai Membri e ai Consiglieri del Comitato per il loro impegno e consulenza durante gli ultimi tre anni.
Il Consiglio federale ha deciso di prorogare fino al 30 giugno 2024 il programma di promozione per medicamenti anti-COVID-19. In questo modo è possibile continuare a sostenere lo sviluppo di due medicamenti specifici di aziende svizzere.
Nel maggio 2021 il Consiglio federale ha adottato un programma di promozione per la ricerca, lo sviluppo e la produzione di medicamenti anti-COVID-19, contribuendo così all’approvvigionamento sicuro di tali farmaci in Svizzera. Poiché anche nei prossimi anni sono da attendersi decorsi gravi della COVID-19, ospedalizzazioni e persone affette da condizione post-COVID-19, è importante che le relative terapie siano disponibili.
Il Parlamento ha approvato un credito di 50 milioni di franchi per la produzione e lo sviluppo di medicamenti da parte di aziende con sede in Svizzera. Di questi, finora sono stati versati 14,2 milioni di franchi a quattro aziende. Due progetti sono stati interrotti nel 2022, poiché i medicamenti finanziati non avevano mostrato l’efficacia desiderata.
Il programma di promozione sostiene attualmente ancora due progetti. La GeNeuro SA sta sviluppando un medicamento contro i sintomi neuropsichiatrici della condizione post-COVID-19. La Noorik Biopharmaceuticals SA, invece, sta studiando un medicamento per il trattamento dei pazienti COVID-19 ospedalizzati, che presentano un elevato rischio di insufficienza polmonare acuta.
Il programma di promozione era inizialmente limitato alla fine di marzo 2023. Con la proroga fino a metà 2024 la Confederazione potrà continuare a sostenere i progetti in corso. Ciò presuppone tuttavia che anche la legge COVID-19, base legale del programma, rimanga in vigore sino ad allora. Il Parlamento ha approvato la proroga nel dicembre 2022 e questa è entrata immediatamente in vigore.
Poiché contro la legge è stato indetto un referendum, la popolazione sarà chiamata alle urne il 18 giugno 2023. Se la legge sarà respinta, tutte le disposizioni prorogate e quindi anche la base legale per il programma di promozione saranno abrogate a metà dicembre 2023.
Mascherine in ospedale e Rsa, nuove regole dopo la scadenza dell'obbligo il 30 aprile. A quanto apprende l'Adnkronos, la nuova ordinanza a cui stanno lavorando i tecnici del ministero della Salute dovrebbe prevedere una riduzione delle aree in cui pazienti, personale e parenti in visita dovranno indossare la mascherina per quanto riguarda gli ospedali a partire dall'1 maggio.
E oggi il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha annunciato che rimarrà l'obblligo di indossare le mascherine nelle Rsa, nei reparti ospedalieri di malattie infettive e nei Pronto soccorso. L'annuncio dell'esponente del governo è giunto a margine della cerimonia di consegna delle medaglie al merito per la sanità pubblica al Quirinale. Schillaci ha precisato che oggi firmerà l'ordinanza in materia.
Nelle zone in cui non sarà più obbligatorio, l'idea è di lasciare una raccomandazione all'uso del dispositivo di protezione, se sono presenti anziani, pazienti fragili e immunodepressi, per tutelarli. La decisione finale spetterà comunque ai direttori sanitari degli ospedali, ai direttori medici delle strutture territoriali e a medici di famiglia e pediatri nei loro studi e nelle sale d'attesa.
In pronto soccorso, per evitare il diffondersi di contagi Covid-19, si va verso la conferma dell'obbligo di indossare la mascherina per i pazienti con sintomi respiratori e i contatti come il personale, altri pazienti e parenti, nel rispetto dei percorsi già seguiti.
Secondo la nuova ordinanza al bar, in mensa e nelle sale di stazionamento degli ospedali, le mascherine non saranno più obbligatorie né consigliate, dopo la scadenza del 30 aprile.
Nelle Rsa e nelle strutture sul territorio di lungodegenza e riabilitazione, anche dopo il 30 aprile le mascherine rimarranno obbligatorie per il personale dipendente e i parenti in visita. Con questa misura si continua a tutelare anziani fragili e immunodepressi, che sono nelle Rsa e che così possono continuare a ricevere visite, senza correre rischi.
Un team dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche di Bari (Cnr-Ibiom), dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, dell’Università Statale di Milano, con il supporto della piattaforma di genomica e bioinformatica messa a disposizione dal nodo italiano dell’Infrastruttura di ricerca europea Elixir per le scienze della vita, ha messo a punto un sistema computazionale per l’identificazione delle varianti virali più pericolose per la salute pubblica mediante una analisi comparativa di oltre 11 milioni di genomi virali campionati nel corso della pandemia.
Lo studio, pubblicato su Nature Communications Biology, ha preso in esame il virus della sindrome respiratoria acuta grave coronavirus di tipo 2 (SARS-CoV-2), che dall’inizio della pandemia ha subito una costante evoluzione, assumendo le forme di numerosissime “varianti” classificate in funzione della loro rilevanza epidemica e sanitaria come VOC (variant of concern), VOI (variant of interest) e VUM (variant under monitoring) a seconda del grado di infettività, della capacità di eludere la risposta immunitaria, e della severità della malattia causata.
“Per fronteggiare una crisi pandemica e minimizzarne l’impatto sociale e sanitario è cruciale la capacità di riconoscere immediatamente le varianti più pericolose (VOC): l’analisi retrospettiva presentata in questo studio dimostra come il tempo intercorso tra la prima osservazione delle varianti critiche (es. alfa, delta, omicron), pari anche a oltre due mesi, si sia rilevato troppo lungo per mettere in atto pratiche di contenimento adeguate”, spiega Graziano Pesole del Cnr-Ibiom e dell’Università di Bari. “Attraverso questo nuovo studio è stato possibile, mediante un’analisi comparativa di un gran numero di caratteristiche derivate dall’analisi dei genomi virali, elaborare un indice di “pericolosità” che può essere calcolato in pochi secondi non appena la nuova variante viene osservata”.
Tale metodologia innovativa permette, così, di caratterizzare nuove varianti non appena queste cominciano a moltiplicarsi nella popolazione, valutando il potenziale impatto patogenico ed epidemiologico di eventuali nuove pandemie con tempestività, e migliorando anche l’efficienza della risposta sanitaria.
“Lo studio dimostra l’importanza della sorveglianza genomica per campionare in modo omogeneo i genomi virali in diversi intervalli di tempo e a intervalli di tempo regolari”, conclude Pesole.
“HaploCoV: unsupervised classification and rapid detection of novel emerging variants of SARS-CoV-2”, Communications Biology volume 6, Article number: 443 (2023), DOI : 10.1038/s42003-023-04784-4, link: https://www.nature.com/
La variante Arturo (XBB.1.16) di Sars-CoV-2 è stata aggiunta all'elenco delle varianti d'interesse (Voi) monitorate dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), a seguito di un incontro del gruppo consultivo tecnico sull'evoluzione del virus Tag-Ve che si è tenuta il 17 aprile. A darne notizia è l'Oms nel suo aggiornamento settimanale su Covid.
L'agenzia Onu per la Salute sta dunque attualmente monitorando due varianti d'interesse: Kraken (XBB.1.5) e Arturo (XBB.1.16). Oltre a queste osservate speciali, si vigila anche su 6 varianti sotto monitoraggio (Vum) e sui loro sottolignaggi: vale a dire BA.2.75 (Centaurus), CH.1.1 (Orthrus), BQ.1 (la famiglia di Cerberus), XBB (Gryphon), XBB.1.9.1 (Hyperion) e XBF (Bythos).
La ragione per cui si è deciso di elevare Arturo, finita sotto i riflettori per il boom di contagi rilevato in India, a variante d'interesse è che, "a causa del suo vantaggio di crescita stimato e delle caratteristiche di fuga immunitaria, XBB.1.16 può diffondersi a livello globale e contribuire ad un aumento dell'incidenza dei casi", spiega l'Oms.
XBB.1.16, battezzata Arturo dagli esperti attivi sui social, è un lignaggio discendente da XBB (Gryphon), che è un ricombinante di sottovarianti di Omicron 2 (BA.2). Questa variante è stata riportata per la prima volta a gennaio 2023 e aggiunta alla lista Oms delle varianti sotto monitoraggio Vum il 22 marzo scorso.
A livello globale nell'ultima settimana monitorata dall'agenzia, la numero 13 del 2023 dal 27 marzo al 2 aprile, risulta essere comunque sempre Kraken (XBB.1.5) la variante più diffusa: è stata segnalata da 96 paesi e nella settimana considerata rappresentava il 50,8% del totale sequenze depositate, con un aumento rispetto al 46,2% della settimana 9 (dal 27 febbraio al 5 marzo 2023), quindi nell'arco di un mese. Anche rispetto alla settimana immediatamente precedente c'è stata una crescita (da 48,9% a 50,8).
Mentre la variante Arturo è stata per ora segnalata da 31 Paesi e nella settimana 13 rappresentava il 4,2% delle sequenze inviate, in aumento rispetto a un mese prima, dall'0,5% della settimana 9. Sebbene l'Oms ritenga abbia il potenziale per diffondersi e far crescere i contagi, viene precisato anche che "al momento non vi sono segnali di un aumento della gravità". Su Arturo la valutazione iniziale del rischio "è in corso e dovrebbe essere pubblicata nei prossimi giorni", informa l'agenzia.
Tra le varianti sotto monitoraggio, quelle che mostrano un trend in crescita sono Gryphon (da 8,4 a 25,8% in un mese, con un balzo in avanti dal 19,9% della settimana immediatamente precedente) e Hyperion (da 4,4 a 7,9% in un mese). Altre Vum hanno presentato trend decrescenti o stabili nello stesso periodo.
"È stata identificata dall'equipe del professor Fausto Baldanti, direttore dell'Unità di Microbiologia e Virologia del IRCCS San Matteo di Pavia, la variante covid XBB.1.16 denominata 'Arturo', e non sono presenti evidenze per prevedere misure aggiuntive". Lo comunica l'assessore al Welfare della Regione Lombardia, Guido Bertolaso.
"Al momento non sono presenti notizie di altre identificazioni di 'Arturo' a livello italiano, e- prosegue Bertolaso, che si complimenta con l'equipe di Baldanti- abbiamo prontamente avvisato il ministero della Salute e i nostri laboratori sono in continuo contatto con l'Istituto Superiore di Sanità, con i quali collaborano alla sorveglianza nazionale". Come spiega lo stesso Baldanti, la variante 'Arturo' è stata identificata attraverso lo screening attivo presso l'ospedale, che include sia pazienti ricoverati sia i pazienti che accedono al Pronto soccorso.
"Il Centro Europeo per il controllo delle Malattie Infettive (ECDC)- spiega il virologo- nel report del 23 marzo non ha ancora associato la variante a caratteristiche di maggior impatto né sulla gravità, né sulla capacità di infettare, al momento stiamo valutando attentamente la situazione". Anche per questa nuova variante come sottolinea Bertolaso "rimane sempre importante come prevenzione, non solo per il covid, ma per tutti i virus respiratori, una corretta igiene delle mani e l'utilizzo di mascherine in presenza di persone fragili/malate e quando si hanno i sintomi dell'influenza".
BASSETTI: VARIANTE ARTURO NON È PERICOLOSA PER GLI OCCHI
"A leggere alcuni giornali italiani sembra che dispiaccia che la pandemia sia finita e il Covid-19 sconfitto nella sua gravità clinica. Si legge infatti che in India la variante Arturo sta contagiando moltissimi bambini, anche i più piccoli. L'infezione colpisce gli occhi. Ben 7.830 nuovi positivi nelle ultime 24 ore. Sapete quanti sono gli abitanti dell'India? Un miliardo e mezzo. Sarebbe come avere 300 casi al giorno nel nostro Paese. Quanti probabilmente ce ne sono abitualmente ogni giorno a Milano o a Roma". Lo scrive sul proprio profilo Facebook il direttore della Clinica di Malattie Infettive del Policlinico San Martino di Genova, Matteo Bassetti. "Si dice poi- prosegue l'infettivologo- che è pericolosa per gli occhi. No, non è pericolosa per gli occhi. Causa una congiuntivite come quasi tutti i virus influenzali e parainfluenzali. Per noi medici è un segno molto tipico che non ci preoccupa".
"Arturo- sottolinea Bassetti- è una sottovariante di omicron ed è quindi molto contagiosa. Questo virus di oggi non ha più alcuna caratteristica clinica di quello visto nel marzo del 2020. Assomiglia più al raffreddore o ad un virus parainfluenzale che non al Covid-19". "Si dice poi che in India per questi aumenti reintroducono la mascherina obbligatoria. Mi auguro che una certa stampa di casa nostra non stia facendo allarmismo ingiustificato su Arturo per provare a fermare la fine di tutti gli obblighi introdotti con il Covid. Fosse così- conclude- sarebbe una grave invasione di campo".
"Dobbiamo continuare con mascherine e tamponi obbligatori?". Se lo domanda sulla propria pagina Facebook il direttore della Clinica di Malattie Infettive del Policlinico San Martino di Genova, Matteo Bassetti.
"Mi auguro- prosegue l'infettivologo- non si prolunghi oltre il 30 aprile l'obbligo di mascherina nelle strutture sanitarie, anche se, in situazioni dove è consigliata e opportuna, sarà bene continuare a utilizzarla e chiedere ai visitatori di farlo". "Dobbiamo però uscire dalla dimensione dell'obbligo- ammonisce- è il momento di trattare il Sars-Cov-2 come altri virus simili. Farlo avrebbe ricadute positive su molti aspetti che appesantiscono l'organizzazione ospedaliera, legati ad esempio ai tamponi". "Anche per quel che riguarda i tamponi dopo il 30 aprile- aggiunge Bassetti- mi auguro si faranno unicamente sui sintomatici e quando servono veramente. Gli ospedali e le strutture sanitarie sono troppo appesantiti da questi obblighi". "Già altri Paesi molto evoluti dal punto di vista sanitario, come la Svizzera e il Portogallo hanno eliminato l'obbligo della mascherina in ospedale. Ora- conclude- tocca a noi!".
Nel 2021 sono decedute 71.192 persone appartenenti alla popolazione residente della Svizzera. La quota di decessi con COVID-19 come causa principale di morte ammontava all’8,4%, situandosi quindi al terzo posto dopo le malattie cardiovascolari (27,6%) e i tumori (23,7%).
In entrambi gli anni pandemici 2020 e 2021 sono stati registrati due periodi di elevata sovramortalità, in gran parte dovuti ai decessi con la COVID come causa di morte. Tuttavia, il terzo periodo di sovramortalità rilevato, verificatosi alla fine del 2021, l’entità della sovramortalità non è interamente riconducibile alla COVID-19. Questo è quanto emerge dal monitoraggio della mortalità e dalla statistica delle cause di morte del 2020 e del 2021 realizzati dall’Ufficio federale di statistica (UST).
Nel 2021 sono deceduti 35.105 uomini e 36.087 donne appartenenti alla popolazione residente della Svizzera, il che corrisponde a un tasso di mortalità standardizzato pari a 502 ogni 100 000 per gli uomini e a 342 ogni 100.000 per le donne. Rispetto al 2019 si tratta di un aumento del 2,7% (+2349 decessi) per gli uomini e dello 0,1% (+1063 decessi) per le donne, tasso che è quindi rimasto pressoché invariato. Si nota quindi che la mortalità complessiva degli uomini è ancora leggermente al di sopra di quella precedente la pandemia di COVID-19, mentre quella delle donne è quasi tornata al livello prepandemico.
Sovramortalità per COVID-19
Attraverso il monitoraggio continuo della mortalità effettuato dall’UST, che sorveglia il numero settimanale di decessi, nei due anni pandemici 2020 e 2021 sono stati osservati tre periodi di sovramortalità per la fascia di età dai 65 anni in su: marzo 2020 – aprile 2020, ottobre 2020 – gennaio 2021 e novembre 2021 – dicembre 2021 .
Durante questi periodi, tra le persone appartenenti alla fascia di età dai 65 anni in su ne sono decedute 12 029 in più (36,4%) del previsto. In questi periodi, per la fascia di età dagli 0 ai 64 anni è stata registrata una sovramortalità solo in alcune settimane, con un numero di decessi di 519 unità (11,4%) superiore a quello atteso. Nei due anni pandemici 2020 e 2021, la sovramortalità registrata in questi tre periodi è stata quindi inferiore al numero di decessi dovuti alla COVID-19 registrati per queste fasce di età nell’arco dell’intero periodo (65 anni o più: 14 480; 0–64 anni: 771). Questa differenza è riconducibile in particolare al fatto che nel monitoraggio settimanale la sovramortalità viene rilevata solo quando il numero di decessi osservati supera il limite superiore dell’intervallo di previsione statistica.
Durante i primi due periodi, la sovramortalità corrisponde in gran parte al numero di decessi dovuti alla COVID-19. Per il terzo periodo, invece, i decessi dovuti alla COVID-19 registrati nella statistica delle cause di morte non possono più spiegare completamente l’entità della sovramortalità rilevata.
Meno decessi per COVID-19 nel 2021 che nel 2020
Nel 2021 le persone decedute per COVID-19 sono state 5957 in totale, di cui 3156 uomini (53,0%) e 2801 donne (47,0%). Nel corso dell’anno precedente sono decedute per COVID-19 un totale di 9294 persone, di cui 4902 uomini (52,7%) e 4392 donne (47,2%). Anche nel 2021 questi decessi hanno riguardato principalmente persone anziane. Nella fascia di età dai 65 anni in su, i decessi per COVID-19 sono stati 5498, mentre nella fascia di età dagli 0 ai 64 anni i decessi sono stati 459.
Rispetto al 2020, nel 2021 il numero di decessi dovuti alla COVID-19 è quindi diminuito di 3484 unità nella fascia dai 65 anni in su, mentre è aumentato di 147 casi in quella dagli 0 ai 64 anni. L’età media delle persone decedute per COVID-19 nel 2021 era di 80,0 anni per gli uomini e di 84,7 anni per le donne. Rispetto al 2020, nel 2021 l’età media è diminuita di 2,2 anni per gli uomini e di 1,5 anni per le donne.
In 19 casi il vaccino anti-COVID-19 è stata la principale causa di morte
In Svizzera, il primo vaccino contro la COVID-19 è stato somministrato il 23 dicembre 2020. L’anno successivo, secondo quanto riportato nei certificati di morte, i decessi per i quali gli effetti collaterali indesiderati della somministrazione di vaccino contro la COVID-19 sono stati indicati come causa principale sono stati 19. Più precisamente, si è trattato di dieci donne con un’età media di 86 anni e nove uomini con un’età media di 80 anni. I certificati di morte in questione indicano anche che in ognuno di questi casi erano presenti significative malattie concomitanti. Le più frequenti sono state le malattie cardiovascolari (13 casi), seguite poi dalla demenza (2 casi) e dalle malattie respiratorie (2 casi).
Malattie cardiovascolari e tumori in continuo calo
Nel 2021, 10 531 donne e 9114 uomini di età media rispettivamente di 87 e 81 anni sono deceduti per malattie cardiovascolari. Ciò corrisponde a un tasso di mortalità standardizzato per età pari a 123 ogni 100 000 uomini e a 83 ogni 100 000 donne. Rispetto al 2019, si tratta di un calo del 4,3% per gli uomini e del 4,7% per le donne, con un numero di decessi per malattie cardiovascolari che è rimasto invariato per gli uomini e che è invece in calo di 256 unità per le donne.
Nel 2021 i tumori sono stati la causa di morte di 7615 donne e 9265 uomini, con un’età media di 75 anni per entrambi i sessi. Ciò rappresenta un tasso di mortalità standardizzato per età di 136 ogni 100 000 uomini e di 93 ogni 100 000 donne. Rispetto al 2019, questo tasso è diminuito del 4,6% (–57 casi) per gli uomini e del 6,6% (–255 casi) per le donne.
Proseguono il calo dei suicidi e l’aumento dei suicidi assistiti
Nel 2021 si sono tolti la vita 286 donne e 719 uomini, con un’età media rispettivamente di 55 e 56 anni, il che corrisponde a un tasso di mortalità standardizzato per età pari a 6 donne e 14 uomini ogni 100 000 persone. Rispetto al 2019, ciò rappresenta un calo del 4,8% (–23 casi) per gli uomini e un aumento del 3,8% (+10 casi) per le donne.
I casi di suicidio assistito sono invece aumentati, come già avevano fatto negli anni precedenti: nel 2021, 580 uomini e 811 donne hanno fatto ricorso al suicidio assistito. La loro età media era rispettivamente di 77 e 78 anni. Rispetto al 2019, l’aumento è stato di 97 casi per gli uomini (+20,1%) e di 98 per le donne (+13,7%).
Alcuni fattori climatici, come ad esempio una certa intensità dei raggi ultravioletti, hanno influito sull'andamento della diffusione del Covid 19 in Italia, nella prima ondata e nella seconda ondata del 2020.
E' la conclusione di uno studio scientifico condotto da un gruppo di ricercatori dell'università di Modena e Reggio Emilia, dei dipartimenti di scienze biomediche, metaboliche e neuroscienze e di ingegneria "Enzo Ferrari". La ricerca, appena pubblicata sulla rivista nei settori della sanità pubblica e della medicina ambientale "Environmental Research", ha incrociato per la prima volta dati meteorologici ed epidemiologici, ed è stata finanziata tramite un bando del Miur a cui l'ateneo emiliano ha candidato il progetto.
Nello specifico, gli autori hanno preso in esame l'andamento orario di temperature, umidità e radiazione ultravioletta nell'intero territorio nazionale durante il 2020, comparandolo all'evoluzione delle infezioni, dei ricoveri e dei decessi per Covid in ciascun giorno e provincia italiana. I dati meteo sono stati tratti dal Centro europeo per le previsioni a medio termine, che ha una delle sue sedi a Bologna. Secondo i risultati dello studio pare che l'umidità esterna non abbia avuto nessuna sostanziale influenza su diffusione e severità clinica del virus in Italia, mentre una radiazione Uv, eccedente alcuni valori, ha giocato un'azione "inibitoria", specie nel corso della seconda ondata.
Moderna si dice fiduciosa sul fatto che i primi vaccini per il cancro e le malattie cardiovascolari e autoimmuni possano arrivare entro la fine del 2030 grazie all'esperienza acquisita dai vaccini anti-covid. Lo riferisce 'The Guardian' che cita Paul Burton, il direttore sanitario del gruppo farmaceutico Moderna che ritiene che il gruppo sarà in grado di offrire questo tipo di trattamento in soli cinque anni.
I progressi fatti grazie al successo dei vaccini mRna anti-Covid, riferisce il quotidiano britannico, sono molto promettenti e hanno consentito alla ricerca sui vaccini contro il cancro di fare passi avanti tanto che l'equivalente di 15 anni di progressi sono stati compiuti in 12-18 mesi.
Moderna che ha sviluppato uno dei vaccini più efficaci contro il coronavirus, sta sviluppando vaccini contro il cancro che colpiscono diversi tipi di tumore. "Avremo quel vaccino e sarà altamente efficace, e salverà molte centinaia di migliaia, se non milioni di vite. Penso che saremo in grado di offrire vaccini antitumorali personalizzati contro diversi tipi di tumore alle persone di tutto il mondo", spiega Burton.
"Penso che avremo terapie basate sull'mRna per malattie rare che in precedenza non erano farmacologiche, e penso che tra 10 anni ci avvicineremo a un mondo in cui è veramente possibile identificare la causa genetica di una malattia e, con relativa semplicità, andare a modificarla e ripararla usando la tecnologia basata sull'mRna", spiega ancora Burton. Ma, rileva il quotidiano, gli scienziati avvertono che i progressi rapidi compiuti in questi ultimi tre anni, saranno sprecati se non verranno mantenuti gli alti livelli di investimenti attuali.
"Negli ultimi mesi abbiamo avuto le prove che l'mRna non è solo utile per combattere le malattie infettive e il Covid. Può essere applicato a tutti i tipi di aree patologiche: cancro, malattie infettive, malattie cardiovascolari, malattie autoimmuni, malattie rare. Abbiamo studi in tutte queste aree e tutti sono molto promettenti".
L'obbligo di indossare mascherine chirurgiche in un grande ospedale londinese durante i primi 10 mesi di diffusione della variane Omicron (da dicembre 2021 a settembre 2022) non ha determinato alcuna differenza nella riduzione delle infezioni da SARS-CoV-2 contratte in ospedale, secondo una nuova ricerca, che sarà presentata nei prossimi giorni al Congresso Europeo di Microbiologia Clinica e Malattie Infettive (ECCMID) a Copenaghen.
L'uso della maschera fa parte di un pacchetto di misure di controllo delle infezioni impiegate per ridurre la COVID-19 negli ospedali durante la pandemia. Questo intervento a basso contenuto tecnologico e a basso costo, senza benefici consolidati, è stato ragionevole all'inizio della pandemia. Tuttavia, con la riduzione della gravità della malattia COVID-19, nelle varianti successive, il rapporto rischio/beneficio delle maschere è stato messo in discussione.
Per saperne di più, i ricercatori del St George's Hospital di Londra sud-occidentale hanno analizzato i dati di controllo delle infezioni raccolti di routine in un periodo di 40 settimane compreso tra il 4 dicembre 2021 (la prima settimana in cui la variante Omicron è diventata dominante) e il 10 settembre 2022 (quando è cessato lo screening universale della COVID-19 al momento del ricovero mediante PCR) per esaminare le infezioni da SARS-CoV-2 contratte in ospedale in relazione ai cambiamenti delle politiche di utilizzo delle mascherine. Nel Regno Unito l’obbligo è terminato a giugno 2022, poi ogni decisione è stata lasciata ai singoli ospedali. Durante la prima fase dello studio (dal 4 dicembre 2021 al 1° giugno 2022), a tutto il personale e ai visitatori è stato richiesto di indossare le mascherine sia nelle aree cliniche che in quelle non cliniche dell'ospedale.
Nella seconda fase, (dal 2 giugno 2022 al 10 settembre 2022), è stata tolta la mascherina per la maggior parte dei reparti (gruppo di studio), mentre un sottogruppo di reparti ad alto rischio (ematologia e oncologia renale, l'unità di ricovero medico e di terapia intensiva) ha mantenuto l’obbligo per il personale (gruppo di controllo). La variante Omicron è stata il ceppo dominante per tutto il periodo dello studio. Il tasso di infezione da SARS-CoV-2 dell'ospedale è stato aggiustato su quello base della comunità, identificato dallo screening di routine all'ammissione.
Dall'analisi è emerso che durante un'impennata generale dell'infezione da SARS-CoV-2 nella comunità nel giugno 2022, la rimozione delle maschere non è stata associata a una variazione statisticamente significativa del tasso di infezione da SARS-CoV-2 acquisita in ospedale nel gruppo di studio, con un tasso di infezione da SARS-CoV-2 non superiore a quello registrato quando le maschere erano obbligatorie. Inoltre, gli autori non hanno osservato un effetto ritardato, con nessun cambiamento nel tasso di infezione da SARS-CoV-2 durante il periodo in cui l’obbligo è stato rimosso. Allo stesso modo, il gruppo di controllo che ha continuato a indossare le maschere non ha riscontrato alcun cambiamento immediato o ritardato nel tasso di infezione.
«Il nostro studio non ha trovato prove che l'obbligo di mascherare il personale abbia un impatto sul tasso di infezione ospedaliera da SARS-CoV-2 con la variante Omicron- afferma il dr Ben Patterson del St George's University Hospitals NHS Foundation Trust di Londra e autore principale dello studio- Questo non significa che le maschere siano inutili contro l'Omicron ma il loro beneficio nel mondo reale sembra essere, nel migliore dei casi, modesto in un ambiente sanitario».
Antonio Caperna
"Dal 1 aprile il costo del tampone Covid -19 necessario per la diagnosi differenziale nelle patologie respiratorie è a carico del cittadino. Lo denunciano i medici di medicina generale. Non è un pesce d'aprile, ma una nuova tassa sulla malattia Covid. Unica cosa rimasta è l'obbligo di notifica dei malati, che senza tampone è impossibile".
Così in un comunicato la Fimmg Lazio. "L'alternativa che rimane è pagare di tasca propria la prestazione. Un corto circuito che si è trasformato in un ennesimo esborso da parte del cittadino. L'accertamento con il tampone Covid è necessario per differenziare l'infezione dalle altre patologie virali o batteriche, inoltre, soprattutto nei soggetti fragili e più esposti alle complicanze sistemiche del virus e negli ultra sessantacinquenni, è propedeutico per instaurare la terapia antivirale specifica oggi disponibile, che però va iniziata entro 5 giorni dalla comparsa dei sintomi. In questi casi una diagnostica corretta e precoce è obbligata, pena gravi conseguenze per i pazienti fragili. Fino al 31 marzo- continua la Fimmg- era possibile effettuare gratuitamente per il cittadino un tampone diagnostico dal proprio medico di famiglia, tale prestazione clinica era rimborsata dal sistema regionale, ma dal primo aprile non è più così.
Questa nuova situazione aumenterà inevitabilmente la pressione sui Pronto soccorso, contrariamente alle intenzioni dichiarate della Giunta di ridurla. Abbiamo già avvertito la Regione nei giorni scorsi- conclude la Fimmg Lazio- e sollecitato provvedimenti atti a superare il problema, senza risposta, ora la regione dica chiaramente se e come i Medici di medicina generale possano continuare a fare il loro lavoro di diagnosi e cura, rispetto ad una malattia che rimane pericolosa per i pensionati e per i soggetti più fragili".
Per avere i vaccini anti-Covid che hanno impresso una svolta alla pandemia il rischio finanziario più grande lo hanno assunto sulle proprie spalle gli Stati, non le imprese farmaceutiche: 30 miliardi di euro contro 16.
Sono le conclusioni a cui approda uno studio realizzato da Massimo Florio dell'università Statale di Milano, membro del Forum Disuguaglianze e Diversità, insieme alla collega di ateneo Simona Gamba e a Chiara Pancotti del Centro studi Csil, su richiesta del Parlamento europeo, Commissione speciale sugli insegnamenti da trarre dalla pandemia (Covi). Il lavoro rileva la forte prevalenza del rischio finanziario assunto dal pubblico rispetto al privato nel capitolo vaccini.
Il contributo decisivo nell'individuazione e sviluppo di questi prodotti, "che hanno concorso a salvare le vite di cittadini e cittadine dalla pandemia Covid-19 in Europa e negli Usa e altrove, è venuto dagli Stati, cioè dai contribuenti, che hanno messo a rischio i propri fondi ben più di quanto abbiano fatto le imprese, sia nella ricerca e sviluppo, sia nell'avvio delle produzioni", si legge in una nota diffusa dal Forum DD. Lo studio presenta "la prima stima mai effettuata di quanti investimenti le imprese e gli Stati, il privato e il pubblico, hanno realizzato per individuare e sviluppare i vaccini prima di sapere che funzionassero (quindi investimenti 'a rischio')", si spiega.
I vaccini presi in esame sono 9. Per questi lo studio ha stimato che le imprese hanno realizzato investimenti di 5 miliardi di euro per ricerca e sviluppo e di 11 miliardi per investimenti produttivi prima di avere certezza di vendita, per un totale di 16 miliardi. A fronte di essi, "dall'esterno, in quasi completa provenienza dagli Stati, sono arrivate alle imprese sovvenzioni a fondo perduto di 9 miliardi per ricerca e sviluppo (con enorme variabilità fra imprese riceventi e in larga misura dagli Usa) e 21 miliardi di 'advanced purchase agreements' (in parti simili da Usa e Ue), cioè accordi di acquisto prima dell'autorizzazione dei vaccini stessi, per un totale di 30 miliardi".
"Questo dato - commenta Fabrizio Barca, co-coordinatore del Forum DD - nega in primo luogo che gli elevatissimi extra-profitti realizzati dalle imprese farmaceutiche nella vendita dei vaccini che, per alcuni di essi hanno raggiunto decine di miliardi di euro per singola impresa, siano in qualche misura giustificati dal rischio di mercato da loro assunto. Un rischio due volte maggiore è stato assunto dagli Stati con mezzi delle persone contribuenti (di oggi o di domani). Ma a fronte di tale rischi, gli Stati non hanno esercitato la funzione di governo e controllo delle decisioni di prezzo e distribuzione, che competono a chi si assume la maggioranza del rischio". Con l'eccesso di risorse finanziarie riversate, i governi avrebbero potuto rafforzare i sistemi sanitari pubblici, si legge ancora nella nota, in cui si fa notare anche che "Moderna e Pfizer hanno annunciato di volere quintuplicare il prezzo a dose, portandolo a circa 100 dollari dagli attuali 20".
"Per cui si ricomincerà a dover pagare un conto illimitato". Per di più, argomenta lo studio, "senza che i fortissimi differenziali di prezzo fra i diversi vaccini siano accompagnati da alcuna valutazione delle differenze nella loro efficacia". Per gli esperti è necessaria una "correzione di rotta". E a detta loro "la scelta sin qui compiuta dall'Ue con Hera", l'Autorità per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie, "non va" nella direzione migliore. Occorre, dichiara Florio, "un intervento pubblico europeo per prevedere e affrontare le prossime pandemie e per altre emergenze già visibili. In campi cruciali per la salute, serve la messa a punto di farmaci, vaccini, diagnostica e altri rimedi, da offrire ai cittadini come beni comuni: con ricerca e sviluppo anche in collaborazione con imprese private, ma mantenendo fermamente sotto controllo pubblico la 'proprietà intellettuale' e le decisioni strategiche su tutto il ciclo dell'innovazione biomedica e del farmaco in quei campi".
Lo studio argomenta che nell'immediato è necessario normare a livello europeo la condivisione delle decisioni di prezzo e distribuzione fra privato e pubblico in relazione all'entità dei rispettivi investimenti. A regime, la strada appropriata è quella di avviare "la costruzione di un'infrastruttura pubblica, come quella proposta nello studio precedente 'Biomed Europa', svolto dagli stessi economisti per lo Science and Technology panel del Parlamento europeo (Stoa), a partire da una idea maturata già nel 2019 nel Forum DD", si legge nella nota. Lo studio verrà illustrato in Italia il 12 aprile nella Fondazione Basso di Roma.
La Cina ha approvato il suo primo vaccino anti-Covid a mRna prodotto in patria. L'autorità regolatoria del farmaco ha autorizzato il vaccino, sviluppato dal Cspc Pharmaceutical Group, per l'uso di emergenza, secondo quanto dichiarato dall'azienda stessa in una nota.
"SYS6006 - si legge - è un vaccino a mRna sviluppato in maniera indipendente dal gruppo, e copre la sottovariante Omicron BA.5, nelle sue principali mutazioni sulla proteina Spike. I risultati dei trial di fase 1 e 2 e gli studi clinici sulla vaccinazione booster eterologa con 5.500 partecipanti hanno dimostrato la sua sicurezza, immunogenicità ed efficacia". Secondo l'azienda "una dose di richiamo di SYS6006 ha mostrato una buona neutralizzazione incrociata anche contro altre sottovarianti, come BF.7, BQ.1.1 (Cerberus), XBB.1.5 (Kraken) e CH.1.1 (Orthrus) nei partecipanti che avevano ricevuto 2 o 3 dosi di vaccino inattivato".
Nel gigante asiatico non erano stati usati i vaccini a mRna sviluppati e utilizzati all'estero, la campagna di immunizzazione della popolazione si era basata su vaccini a virus inattivato made in China, delle aziende Sinovac, e Sinopharm che però si erano rivelati meno efficaci dei prodotti a mRna usati altrove nel mondo. Ora la svolta con quello che l'azienda definisce "il primo vaccino a mRNA sviluppato in modo indipendente in Cina autorizzato per l'uso in emergenza". Il gruppo ora considererà "le attuali caratteristiche di mutazione del virus Sars-CoV-2, prevederà l'andamento di queste in ceppi futuri e promuoverà lo sviluppo di nuove generazioni di vaccini a mRna contro ceppi mutati".
Continua il calo dei casi e dei morti di Covid segnalati nel mondo, ma con una netta ripresa dei contagi tra Mediterraneo orientale e Sudest asiatico dove spicca il boom dell'India: il Paese alle prese con la variante 'Arturo' (XBB.1.16) - ricombinante di Omicron finito sotto i riflettori anche sui social, tanto da meritarsi il nickname che rimanda a una delle stelle più luminose del firmamento - fa registrare un +251% casi in 28 giorni nell'ultimo bollettino diffuso dall'Organizzazione mondiale della sanità.
Frena invece la crescita dei contagi in Europa. Complessivamente, a livello globale nel periodo dal 20 febbraio al 19 marzo sono stati segnalati oltre 3,7 milioni di casi e oltre 26mila decessi, pari a -31% e -46% rispettivamente rispetto ai 28 giorni precedenti. Al 19 marzo, da inizio pandemia sono oltre 760 milioni i contagi confermati e oltre 6,8 milioni le morti.
Ancora una volta l'Oms ribadisce che "le tendenze attuali sono sottostime del numero reale di infezioni e reinfezioni" da Sars-CoV-2, "come mostrano le indagini sulla prevalenza. Questo è in parte dovuto alla riduzione dei test e ai ritardi nella segnalazione in molti Paesi. I dati presentati possono essere incompleti e pertanto dovrebbero essere interpretati con cautela", avverte l'agenzia ginevrina che, nel monitorare le variazioni delle tendenze epidemiologiche, effettua ormai i confronti su intervalli di 28 giorni perché "questo aiuta a tenere conto dei ritardi di segnalazione, ad appianare le fluttuazioni settimanali nel numero di contagi e a fornire un quadro più chiaro rispetto a dove la pandemia sta accelerando o decelerando".
A livello regionale, negli ultimi 28 giorni i nuovi casi sono dunque aumentati in tre delle 6 regioni Oms (+89% Mediterraneo orientale, +70% Sudest asiatico, +9% Europa), mentre sono diminuiti nelle altre tre (-58% Pacifico occidentale, -43% Africa, -28% Americhe). Le nuove morti sono scese in 5 regioni (-76% Pacifico occidentale, -57% Africa, -38% Americhe, -24% Sudest asiatico, -15% Europa), mentre sono aumentate del 68% nel Mediterraneo orientale.
Negli ultimi 28 giorni il numero più alto di nuovi casi Covid è stato segnalato da Stati Uniti (792.202, -29%), Federazione Russa (339.564, +25%), Cina (320.029, -50%), Giappone (291.672, -73%) e Germania (281.468, -18%) mentre per decessi riportati in testa ci sono Usa (8.187, -39%), Regno Unito (2.474, -9%), Giappone (1.898, -71%), Brasile (1.587, -15%) e Cina (1.472, -85%).
Per la regione europea, il report Oms indica negli ultimi 28 giorni oltre 1,5 milioni di contagi e 9.607 morti. Ventinove Paesi hanno registrato aumenti del 20% o più dei nuovi casi, con gli incrementi più elevati riportati da Kirghizistan (+461%), Armenia (+216%) e Ucraina (+201%). Il numero più alto di nuovi contagi è stato segnalato da Federazione Russa (339.564, 232,7/100mila, +25%), Germania (281.468, 338,4/100mila, -18%) e Austria (139.925, 1.572,0/100mila, +33%), mentre in testa per nuove morti ci sono Regno Unito (2.474, 3,6/100mila, -9%), Federazione Russa (1.035, meno di 1/100mila, -6%) e Germania (985, 1,2/100mila, -27%).
KRAKEN E ARTURO - Cresce intanto nel mondo la quota di sequenze Sars-CoV-2 riconducibili a Kraken (XBB.1.5), l'unica variante considerata 'di interesse' (Voi) dall'Organizzazione mondiale della sanità nel suo nuovo sistema di classificazione. Secondo l'aggiornamento, la prevalenza di Kraken - segnalata in 85 Paesi - è salita al 37,7% a livello globale, rispetto al 29% del periodo 30 gennaio-5 febbraio (settimana 5). Riguardo invece alle 5 varianti sotto monitoraggio (Vum), tutte mostrano una tendenza alla stabilità o al calo tranne i sottolignaggi XBB, aumentati dal 5,7% della settimana 5 al 12,5% della settimana 9.
Della famiglia XBB di Omicron fa parte anche XBB.1.16, che sui social gli esperti hanno ribattezzato 'Arturo' - come la gigante rossa che è la stella più luminosa della costellazione del Boote, la quarta più brillante del cielo - ritenendola la possibile responsabile del nuovo picco di contagi registrato dall'India. Ieri il pediatra Vipin M. Vashishtha, ex coordinatore dell'Accademia indiana di pediatria e componente dell'iniziativa Vaccine Safety Net (Vsn) dell'Oms, ha segnalato in un tweet il primo caso di Arcturus intercettato in Cina e ha spiegato che al momento il sottolignaggio XBB.1.16 è stato rilevato in 17 Paesi, compresi Canada e Singapore, per un totale di 474 isolamenti.
L’Oms potrebbe a breve dichiarare la fine della pandemia da Covid 19. Ciò nonostante, ogni giorno in Italia, secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero della salute, muoiono circa 30 persone per infezioni da SARS-CoV-2. E a perdere la vita sono principalmente i soggetti fragili.
Ecco perché rimane una priorità di sanità pubblica incrementare tutte le attività finalizzate a una corretta profilassi vaccinale e all’applicazione di protocolli terapeutici precoci e mirati. Soprattutto per tutti coloro che risultano ad elevato rischio di progressione verso forme di malattia grave.
Se ne è discusso a Roma durante l’incontro “mAbs nell’Early Treatment. Controversie e consensi nel paziente fragile con Covid-19: non creiamo anticorpi”, promosso a Roma da GlaxoSmithKline.
Secondo l’ultimo bollettino diffuso dal Ministero della Salute sono 212 i decessi causati ancora dal covid in una settimana. Come a dire che ogni giorno sono circa 30 le persone che muoiono a causa del virus. C’è quindi un bisogno non soddisfatto. “Il trattamento precoce con anticorpi monoclonali e antivirali rappresenta a tutt’oggi la strategia più efficace insieme alla vaccinazione per prevenire l’ospedalizzazione, le complicanze e il decesso per covid. Diverse condizioni sia anagrafiche che cliniche sono state correlate con il rischio di progressione della malattia. Nella pratica clinica è comunque spesso complicato riuscire a classificare in maniera precisa la vulnerabilità e il grado di rischio dei singoli pazienti. – spiega Massimo Andreoni, Direttore scientifico Società Italiana di Malattie Infettive e tropicali- Simit.
Nel momento iniziale della pandemia sono stati infatti identificati come fattori di rischio: l’età avanzata, il sesso biologico maschile e l’obesità. Oltre a questi fattori, caratterizzanti le prime fasi pandemiche, sono state definite altre condizioni legate al carico delle comorbosità, che hanno consentito di identificare tipologie di pazienti a maggior rischio di sviluppare malattia grave. Le patologie che colpiscono il sistema immunitario in modo diretto - come nel caso di infezione HIV, neoplasia ematologica, impiego di chemioterapia o immunosoppressione iatrogena o indirettamente, come nel caso di insufficienza renale, possono determinare di per sé un incremento del rischio di ospedalizzazione e malattia grave da COVID-19 e di prognosi infausta.
Ecco perché la comunità scientifica per questi pazienti ad elevato rischio di progressione verso forme gravi di Covid 19 raccomanda una terapia precoce dell’infezione mediante anticorpi monoclonali. Nei pazienti fragili, il vantaggio dell’anticorpo monoclonale rispetto ai farmaci antivirali è quello di bloccare l’ingresso del virus prima dell’entrata nella cellula dell’ospite, e di indurre potenzialmente l’attività citotossica anticorpo-dipendente nel caso le cellule vengano infettate. Gli ulteriori vantaggi della terapia con anticorpi monoclonali riguardano la possibilità di essere utilizzati anche in soggetti con politerapia in quanto le interazioni farmacologiche sono pressoché assenti.
In particolare, in Italia è attualmente disponibile un anticorpo monoclonale per il trattamento precoce dell’infezione da SARS-CoV-2, sotrovimab. Proprio recentemente, lo scorso 21 febbraio il National Institute for Health and Care Excellence (Nice) è intervenuto raccomandando l’utilizzo di questo anticorpo monoclonale per i pazienti con più alto rischio di sviluppare una malattia grave e per i quali siano controindicate altre opzioni terapeutiche.
Un’infezione da Covid, quando non asintomatica, può dare luogo a malattia lieve, moderata o severa. I pazienti eleggibili al trattamento con sotrovimab sono proprio questi ultimi. È inoltre necessario, secondo le raccomandazioni dell’Aifa, non avere contratto il virus da più di 7 giorni, avere un’età superiore a 12 anni, con un peso oltre 40kg, non essere ospedalizzato e in ossigenoterapia supplementare. Devono inoltre essere presenti sintomi di grado lieve-moderato e ad alto rischio di progressione a malattia severa. In tutti questi casi è necessario contattare tempestivamente il medico di medicina generale o lo specialista di riferimento.
“L’impiego degli anticorpi monoclonali (mAbs) è ormai una concreta ed efficace realtà terapeutica in diversi contesti, in particolare nelle malattie infiammatorie ed in emato-oncologia chiarisce Giovanni Di Perri, Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell'Ospedale Amedeo di Savoia di Torino Oggi l’uso terapeutico ed anche preventivo dei mAbs in malattie infettive ha ricevuto un recente impulso dalla pandemia di infezione da SARS-CoV-2, in quanto la terapia a base di mAbs è stata la prima a posizionarsi come trattamento precoce nelle prime fasi dell’infezione, Nella realtà dei fatti, per alcuni mAbs, quali il sotrovimab, il parallelismo fra test di laboratorio ed efficacia clinica ha mostrato significativi limiti, in quanto lo stesso sotrovimab in studi post-marketing (fase IV) è risultato efficace in terapia precoce ad onta di risultati negativi nei test “in vitro”. Proprietà accessorie del farmaco in oggetto, quali la lunga permanenza in circolo ad alte concentrazioni, la diffusibilità nell’interstizio polmonare e le funzioni di cooperazione con l’immunità cellulare ci rendono conto di un’efficacia complessiva ancor oggi di garanzia nella terapia precoce dell’infezione da SARS-CoV-2 in pazienti a rischio di evoluzione.”
“La variabilità delle sottovarianti di Omicron ha reso non sempre facile e scontato definire con chiarezza l'efficacia degli anticorpi monoclonali contro il SARS CoV-2 – osserva Carlo Federico Perno, direttore di microbiologia e diagnostica di immunologia all'Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma che aggiunge: Tuttavia, a fronte della perdita di efficacia di molti di essi, alcuni monoclonali hanno mantenuto un effetto significativo anche nei confronti delle più recenti sottovarianti del virus, comprese quelle circolanti in prevalenza in Italia. Tra di essi, sotrovimab sembra essere quello a maggior efficacia. Sotrovimab inoltre ha un profilo farmacologico e farmacocinetico tale da renderlo un’opzione alquanto valida nel presente contesto virologico e clinico, considerando sia la sua lunga emivita (importante soprattutto per il mantenimento di un effetto continuato in pazienti fragili, quelli che più si giovano e si gioveranno delle terapie antivirali) che la capacità di stimolare una risposta immunitaria che coadiuva quella dell’organismo e che potenzia, tramite due meccanismi cellulari, la rimozione e inattivazione del virus. L’insieme di queste caratteristiche rende sotrovimab un anticorpo monoclonale ancor oggi da tenere in alta considerazione nel trattamento dell'infezione da SARS CoV-2”, conclude.
"Sono fiducioso che quest'anno saremo in grado di dire che Covid-19 è finito come emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale", Pheic. A ribadirlo è stato il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, durante un briefing con la stampa.
"Non ci siamo ancora - ha puntualizzato - ma siamo sicuramente in una posizione molto migliore ora rispetto a qualsiasi altro momento durante la pandemia".
"Anche se siamo sempre più pieni di speranza riguardo alla fine della pandemia di Covid" non lontana, "la domanda su come sia iniziata rimane senza risposta", sottolinea quindi il direttore Oms, aggiungendo: "Continuiamo a chiedere alla Cina di essere trasparente nella condivisione dei dati, di condurre le indagini necessarie e condividere i risultati. Capire come è iniziata la pandemia di Covid-19 rimane un imperativo sia morale che scientifico".
Le sue parole si riferiscono in particolare a un episodio recente. "Domenica scorsa - spiega il Dg - l'Oms è stata messa a conoscenza di dati pubblicati alla fine di gennaio nel database Gisaid", dove vengono caricate le sequenze virali, "e rimossi nuovamente di recente. I dati, del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, si riferiscono a campioni prelevati al mercato di Huanan a Wuhan nel 2020", all'inizio quindi della pandemia. "Mentre erano online, gli scienziati di diversi Paesi hanno scaricato i dati e li hanno analizzati. Non appena abbiamo appreso di questi dati, abbiamo contattato il Cdc cinese e li abbiamo esortati a condividerli con l'Oms e la comunità scientifica internazionale in modo che possano essere analizzati", prosegue il Dg Tedros.
"Abbiamo anche convocato lo Scientific Advisory Group for the Origins of Novel Pathogens (Sago), che si è riunito martedì - incalza -. E abbiamo chiesto ai ricercatori del Cdc cinese e al gruppo internazionale di scienziati di presentare le loro analisi dei dati al Sago". Questi dati, è la puntualizzazione, "non forniscono una risposta definitiva alla domanda su come è iniziata la pandemia, ma ogni pezzo, ogni dato è importante per avvicinarci a quella risposta. E ogni dato relativo allo studio sulle origini di Covid-19 deve essere condiviso immediatamente con la comunità internazionale. Questi dati avrebbero potuto - e avrebbero dovuto - essere condivisi tre anni fa", ammonisce il capo dell'Oms.
L'OMS ha aggiornato il suo sistema di tracciamento e le definizioni di lavoro per le varianti di SARS-CoV-2, il virus che causa COVID-19, per corrispondere meglio all'attuale panorama globale delle varianti, per valutare in modo indipendente le sottolinee Omicron in circolazione e classificare le nuove varianti in modo più chiaro.
SARS-CoV-2 continua ad evolversi. Dall'inizio della pandemia di COVID-19, l'OMS ha designato più varianti preoccupanti (VOC) e varianti di interesse (VOI) in base al loro potenziale valutato per l'espansione e la sostituzione delle varianti precedenti, per causare nuove ondate con aumento della circolazione, e per la necessità di adeguamenti degli interventi di sanità pubblica.
Sulla base del confronto della reattività crociata antigenica utilizzando sieri animali, studi di replicazione in modelli sperimentali del tratto respiratorio umano e prove di studi clinici ed epidemiologici nell'uomo, vi è consenso tra gli esperti del gruppo consultivo tecnico dell'OMS sull'evoluzione del virus SARS-CoV-2 (TAG-VE) che rispetto alle varianti precedenti, Omicron rappresenta il VOC più divergente visto fino ad oggi. Dalla sua comparsa, i virus Omicron hanno continuato ad evolversi geneticamente e antigenicamente con una gamma in espansione di sottolineaggi, che finora sono stati tutti caratterizzati da proprietà di evasione dell'immunità della popolazione esistente e una preferenza per infettare il tratto respiratorio superiore (rispetto al tratto respiratorio inferiore) , rispetto ai COV pre-Omicron.
I virus Omicron rappresentano oltre il 98% delle sequenze disponibili al pubblico dal febbraio 2022 e costituiscono il background genetico da cui probabilmente emergeranno nuove varianti di SARS-CoV-2, sebbene permanga l'emergere di varianti derivate da VOC circolanti in precedenza o di varianti completamente nuove possibile. Il sistema precedente classificava tutti i sottotipi di Omicron come parte del VOC di Omicron e quindi non aveva la granularità necessaria per confrontare i nuovi lignaggi discendenti con fenotipi alterati con i lignaggi parentali di Omicron (BA.1, BA.2, BA.4/BA.5 ). Pertanto, dal 15 marzo 2023, il sistema di tracciamento delle varianti dell'OMS considererà la classificazione delle sottolinee Omicron in modo indipendente come varianti sotto monitoraggio (VUM), VOI o VOC.
L'OMS sta anche aggiornando le definizioni operative per VOC e VOI. L'aggiornamento principale consiste nel rendere più specifica la definizione di COV, per includere i principali passaggi evolutivi di SARS-CoV-2 che richiedono importanti interventi di sanità pubblica. Per le definizioni aggiornate, visitare il sito Web di monitoraggio delle varianti dell'OMS .
Inoltre, in futuro, l'OMS assegnerà etichette greche per i COV e non lo farà più per i VOI.
Con questi cambiamenti presi in considerazione, Alpha, Beta, Gamma, Delta così come il lignaggio genitore Omicron (B.1.1.529) sono considerati COV circolanti in precedenza. L'OMS ha ora classificato XBB.1.5 come VOI.
L'OMS continuerà inoltre a pubblicare regolarmente valutazioni del rischio sia per i VOI che per i VOC (vedere l'ultima valutazione del rischio per XBB.1.5 ).
L'OMS sottolinea che questi cambiamenti non implicano che la circolazione dei virus Omicron non rappresenti più una minaccia per la salute pubblica. Piuttosto, le modifiche sono state apportate al fine di identificare meglio minacce aggiuntive o nuove rispetto a quelle poste dagli attuali virus Omicron in circolazione.
Ricercatori dell'IFOM di Milano e dell'Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia (CNR-IGM), con il contributo dei virologi dell'ICGEB di Trieste, hanno identificato le basi molecolari dell'aggressività e degli effetti deleteri di SARS-CoV-2: il virus provocherebbe danni al DNA della cellula e le impedirebbe di ripararli, provocando così senescenza cellulare ed infiammazione cronica.
Lo studio pone le premesse conoscitive per sviluppare in prospettiva nuovi trattamenti farmacologici che limitino gli effetti di SARS-CoV-2. Sebbene dal dicembre 2019 ad oggi diversi progressi siano stati fatti in termini di diagnosi, cura e prevenzione, non è ancora chiaro perché SARS-CoV-2 abbia un impatto cosí grave sulla salute umana rispetto ad altri virus respiratori.
Il gruppo IFOM guidato da Fabrizio d'Adda di Fagagna, specializzato da 20 anni nello studio della risposta al danno al DNA, un processo fondamentale attraverso cui le cellule del nostro corpo ci proteggono dagli effetti deleteri di vari processi fisiologici e patologici, compresi tumori e infezioni virali, ha scoperto uno dei motivi che rendono questo virus particolarmente aggressivo e i risultati sono stati pubblicati sull'autorevole testata scientifica Nature Cell Biology.
"Tutti i virus, si sa, sono parassiti- spiega Fabrizio d'Adda di Fagagna, responsabile del laboratorio IFOM "Risposta al danno al DNA e Senescenza Cellulare" e Dirigente di ricerca al CNR-IGM di Pavia- Entrano in una cellula e iniziano a sfruttare tutto quello messo a disposizione dalla cellula infettata per replicarsi e diffondersi. E il SARS-CoV-2 è un virus particolarmente avido e abile. Nel nostro laboratorio ci siamo chiesti come avvenga questa operazione di 'hackeraggio' da parte del virus e se vi possa essere una connessione con quei processi che studiamo quotidianamente in ambiti patologici solo apparentemente distanti, quali tumori, malattie genetiche e condizione legate all'invecchiamento: tutti eventi accomunati dall'accumulo di danno al DNA".
Partendo da queste premesse i primi autori di questo studio, i ricercatori di IFOM Ubaldo Gioia e Sara Tavella, hanno individuato, attraverso l'uso di diversi sistemi cellulari in vitro, le cause molecolari alla base degli effetti deleteri del COVID-19, e ne hanno trovato conferma in vivo, sia in sistemi modello murini di infezione, sia in tessuti post-mortem derivati da pazienti affetti da COVID-19. Quello che abbiamo osservato illustrano Gioia e Tavella è che SARS-CoV-2, una volta entrato nella cellula, ne dirotta i processi fondamentali, costringendola a smettere di produrre deossinucleotidi, i "mattoni" del DNA, per farle produrre i ribonucleotidi ovvero i "mattoni" che servono a sintetizzare l'RNA della cellula e, soprattutto, quello del virus.
È proprio questa alterazione del processo cellulare operata dal virus a proprio vantaggio a consentire l'esplosiva replicazione virale all'interno della cellula infetta da SARS-CoV-2." Una conseguenza drammatica di tale sfruttamento dei meccanismi cellulari da parte del virus risulta essere la carenza di deossinucleotidi: "la cellula- descrivono i ricercatori- non riesce a replicare adeguatamente il proprio DNA e accumula danni nel suo genoma. Inoltre- proseguono Gioia e Tavella- abbiamo scoperto che il virus, oltre a causare la rottura del DNA per mancanza di deossinucleotidi, interferisce anche con i meccanismi cellulari di riparazione di questo DNA danneggiato, inibendo la proteina 53BP1 essenziale per il processo di riparazione". Questi due eventi, danneggiamento del DNA e inibizione della sua riparazione, hanno effetti drammatici sulla cellula infetta da SARS-CoV-2 e sui pazienti.
"Tra questi- commenta d'Adda di Fagagna- sicuramente il precoce invecchiamento delle cellule, detto senescenza cellulare, e l'associata produzione di citochine infiammatorie. Non a caso la principale causa dei sintomi più gravi nei pazienti affetti da COVID-19 è proprio un'eccessiva produzione di citochine infiammatorie, nota anche come 'tempesta di citochine'. In base ai risultati ottenuti abbiamo evidenziato come l'accumulo di danno al DNA, l'unico componente insostituibile delle nostre cellule, possa dare un contributo importante alla tempesta infiammatoria scatenata dal virus". Ma i ricercatori non si sono fermati a questa osservazione. "Fornendo alle cellule infettate un supplemento di deossinucleotidi - spiegano Gioia e Tavella - abbiamo dimostrato che, riducendo il danno al DNA causato dal virus, abbattiamo anche i livelli di infiammazione".
"È importante sottolineare- precisa d'Adda di Fagagna- che senescenza cellulare e infiammazione cronica sono alla base dei processi di invecchiamento, che esso sia fisiologico o patologico, e infatti molti scienziati stanno scoprendo sempre più frequentemente evidenze di un invecchiamento accelerato in casi di gravi di COVID-19. In questo senso sarà importante studiare anche la correlazione tra queste nostre nuove scoperte e condizioni quali il cosiddetto long COVID, per sviluppare nuovi trattamenti farmacologici che limitino gli effetti di tale patologia." "Questo studio - conclude il ricercatore - non sarebbe stato possibile senza l'indispensabile collaborazione dei laboratori dell'ICGEB di Trieste condotti dai colleghi Alessandro Marcello e Serena Zacchigna che hanno compiuto gli esperimenti di infezione virale e analisi di materiale da pazienti". Oltre all'ICGEB hanno collaborato allo studio di IFOM il San Raffaele di Milano (Matteo Iannacone), l'Università degli Studi di Padova (Chiara Rampazzo), l'Istituto Neurologico Besta (Paola Cavalcante) e l'Università degli Studi di Palermo (Claudio Tripodo).
I 'fantasmi' di una pandemia, che tutti vorrebbero lasciarsi alle spalle sono circa 65 milioni di persone strette nella morsa del Long Covid, imprigionate in un infinito 2020.
Il tampone negativo ha decretato che il virus li ha lasciati, eppure è sempre con loro e li obbliga a una vita in bianco e nero, vago ricordo di quella di prima. Su questo esercito silenzioso la rivista 'The Lancet', una delle bibbie della comunità scientifica, accende i riflettori con un editoriale: 'Long Covid: 3 anni dopo'. Il messaggio è chiaro: "Il Long Covid viene spesso facilmente liquidato come una condizione psicosomatica. Dato ciò che ora sappiamo sui suoi effetti e sulle sue basi biologiche, deve essere preso sul serio".
I volti del Long Covid sono donne, uomini, anche bambini. Affaticamento, mancanza di respiro, nebbia cerebrale e disfunzioni cognitive sono alcuni dei sintomi che li accompagnano nelle loro giornate. E' "una condizione multisistemica post-infezione debilitante", ricorda Lancet, che "compromette le capacità di svolgere attività quotidiane per diversi mesi o anni. Sebbene la maggior parte dei pazienti infettati da Sars-CoV-2 guarisca entro poche settimane, si stima che il Long Covid si verifichi nel 10-20% dei casi e colpisca persone di tutte le età, compresi i bambini, con la maggior parte dei casi che si verificano in pazienti con malattia acuta di tipo lieve. La conseguenza è un diffuso danno globale alla salute, al benessere e ai mezzi stessi di sussistenza delle persone. Si stima infatti che una persona su 10 che sviluppano Long Covid smetta di lavorare, con conseguenti ingenti perdite economiche".
Nel 2021, si legge nell'editoriale, "abbiamo chiesto un programma coordinato di ricerca e assistenza sanitaria per affrontare questa nuova sfida medica. Tuttavia, i progressi sono stati terribilmente lenti a causa della mancanza di attenzione e risorse".
"Alcuni progressi sono stati compiuti nella nostra comprensione della natura multiforme ed eterogenea" di questa condizione. In un commento su 'The Lancet Infectious Diseases', gli scienziati Akiko Iwasaki e David Putrino considerano le possibili cause, tra cui la persistenza virale, l'autoimmunità innescata dall'infezione, la riattivazione di virus latenti e i cambiamenti cronici innescati dall'infiammazione che portano a danni agli organi, fattori che potrebbero spiegare i diversi fenotipi dei pazienti Long Covid.
Come si sta intervenendo? Sono in fase di sperimentazione diversi candidati trattamenti, basati su sintomi e meccanismi biologici diversi. Il nodo - si spiega nell'editoriale - è che "molti pazienti faticano a ottenere una diagnosi definitiva", per via della sintomatologia diversificata del Long Covid, del fatto che si debba dipendere da quanto viene auto-riportato dalle persone, della mancanza di test diagnostici e di una definizione di consenso. "Su scala globale, il Long Covid non ha ricevuto l'attenzione che merita e c'è una generale mancanza di consapevolezza pubblica", denuncia Lancet.
In molte realtà i dati sono assenti, specialmente nei Paesi a basso e medio reddito. Dove invece gli studi sono stati condotti - come in India, Cina e Sudafrica - il Long Covid è stato rilevato. Da qui l'appello: "Un'agenda di ricerca multidisciplinare coordinata a livello globale, che riunisca governi, organizzazioni non governative e società civile, è essenziale per migliorare la nostra comprensione della causa e della patogenesi, della diagnosi clinica, dei trattamenti, dei fattori di rischio e della prevenzione del Long Covid. Solo nel dicembre 2022 gli Stati Uniti e la Commissione europea hanno tenuto una conferenza per promuovere la cooperazione internazionale" su questo fronte.
Nell'agosto 2022 gli Usa hanno istituito il Piano d'azione nazionale per la ricerca sul Long Covid, che ha portato i National Institutes of Health (Nih) a stanziare 1,15 miliardi di dollari per il progetto 'Recover' (Researching Covid to Enhance Recovery). L'Ue deve ancora definire un'agenda di ricerca per il Long Covid e la rete di associazioni di pazienti Long Covid Europe chiede 500 milioni di euro in fondi di emergenza Ue per la ricerca.
Senza trattamenti specifici, osserva Lancet, "l'attenzione deve ricadere sulla prevenzione, mantenendo bassi i casi di Covid e garantendo la vaccinazione, e sull'assistenza multidisciplinare incentrata sul paziente". I pazienti, molti con multipatologie complesse, necessitano di supporto multisettoriale "fisico, cognitivo, sociale e occupazionale", elencano gli autori dell'editoriale. "Le prospettive per tali cure sembrano solo essere peggiorate. L'assistenza primaria ha sofferto in molti Paesi, le liste d'attesa si sono allungate e i sistemi sanitari sono in difficoltà". L'educazione e la consapevolezza sulla gestione clinica del Long Covid nelle cure primarie rimane insufficiente e le disuguaglianze nell'assistenza continuano. In molti contesti sono ancora assenti piattaforme affidabili e autorevoli per supportare e guidare i pazienti.
"I ritardi nelle cure e nel sostegno a chi si misura quotidianamente con le sequele post-virus prolungano ed esacerbano i sintomi del Long Covid", ammonisce Lancet. I mesi della crisi acuta della pandemia di Covid "hanno motivato una risposta senza precedenti da parte di governi, organizzazioni internazionali, aziende farmaceutiche e società civile - conclude la rivista scientifica - Il Long Covid non ha ricevuto neanche lontanamente lo stesso livello di attenzione o risorse: il risultato è stato un danno diffuso alla salute, alle società e alle economie. Dopo 3 anni, ne servono diversi altri" per arrivare a riconoscere, trattare e supportare adeguatamente i pazienti.
Si è svolto questa mattina a Roma, presso la Sala del Museo Ninfeo, il seminario dal titolo 'Il Sistema sanitario nazionale di fronte al tema del recupero prestazionale', promosso dall'Osservatorio Salute Previdenza e Legalità Eurispes-ENPAM.
La fine della pandemia infatti ha lasciato spazio ad un'altra emergenza: quella generata dalle mancate prestazioni sanitarie per tutte le altre patologie, con particolare riferimento a quelle più gravi.
"L'Osservatorio- ha spiegato il presidente dell'Eurispes, Gian Maria Fara- sta lavorando con un gruppo di studio composto da importanti esponenti del mondo clinico, con l'obiettivo di contribuire ad identificare ed elaborare concrete proposte per affrontare il tema del recupero prestazionale per le patologie non Covid. L'iniziativa si caratterizza per la presenza, allo stesso tavolo, di rappresentati del mondo ospedaliero e della medicina di territorio''. ''Grazie al seminario di oggi- ha proseguito- l'Osservatorio intende porre attenzione sull'impatto di questo fenomeno sul Sistema sanitario nazionale e soprattutto sul mancato diritto alla salute dei cittadini che rischia ulteriormente di acuirsi".
"Al suo scoppio- ha dichiarato il presidente dell'ENPAM, Alberto Oliveti- la questione Covid ha messo in secondo piano qualsiasi altra attività legata all'assistenza sanitaria. Questa sconvolgente esperienza mondiale deve servire da utile lezione, perché le zoonosi non sono certamente finite. Nel nostro Paese i difetti di programmazione e di sotto-finanziamento restano, e vengono ora amplificati dall'esigenza di tornare quanto prima all'assistenza 'ordinaria', che nel frattempo è purtroppo rimasta pesantemente indietro. Ci vogliono soldi e personale, che mancano. Si può tentare di ovviare a queste carenze- ha poi sottolineato- solo se Stato e regioni adotteranno una strategia unitaria. Serve incentivare e rendere strutturale l'integrazione lavorativa tra professionisti della salute, cercando di adottare le migliori tecnologie oggi disponibili anche per farli comunicare tra loro in modo efficiente. Vanno inoltre individuate priorità assistenziali e di screening che sia possibile garantire con la massima uniformità possibile sul territorio nazionale".
Recuperare le prestazioni perdute e ripristinare il normale flusso dell'attività del Servizio sanitario nazionale è certamente una delle sfide più importanti di fronte alla quale si trova il nuovo Governo. Le proposte avanzate dall'Osservatorio Salute Previdenza e Legalità Eurispes-ENPAM si possono sintetizzare in questo modo: incentivare una maggiore reattività delle Aziende sanitarie nel bed management nel liberare spazi, strumentazioni e sale operatorie, con specifiche linee guida del ministero e con una concreta azione di controllo degli assessorati regionali, pur nel rispetto delle autonomie aziendali; recuperare, per le attività ordinarie, la disponibilità di infermieri e assistenti sanitari e stabilire un piano straordinario impostato centralmente e gestito a livello regionale con il coinvolgimento strutturale della sanità convenzionata e accreditata in un'opera coordinata di recupero per lo screening e la diagnostica.
La mobilitazione straordinaria della medicina generale per la compilazione di liste ed elenchi di priorità diagnostiche dei rispettivi assistiti, risulta fondamentale, al pari di provvedere alla dotazione tecnologica degli studi dei medici di medicina generale secondo la Legge di stabilità del 2020, per renderli più performanti. Inoltre, si suggerisce il varo di una campagna di comunicazione istituzionale da parte del ministero, ripresa sui mezzi locali dalle regioni, che segnali la necessità/opportunità di tornare ad effettuare controlli medici periodici.
"Le liste di attesa- ha affermato il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta- si allungano per varie ragioni. Innanzitutto, molte richieste di visite specialistiche e di esami diagnostici sono inappropriate, sia per la domanda dei pazienti sia per l'induzione da parte degli specialisti. In secondo luogo, l'offerta di prestazioni, oltre a non essere trasparente, poggia spesso su modalità di interazione pubblico-privato che finiscono per privilegiare sempre più l'offerta privata indebolendo quella pubblica". "Infine- ha inoltre detto- oggi esiste un reale problema di personale sanitario: infatti, nonostante le risorse stanziate dallo Stato, quasi 1 miliardo di euro, nessuna regione è ancora riuscita a recuperare le prestazioni del 2020, tanto che la possibilità di utilizzo dei fondi è stata prorogata al 31 dicembre 2023.
In sostanza, non esiste una 'ricetta magica' per risolvere il problema, ma è necessaria una strategia multifattoriale che includa interventi finalizzati sia a ridurre l'inappropriatezza, sia a potenziare l'offerta di prestazioni appropriate". Il presidente della Confederazione oncologi, cardiologi, ematologi (Foce), Francesco Cognetti, ha posto l'accento sul fatto che ''molte delle prestazioni non erogate sono ormai irrecuperabili ed hanno purtroppo già mietuto numerose vittime durante la fase più acuta del Covid, in termini di eccesso di mortalità per le patologie cardiovascolari tempo-dipendenti. Per quelle oncologiche i mancati o ritardati interventi chirurgici e la perdita di milioni di esami di screening hanno già realizzato l'osservazione di tumori più avanzati al momento della diagnosi e fra mesi o anni purtroppo realizzeranno un eccesso di mortalità per queste patologie, le cui dimensioni non sono al momento calcolabili".
"I dati pubblicati da Agenas relativi al 2021, con riferimento agli interventi chirurgici eseguiti per le prime cinque patologie oncologiche per incidenza- ha informato- rilevano che solo 10 regioni italiane hanno proprie istituzioni ospedaliere incluse tra le prime dici posizioni per volume di casi operati. Si evidenzia, dunque, una distribuzione disomogenea degli ospedali con competenze maggiori sui pazienti affetti da patologie oncologiche e ciò sarà di grande ostacolo al raggiungimento di standard omogenei su tutto il territorio nazionale".
"Ci troviamo oggi- ha evidenziato Filippo La Torre, professore di Chirurgia generale all'Università Sapienza di Roma- ad inseguire il mito delle liste di attesa: queste erano già lunghe prima della pandemia, poi si sono bloccate per riprendere lentamente nel periodo dopo la chiusura con un ritmo insufficiente diventando adesso il 'vero' problema dell'attuale Servizio sanitario nazionale". "Tra le possibili soluzioni per affrontare il problema- ha concluso- vi sono un largo piano di assunzioni e, soprattutto, un rinnovo dei contratti di tutto il personale sanitario pubblico e un piano di investimenti volto al rinnovo delle strutture oggi obsolete e fatiscenti. Insieme a questi due aspetti vanno considerati il coinvolgimento del privato convenzionato per coprire i tempi ed i modi del rinnovo del Ssn, una ristrutturazione del sistema della urgenza/emergenza e la presenza di medici di famiglia ed ambulatori territoriali gestiti in modo da ridurre gli accessi incongrui in ospedale".
I cani domestici possono essere addestrati per rilevare la presenza dell’infezione da Sars-Cov-2 in modo affidabile, sia su campioni biologici e in un ambiente controllato, come il laboratorio, che sul campo, annusando direttamente le persone.
Lo studio è stato coordinato da Mariangela Albertini, docente di Fisiologia Veterinaria presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria e Scienze Animali della Statale di Milano, assieme alle scienziate Federica Pirrone e Patrizia Piotti, rispettivamente docente e ricercatrice presso lo stesso Dipartimento, e si è avvalso della collaborazione dei tecnici cinofili di Medical Detection Dogs Italy (MDDI). È stato appena pubblicato su Scientific Reports.
“Molti studi scientifici ed esperienze in diverse nazioni hanno dimostrato che il cane addestrato, che non appartiene a una specifica razza, ma che dimostra una buona attitudine a collaborare con il proprietario, è in grado di rilevare la presenza di patologie perché queste lasciano nell’organismo una firma odorosa costituita da molecole dette “composti organici volatili (VOCs)”, afferma la professoressa Albertini.
In questo studio, inizialmente tre cani, Nala, Otto ed Helix, sono stati addestrati in laboratorio a rilevare la presenza di Sars-Cov-2 in campioni di sudore provenienti da persone infette. Al termine dell’addestramento i cani hanno raggiunto in media una sensibilità del 93% e una specificità del 99%, mostrando un livello di accuratezza altamente concorde con quello della Rt-PCR utilizzata nei test molecolari e una riproducibilità nel tempo da moderata a forte.
In un secondo momento, Nala e altri quattro cani, Nim, Hope, Iris e Chaos, sono stati addestrati dai tecnici cinofili di MDDI a riconoscere la presenza della patologia annusando direttamente le persone. Per imparare questo compito, e poi per dimostrare l’acquisizione di questa capacità, i cani hanno lavorato nelle farmacie, annusando le persone che, in fila, attendevano di fare il tampone, e nelle quali segnalavano la presenza o meno del virus. In questa fase, l’accuratezza dei cinque cani è risultata molto al di sopra del minimo richiesto dall'OMS per i tamponi rapidi per SARS-CoV-2.
La performance dei cani come test di screening per identificare correttamente le persone positive è quindi soddisfacente e paragonabile, se non superiore, a quella di un test di screening standard, col vantaggio, tra gli altri, di non arrecare i fastidi provocati dal tampone nasofaringeo.
I risultati di questo studio, nel complesso, supportano l'idea che i cani da rilevamento biologico possano aiutare a ridurre la diffusione del virus in ambienti ad alto rischio, inclusi aeroporti, scuole e trasporti pubblici, e potrebbero rappresentare, per i servizi sanitari e per la comunità, una metodologia di screening non invasiva, economica, veloce e sicura, basata su una ricerca scientifica solida.
“Considerando che ancora, dopo 4 anni, il COVID-19 continua a circolare, spinto dalle nuove varianti altamente trasmissibili, l’auspicio è che questo protocollo possa essere utilizzato nella formazione di squadre cinofile operative sul territorio nazionale, che vengano schierate in occasione di grandi eventi pubblici e privati, o sui mezzi di trasporto, come prima risposta a nuove minacce o future pandemie”, conclude Albertini.
Nel nuovo Dossier donne dell'Inail, pubblicato in vista della Giornata internazionale dell'8 marzo, la Consulenza statistico attuariale dell'Istituto analizza i dati mensili ancora provvisori del biennio 2021-2022 e quelli annuali consolidati del quinquennio 2017-2021 per descrivere il fenomeno infortunistico al femminile in relazione alle varie caratteristiche che lo contraddistinguono.
"Con questo Dossier- scrivono nella prefazione le consigliere di amministrazione Teresa Armato e Francesca Maione- intendiamo lanciare un segnale di sostegno al mondo del lavoro femminile affinché ogni donna sappia che Inail è al suo fianco per sostenerla nella sua vita professionale e personale, valorizzandone il talento e il merito, fino al raggiungimento di condizioni di effettiva parità". La festa della donna, inoltre, è l'occasione per "riaffermare con forza anche l'esigenza di un'appropriata formazione sui temi della tutela differenziata nei luoghi di lavoro", partendo dalla consapevolezza che "l'uguaglianza di genere non è solo una questione etica e valoriale, ma una forma di avanzamento e progresso per una società più consapevole e matura".
L'EFFETTO COVID SULL'IMPENNATA DELLE DENUNCE REGISTRATA NEL 2022.
L'aumento del 25,7% delle denunce di infortunio rilevato tra gennaio e dicembre 2022, rispetto all'analogo periodo del 2021, è legato soprattutto alle lavoratrici, che registrano un +42,9%, da 200.557 a 286.522 casi. "Questa vertiginosa impennata - spiegano Armato e Maione - è in larga misura influenzata dal notevole incremento degli infortuni in occasione di lavoro, in particolare di quelli da Covid-19. Gli infortuni sul lavoro correlati al virus, infatti, dall'inizio dell'emergenza sanitaria hanno coinvolto maggiormente le donne, più presenti in quegli ambiti lavorativi con un'esposizione elevata al rischio di contagio come, ad esempio, il settore della sanità e dell'assistenza sociale, la grande distribuzione, le pulizie".
TRA LE LAVORATRICI QUASI 7 CONTAGI SU 10.
Su 315.055 denunce di infortunio sul lavoro da Sars-CoV-2 pervenute all'Inail dall'inizio della pandemia alla data dello scorso 31 dicembre, quelle che riguardano le donne sono infatti 215.487, pari a poco meno di sette contagi su 10. Il 43,8% delle contagiate ha oltre 49 anni, il 37,0% tra i 35 e i 49 anni, mentre il 19,2% è under 35. Le professioni maggiormente esposte al rischio Covid sono quelle sanitarie, a partire dai tecnici della salute col 41,4% delle contagiate, in prevalenza infermiere ma anche fisioterapiste e assistenti sanitarie. Seguono le operatrici socio-sanitarie (18,8% delle denunce), i medici (6,9%) e le lavoratrici qualificate nei servizi personali e assimilati (6,6%). Tra le professioni non strettamente sanitarie, ai primi posti figurano le impiegate addette alla segreteria e agli affari generali (5,6%), le addette alle pulizie (2,1%, anche di ospedali e ambulatori), le insegnanti delle scuole primarie e pre-primarie e le impiegate addette al controllo di documenti e allo smistamento e recapito della posta (1,7% per entrambe le categorie).
"Necessario un salto di qualità nell'affrontare la prevenzione in ottica di genere". "L'emergenza determinata dalla pandemia - sottolineano Armato e Maione - oltre a mettere a dura prova le strutture sanitarie del Paese, ha fornito l'opportunità di ripensare determinate modalità organizzative afferenti al mondo del lavoro. Nonostante anno dopo anno si assista a una crescita, in termini di consapevolezza, di quanto la differenza di genere debba essere declinata anche sul versante salute e sicurezza, il percorso sconta ancora numerosi ritardi socioculturali". Per le consigliere di amministrazione Inail, in particolare, "oggi è necessario compiere un salto di qualità nell'affrontare il tema della salute e sicurezza in ottica di genere", superano la visione limitata del passato, "declinata per lo più come attenzione alla sicurezza della donna in maternità, piuttosto che a quella, più ampia, della donna/lavoratrice".
NEL 2021 L'INCIDENZA È TORNATA AI LIVELLI ANTE-PANDEMIA.
Concentrando l'attenzione sui dati annuali più consolidati, aggiornati al 31 ottobre 2022, nel quinquennio 2017-2021 emerge una diminuzione complessiva del 12,7% delle denunce di infortunio sul lavoro (dalle 646.661 del 2017 alle 564.311 del 2021). Il calo ha interessato entrambi i generi: -13,3% per i lavoratori (da 413.704 a 358.701 casi) e -11,7% per le lavoratrici (da 232.957 a 205.610). Nel 2021, in particolare, l'incidenza degli infortuni occorsi alle donne sul totale delle denunce è tornata ai valori percentuali ante-pandemia (36%), dopo un 2020 in cui, complice anche il più elevato numero di contagi tra le donne rispetto agli uomini, era risultata in aumento di sette punti percentuali (43%). I casi mortali denunciati nel 2021 sono stati complessivamente 1.400, 219 in più rispetto al 2017. Le lavoratrici hanno registrato 34 casi in più, da 114 a 148, pari a un incremento percentuale del 29,8%, quasi il doppio rispetto al +17,3% registrato nello stesso arco di tempo tra i lavoratori, passati da 1.067 a 1.252 decessi (+185 casi).
CON LO SMART WORKING IN CALO LA QUOTA DEGLI INFORTUNI IN ITINERE.
La modalità di accadimento degli infortuni "in itinere" è una delle variabili che ha risentito maggiormente dell'emergenza Coronavirus. Nel biennio 2020-2021, infatti, le denunce in complesso per infortuni sul lavoro occorsi alle lavoratrici nel tragitto di andata e ritorno tra l'abitazione e il posto di lavoro risultano di poco inferiori a quelle degli uomini (40.909 casi contro 43.434), a differenza di quanto avvenuto negli anni pre-pandemia, quando il numero delle lavoratrici infortunate in itinere ha sempre superato quello dei lavoratori. In termini relativi, la quota degli infortuni in itinere sul totale degli infortuni dello stesso sesso è rimasta comunque più elevata per le donne rispetto agli uomini, anche se nel biennio 2020-2021, ma soprattutto nel 2020, complice il massiccio ricorso allo smart working, è scesa notevolmente: dal 23% medio del triennio 2017-2019, al 13% del 2020 e al 20% del 2021. Anche per i casi mortali avvenuti in itinere, l'incidenza tra le lavoratrici nel 2021 è più elevata e pari a circa un decesso su tre (44 su 148), rapporto che per gli uomini scende a meno di uno su cinque (225 su 1.252). La quota di casi mortali in itinere sul totale dei decessi era comunque notevolmente più elevata nel triennio 2017-2019 (mediamente il 50% per le donne e il 25% per gli uomini).
LA MAGGIORANZA DELLE AGGRESSIONI AI DANNI DELLE OPERATRICI SANITARIE E ASSISTENZIALI.
Le lavoratrici vittime di aggressioni o violenze, da parte per esempio di pazienti o loro familiari nel caso delle operatrici sanitarie, da studenti e parenti nel caso delle insegnanti, fino alle rapine in banca e negli uffici postali, rappresentano circa il 3% di tutti gli infortuni femminili avvenuti in occasione di lavoro e riconosciuti dall'Inail. Tra queste, oltre il 60% svolge professioni sanitarie e assistenziali. Seguono, a distanza, insegnanti e specialiste dell'educazione e della formazione, impiegate postali, personale di pulizia, addette ai servizi di vigilanza e custodia, alle vendite e alla ristorazione. Nel quinquennio 2017-2021 sei casi su 10 di violenza sulle donne sono stati denunciati al Nord, con Emilia Romagna, Lombardia e Veneto complessivamente con il 40% circa dei casi, seguito da Centro e Mezzogiorno con un quinto dei casi per entrambe le ripartizioni geografiche.
LE MALATTIE PROFESSIONALI PREVALENTI SONO QUELLE DEL SISTEMA OSTEO-MUSCOLARE E DEL TESSUTO CONNETTIVO.
Per quanto riguarda le malattie professionali, quelle denunciate dalle lavoratrici nel 2021 sono state 14.878, 2.817 in più rispetto all'anno precedente (+23,4%) e pari al 27% delle 55.202 denunciate nel complesso, che rispetto alle 57.996 del 2017 sono calate del 4,8%, per effetto di una riduzione del 4,3% per gli uomini e del 6,1% per le donne. Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo si confermano tra le più prevalenti anche nel 2021 e insieme a quelle del sistema nervoso raggiungono l'82% del totale delle denunce. Questo risultato, però, nasconde una differenza ben marcata tra uomini e donne: se le malattie citate rappresentano il 78% delle denunce dei lavoratori, la stessa percentuale sale al 92% tra le lavoratrici (13.705 delle 14.878 denunce femminili complessive).
NEI DISTURBI PSICHICI L'INCIDENZA FEMMINILE PIÙ ALTA.
Rapportando il numero delle denunce femminili per una determinata patologia sul totale registrato nella stessa patologia, si distinguono i disturbi psichici e comportamentali e le malattie del sistema nervoso (soprattutto sindromi del tunnel carpale), rispettivamente con il 47% e il 39%. Nel 2021, in particolare, i disturbi psichici sono stati denunciati in misura simile da entrambi i sessi (191 casi per il genere femminile e 215 per quello maschile), ma con una percentuale per le lavoratrici sul totale delle malattie dell'1,3%, più del doppio di quella degli uomini, pari allo 0,5%. A prevalere sono i disturbi nevrotici, legati a stress lavoro-correlato, ad esempio per mobbing (l'82% per le donne e il 76% per gli uomini), seguiti dai disturbi dell'umore (rispettivamente il 14% e il 20%).
Se Covid-19 ha lasciato qualche “strascico”, attenti al cuore: chi soffre o ha sofferto di Long Covid ha una probabilità più che doppia di andare incontro a problemi cardiovascolari nei mesi successivi all’infezione rispetto a chi non ha mai avuto Covid-19.
Lo dimostra un’ampia metanalisi degli studi condotti sull’argomento, che sarà presentata il 6 marzo durante il convegno annuale dell’American College of Cardiology a New Orleans. Per questo gli specialisti della Società Italiana di Cardiologia (SIC) invitano i pazienti con Long Covid a effettuare controlli regolari in presenza di nuovi sintomi respiratori o cardiaci.“Covid-19 non è soltanto una malattia respiratoria, chi ha sintomi sospetti dopo aver avuto l’infezione deve approfondire per evitare conseguenze cardiovascolari serie”, raccomanda Pasquale Perrone Filardi, presidente SIC.
I dati del nuovo studio, raccolti da 11 ricerche su oltre 5.8 milioni di persone in tutto il mondo, indicano chiaramente che il Long Covid mette in pericolo il cuore, aumentando il rischio cardiovascolare e quello di sviluppare sintomi come affanno, palpitazioni o dolore toracico rispetto a chi non ha mai avuto l’infezione.
Studi precedenti hanno già dimostrato che il contagio da SARS-CoV-2 è associato a un maggior rischio per cuore e vasi: il danno cardiaco acuto è una delle complicazioni più frequenti di Covid-19, arrivando a riguardare dal 20 al 45% dei pazienti. Il nuovo studio invece mostra che sono ad alto rischio anche i pazienti con Long Covid, ovvero coloro che per 6 mesi dopo l’infezione acuta riportano sintomi come stanchezza cronica, dolori muscolari e articolari, difficoltà di concentrazione. “Le stime indicano che il Long Covid può colpire fino a una persona contagiata su 7 e i dati di questa metanalisi mostrano chiaramente che in questi soggetti è molto importante fare attenzione a eventuali segni di disturbi cardiovascolari – spiega Pasquale Perrone Filardi –. La metanalisi, che ha la forza dei grandi numeri, indica che il Long Covid aumenta da 2.3 a 2.5 volte le probabilità di sviluppare sintomi correlati a malattie cardiovascolari come dolore toracico, stanchezza, affanno, palpitazioni rispetto a chi non è stato contagiato. Tra le persone con Long Covid è anche più probabile presentare alterazioni negli esami diagnostici, come i test sul sangue, l’elettrocardiogramma o gli esami di imaging come l’ecografia cardiaca o l’ecocardiografia con anomalie indicative di un aumentato rischio cardiovascolare o della presenza di disturbi”.
Lo studio, che include i dati di 450.000 persone con complicazioni cardiovascolari, ha analizzato anche pazienti che avevano già malattie cardiovascolari e per esempio erano state già vittime di un attacco cardiaco; anche in questi soggetti, il Long Covid ha aumentato le probabilità di ulteriori complicanze, come ad esempio la fibrillazione atriale.
“Lo studio ha dimostrato che chi ha avuto il Covid ha una probabilità piu' che doppia di avere problemi cardiovascolari anche se non ha indagato i possibili meccanismi biologici alla base del maggior rischio, ma è noto che il virus Sars-CoV-2 ha fra i suoi bersagli anche cuore e vasi – aggiunge Ciro Indolfi, past-presidente SIC e Presidente della Federazione Italiana di Cardiologia-. E’ possibile che l’infiammazione cronica indotta dal Long Covid abbia un ruolo rilevante e sarà importante indagare ancora per capire se i pazienti con condizioni cardiovascolari preesistenti possano essere protetti con terapie specifiche”.
“Tuttavia, questi dati sono un monito per tutti: dopo l’infezione Covid e in presenza dei sintomi del Long Covid – concludono Perrone Filardi e Indolfi - sono più probabili complicanze cardiovascolari. Pertanto, è opportuno ed essenziale approfondire qualsiasi eventuale sintomo insolito e monitorare con maggiore attenzione il rischio cardiovascolare dei pazienti, eventualmente prevedendo controlli cardiologici regolari in chi è più a rischio”.