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Le pillole contro il Covid Paxlovid* saranno disponibili nelle farmacie lombarde "dal 16 maggio". A spiegarlo all'Adnkronos Salute Annarosa Racca, presidente regionale di Federfarma.
"Fra pochi giorni avremo per ora Paxlovid - informa -. Per la Lombardia sono 7.500 confezioni, quelle cioè che spettano alla regione delle prime 46mila previste a livello nazionale. E avremo questo antivirale orale in tutte le farmacie, ogni punto vendita avrà a disposizione una quota di confezioni già pronte per la richiesta. Il cittadino, che deve sempre avere una ricetta dematerializzata del medico su piano terapeutico, non dovrà dunque neanche ordinarlo perché il farmaco sarà già a disposizione" nei negozi con la croce verde.
"E ci sarà il foglietto illustrativo in lingua italiana - evidenzia Racca - Lo consegneremo così ai cittadini perché il farmaco deve essere perfettamente conosciuto e non tutti sanno l'inglese. Sono 4 pastiglie al giorno da assumere e la terapia va iniziata il prima possibile. Soprattutto per gli anziani, sarà molto facile dunque venire a ritirare le confezioni in farmacia. L'antivirale verrà prescritto dal medico alle persone per cui è indicato, cioè persone ad alto rischio" di sviluppare Covid grave, "qualificate secondo le patologie di cui sono affette. Questo è un altro bel passo avanti verso l'obiettivo di sconfiggere il Covid - commenta la presidente di Federfarma Lombardia - Spero che tutto ciò dia un significativo contributo nella lotta alla pandemia. Noi facciamo la nostra parte. Il cittadino non paga nulla per il farmaco, e noi non prendiamo soldi per distribuirlo. Questo è un altro impegno che abbiamo preso con lo Stato e la sanità italiana".
Fin dall'inizio è stata garantita la priorità di accesso del vaccino anti-Covid alle persone più fragili, poichè, in caso di infezione da SARS-CoV-2, avrebbero le conseguenze peggiori.
Tra queste, quelle con fibrosi polmonare idiopatica (IPF) una malattia rara, dalla prognosi impegnativa. Si stima che a essere affette da questa condizione in Italia possano essere circa 30-50.000 persone. La malattia progredisce gradualmente con sviluppo di insufficienza respiratoria, e il suo decorso può essere caratterizzato da momenti di crisi gravi, dette esacerbazioni (o riacutizzazioni), che sono gravate di una mortalità intraospedaliera dal 50 all'80%.
"La IPF- spiega il professor Luca Richeldi, direttore della Uoc di Pneumologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs e Ordinario di Pneumologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma- è caratterizzata da aggravamenti acuti delle condizioni cliniche, che sono a loro volta idiopatici; in alcuni casi sono stati collegati a una causa infettiva o a una trombo-embolia polmonare; le vere forme di riacutizzazione acuta di malattia hanno una mortalità fino all'80% e rappresentano la principale causa di morte di questi pazienti, che peggiorano rapidamente nell'arco di qualche settimana. Non c'è una terapia specifica; vengono utilizzati corticosteroidi ad alte dosi, con risultati abbastanza scarsi. Si tratta di eventi catastrofici che è bene intercettare tempestivamente. Tutti i nostri 300 pazienti sono allertati sul fatto che un peggioramento rapido dei sintomi richiede un'allerta precoce al medico curante o l'invio in pronto soccorso".
Così come non è nota l'eziologia dell'IPF, allo stesso modo non si conoscono le cause scatenanti delle esacerbazioni, anche se si annoverano tra i fattori di rischio le infezioni virali, l'esposizione a tossici ambientali e a polveri. Uno studio, pubblicato sull'American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine dal dottor Giacomo Sgalla, dal professor Luca Richeldi e colleghi della Uoc di Pneumologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs, aggiunge però un'importante informazione. Su 10 pazienti ricoverati nel 2021 per un episodio di esacerbazione nell'ambito di una fibrosi polmonare idiopatica, presso la Fondazione Policlinico Gemelli, che è uno dei più importanti centri di riferimento in Italia per questa patologia, quattro presentavano un rapporto temporale con la somministrazione di un vaccino a mRNA anti-Covid, avvenuta qualche giorno prima dell'episodio. In un paziente l'episodio di esacerbazione si è verificato dopo la prima dose, in uno dopo la seconda dose e nei restanti due dopo la dose booster.
"La vicinanza temporale tra somministrazione del vaccino (effettuato tra 3 e 5 giorni prima) e l'inizio dei sintomi- commenta il dottor Sgalla- indica il vaccino anti-Covid come il più probabile trigger dell'esacerbazione acuta". Al momento del ricovero questi pazienti presentavano indici di infiammazione elevati; alla TAC era evidente un impegno diffuso dell'interstizio polmonare. Tutti sono stati sottoposti a trattamento con alti flussi di ossigeno e ad elevate dosi di cortisonici. Nonostante la tempestiva terapia due di questi pazienti sono deceduti durante il ricovero.
"In questo studio- prosegue Sgalla- abbiamo descritto un evento raro verificatosi nell'ambito di una patologia rara; nel nostro centro seguiamo oltre 300 pazienti con IPF, che sono stati tutti sottoposti a vaccinazione anti-Covid. Solo quattro di loro sono stati ricoverati per una riacutizzazione a distanza di pochi giorni dalla vaccinazione anti-Covid. Queste riacutizzazioni dopo vaccino non sembrano presentare caratteristiche peculiari. È possibile che in alcuni di questi pazienti, la liberazione di citochine infiammatorie, causata dalla vaccinazione, possa aver fatto da innesco di questa esacerbazione acuta. Nelle linee guida internazionali sulla IPF ad oggi le vaccinazioni non sono elencate tra i fattori di rischio delle esacerbazioni. Tuttavia, considerato che casi simili, anch'essi molto rari, sono stati segnalati anche dopo vaccinazione antinfluenzale H1N1, suggeriamo di inserire nella lista dei possibili fattori di rischio per riacutizzazioni di IPF anche le vaccinazioni anti-virali".
"Lo scorso anno- conclude il professor Richeldi- tra i pazienti riacutizzati ricoverati nel nostro centro, abbiamo individuato un piccolo numero di casi, accomunati dal fatto di aver effettuato di recente la vaccinazione anti-Covid. Non si tratta certo di una dimostrazione di causa-effetto, ma di una correlazione temporale che abbiamo voluto segnalare per due motivi. Il primo è che i vaccini a mRNA anti-Covid sono vaccini nuovi, che noi suggeriamo di annoverare tra le potenziali cause di una riacutizzazione. L'altro è per allertare i medici che seguono questi pazienti del fatto che c'è una possibilità, anche se molto remota, che il vaccino possa scatenare una riacutizzazione. Ribadiamo tuttavia la necessità che questi pazienti effettuino, e in modo prioritario, la vaccinazione anti-Covid; perché un'eventuale polmonite interstiziale da Covid, su un paziente che ha già una patologia interstiziale come la IPF, può avere effetti catastrofici".
"Quindi in conclusione, il rapporto costo-beneficio rimane largamente in favore della vaccinazione anti-Covid e del ciclo completo (3 dosi complete o 4 per chi ha superato gli 80 anni). Sapere che esiste la possibilità di una riacutizzazione è un'informazione in più che abbiamo oggi. Questi pazienti vanno sorvegliati strettamente soprattutto nelle prime due settimane dopo la vaccinazione, anche da remoto, con un approccio di teleassistenza (tele-saturimetria), per evidenziare tempestivamente delle desaturazioni delle quali magari il paziente non percepisce subito la portata, ma che sono importanti".
Mutazioni genetiche rare, che indeboliscono i geni coinvolti nei processi di attivazione del sistema immunitario, predispongono a forme asintomatiche del Covid-19. Lo hanno dimostrato i ricercatori del Ceinge, analizzando i campioni di Dna di circa 800 individui, che erano stati contagiati dal virus SARS-CoV-2, ma che non avevano sviluppato sintomi gravi pur avendo fattori di rischio come l'età avanzata.
Il gruppo diretto da Mario Capasso e Achille Iolascon, professori di genetica medica dell'Università degli Studi di Napoli Federico II e ricercatori del Ceinge, ha aggiunto un nuovo tassello al complesso puzzle della predisposizione genetica ai diversi fenotipi clinici del Covid-19 con uno studio pubblicato sulla rivista internazionale Genetics in Medicine, (the official journal of the American College of Medical Genetics and Genomics-ACMG). È noto che fattori di rischio come l'età, sesso e malattie pregresse hanno un ruolo rilevante nel determinare la gravità della malattia Covid-19 in soggetti infetti da SARS-CoV-2. Meno conosciuti sono, invece, i fattori genetici dell'uomo, che possono contribuire a determinare le diverse forme della malattia Covid-19, a partire da quelle asintomatiche fino a quelle clinicamente gravi.
"Sono stati analizzati - spiega Capasso - tutti i geni finora conosciuti, utilizzando sequenziatori di ultima generazione e ottenendo così un enorme mole di dati genetici. Strategie di analisi bioinformatiche avanzate, messe a punto grazie al contributo del giovane ricercatore Giuseppe D'Alterio e del team di esperti bioinformatici del Ceinge, hanno poi permesso di identificare mutazioni patogenetiche rare che erano significativamente più frequenti nei soggetti infetti e asintomatici e non in una grande casistica di circa 57000 soggetti sani".
La ricerca si è avvalsa della collaborazione con Pellegrino Cerino (Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno) e Massimo Zollo (coordinatore della task force Covid del Ceinge, professore di genetica dell'Università degli Studi di Napoli Federico II). Tre geni MASP1, COLEC10 e COLEC11, appartenenti tutti e tre alla famiglia delle proteine della lectina e noti avere un ruolo di difesa contro le infezioni, erano colpiti da mutazioni genetiche che attenuavano la loro funzione. "Oggi è ampiamente dimostrato che l'eccessiva risposta immunitaria all'infezione da SARS-CoV-2 e la successiva iper-attivazione dei processi pro-infiammatori e pro-coagulativi sono la causa principale del danno agli organi come polmoni, cuore, rene", chiarisce Capasso, che aggiunge: "La nostra ricerca dimostra che le mutazioni del genoma umano che attenuano questa eccessiva reazione immunitaria possono predisporre ad un'infezione senza sintomi gravi". Una scoperta che potrà incidere sui futuri approcci diagnostici e terapeutici.
"Abbiamo reso disponibili, in un database online, tutti i dati genetici ottenuti che altri studiosi potranno liberamente consultare per sviluppare nuove ricerche - fa sapere Iolascon -. Possiamo utilizzare queste mutazioni per individuare soggetti che sono predisposti a sviluppare forme meno gravi o asintomatiche della malattia Covid-19. Inoltre i livelli sierici dei tre geni individuati potrebbero essere utilizzati come marcatori prognostici della malattia grave. Infine, oggi sappiamo qualcosa in più sulle basi biologiche di questa malattia e dunque abbiamo qualcosa su cui lavorare per sviluppare nuovi trattamenti farmacologici".
Fare tesoro delle esperienze accumulate negli ultimi due anni e del nuovo ruolo che il farmacista ha assunto con l'emergenza sanitaria, e confrontarsi con professionisti di diversi settori per affrontare l'evoluzione della professione, nonché la novità del Long Covid.
Sono alcuni dei fini dei Talk di Cosmofarma, un nuovo format, espressione del Comitato Tecnico della manifestazione del mondo dell'Healthcare, il Beautycare e dei servizi legati al mondo della farmacia, che nell'edizione 2022 propone tre appuntamenti in calendario dal 13 al 15 maggio a BolognaFiere. "Abbiamo ritenuto importante- afferma Francesca Ferilli, direttore generale di Bos Srl- ascoltare i bisogni e i punti di vista dei farmacisti, soprattutto dopo gli ultimi due anni di cambiamento, per essere sempre più efficaci nel fornire risposte concrete agli operatori del settore. Per questo abbiamo creato il format dei Talk di Cosmofarma, in cui i farmacisti sono al centro del dibattito, proponendo le loro differenti esperienze e trovando risposte adeguate ai loro bisogni nei consulenti coinvolti".
Sempre in prima linea durante l'emergenza sanitaria, infatti, i farmacisti italiani si sono messi al servizio del cittadino in modo nuovo, confermando un ruolo che già li poneva in primo piano nell'assistenza al cittadino e, allo stesso tempo, conquistando uno spazio di ulteriore credito nella percezione degli utenti che si sono rivolti alla farmacia non solo per l'acquisto di prodotti, ma per essere informati, rassicurati, consigliati su come affrontare il virus. Nel corso della pandemia, dunque, il farmacista e la farmacia hanno visto il loro ruolo cambiare e trovarsi ancora più al centro nel fornire i servizi, a partire ad esempio dai tamponi e dai vaccini. Tutto ciò ha avuto un forte impatto sull'organizzazione degli spazi all'interno delle farmacie italiane, molto diverse tra loro per dimensioni e per caratteristiche tecniche. Quella percezione degli utenti ora dovrebbe essere conservata e implementata. Da qui l'appuntamento di venerdì 13 maggio (alle 12.30, nello spazio Innovazione, padiglione 26) intitolato "Analizzare, conoscere, riflettere, progettare la nuova farmacia", un talk che porterà l'attenzione proprio su queste tematiche con l'architetto Monica Semeraro, il Ceo e Founder di Neurexplore Giuliano Trenti e la farmacista Silvia Sorace Maresca. Durante l'incontro anche grazie ai risultati di un'indagine comportamentale sulle nuove esigenze del consumatore, verrà proposta una riflessione su come organizzare il layout della farmacia per poter essere efficienti e pronti ai futuri sviluppi della professione.
I suggerimenti e gli stimoli della farmacista, dell'architetto e dell'esperto di neuromarketing aiuteranno infatti a trovare insieme le soluzioni più adatte a ridisegnare gli spazi e a disporre al meglio i prodotti. Verrà spiegato come, applicando il neuromarketing, sia possibile prevedere e potenziare le performance in ambito vendita e interazione con il cliente-paziente. "Nuovi equilibri in farmacia, tra sviluppo della professione e sostenibilità economica", è invece il talk che si svolgerà sabato 14 maggio (alle 16.15 nel Training Hub), e che aprirà in confronto inedito e peculiare, chiamando una farmacia urbana e una rurale e il loro differente vissuto a dialogare con professionisti di ambiti diversi tra loro. Elena Vecchioni (della Farmacia Roma) presidente Federfarma Verona e Matteo Zerbinato (Farmacia Rossini di Asigliano Veneto) vice presidente Ordine dei Farmacisti di Verona e consigliere Fenagifar, colloquieranno con Francesco Manfredi, commercialista nello Studio Guandalini, per affrontare appunto il post emergenza in farmacia dal punto di vista della sostenibilità economica. Mentre con la filosofa del linguaggio Elisabetta Lalumera, ricercatrice del Dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita dell'Università degli Studi di Bologna, si metterà al centro la diversa gestione della relazione con un consumatore nuovo, quello appunto del post pandemia. A moderare entrambi gli appuntamenti sarà Roberto Valente, consigliere delegato Bos srl e, profondo conoscitore del mondo della farmacia. Si concentrerà sul tema, attualissimo, del Long Covid il terzo talk di Cosmofarma, al quale parteciperanno il professor Pierluigi Gargiulo, Medico Chirurgo, specialista in Medicina dello Sport ed in Chirurgia Pediatrica che parlerà della sua esperienza, di fronte a quelle dei farmacisti Antonio Pismataro e Federica Bassani.
Figure diverse ma contemporaneamente complementari, infatti, medici e farmacisti si trovano davanti a una sindrome che tutt'oggi presenta sintomi che possono essere più o meno gravi e persistenti. Disagi che vanno da una forte astenia a dispnea da sforzo, da problemi cardiologici, gastroenterici, dermatologici, endocrinologici, fino ad arrivare a ripercussioni sul sistema nervoso, la cosiddetta "nebbia mentale". Durante il talk "Il Long Covid; il ruolo di supporto della Farmacia nell'integrazione", Gargiulo, Pismataro e Bassani cercheranno di descrivere che impatto ha, anche nei nostri giorni, il Long Covid nella popolazione e sul sistema sanitario e la funzione centrale che il sistema sanitario e le farmacie hanno nella cogestione sia delle terapie farmacologiche che nella prevenzione e nel sostegno a chi soffre per il Long Covid, anche grazie al contributo che possono dare l'alimentazione e l'integrazione.
"Il Comitato Tecnico- spiega Silvia Sorace Maresca, presidente del Comitato Tecnico- è costituito da un gruppo di farmacisti territoriali, che mettono in evidenza i punti caldi che hanno contraddistinto il periodo, imprimendo alla professione un ritmo nuovo. È assolutamente attuale, in questo momento, il non riconoscersi più in spazi e modi fin qui adottati: la pandemia ha sparigliato le carte! Oggi abbiamo bisogno di spazi strutturati diversamente per svolgere i nuovi servizi, abbiamo necessità di esporre referenze che non avevamo mai trattato, dobbiamo saper rispondere a nuove domande da parte dei nostri utenti. Da questo tipo di riflessioni sono nati i talk".
In 2 anni di Covid-19 quasi 15 milioni di morti in eccesso. E' la nuova stima dell'Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui "l'intero bilancio delle vittime associato direttamente o indirettamente alla pandemia (descritta come 'mortalità in eccesso') tra il 1 gennaio 2020 e il 31 dicembre 2021 è stato di circa 14,9 milioni" di vite perse (range da 13,3 milioni a 16,6 milioni).
La maggior parte delle morti in eccesso (84%) si concentra nel Sudest asiatico, in Europa e nelle Americhe. Circa il 68% delle morti in eccesso si concentra in soli 10 Paesi a livello globale.
Torna a scendere la curva dei ricoveri Covid-19. Smaltito l'effetto Pasqua, che la settimana scorsa aveva portato a una inversione di tendenza con un lieve rialzo del 3,5%, nella settimana 26 aprile/3 maggio il numero delle ospedalizzazioni si è ridotto del 5,7%. È quanto emerge dalla rilevazione degli ospedali sentinella della Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso).
A diminuire nell'ultimo monitoraggio sono stati sia i ricoveri nei reparti ordinari per l'assistenza Covid-19 (-5,7%) sia il numero dei pazienti nelle rianimazioni (-7,5%). Persiste una quota consistente, pari al 20%, di pazienti no vax nelle rianimazioni: hanno in media 75 anni e nel 100% dei casi sono affetti da altre patologie. Un dato che desta preoccupazione soprattutto perchè, dall'analisi dei casi presenti nelle terapie intensive, emerge come a non godere della protezione vaccinale siano per lo più soggetti anziani e con comorbidità: proprio coloro che, invece, sono più a rischio di conseguenze gravi del Covid-19.
"Dopo la piccola scossa di assestamento di una settimana fa, dovuta molto probabilmente a un allentamento delle attenzioni durante le festività pasquali- informa il presidente di Fiaso, Giovanni Migliore- negli ospedali siamo tornati a una fase di sostanziale stabilità con una tendenza al miglioramento". "Dal primo maggio sono cadute molte restrizioni- aggiunge- ma occorre continuare ad avere molta prudenza, soprattutto se si vive accanto a soggetti fragili. Ormai, infatti, il 100% dei pazienti delle terapie intensive presenta comorbidità rilevanti, questo detta indicazioni molto precise: la necessità di un'adeguata copertura vaccinale per i soggetti fragili, con la giusta tempistica, inclusa la somministrazione della quarta dose e soprattutto il recupero dei non vaccinati con fragilità".
"In particolare, osservare come i no vax attualmente presenti in terapia intensiva siano anziani e malati- conclude Migliore- è un segnale preoccupante, che spinge le aziende sanitarie e ospedaliere a continuare nell'ultimo miglio della campagna vaccinale per quei soggetti che sono ancora sprovvisti della copertura". La rilevazione degli ospedali sentinella della Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere mette inoltre in luce che diminuisce anche il numero dei pazienti pediatrici Covid-19. Nella rilevazione del 3 maggio nei quattro ospedali pediatrici e nei reparti di pediatria degli ospedali aderenti alla rete sentinella Fiaso si osserva un calo del 7,7%. I neonati tra 0 e 6 mesi rappresentano il 15% dei ricoverati: nel 33% dei casi sono figli di genitori non vaccinati. I bambini fino a 4 anni sono ancora la maggioranza dei ricoverati, ovvero il 50% dei pazienti.
Dal 2 maggio è di nuovo possibile entrare in Svizzera alle condizioni ordinarie. Al momento dell’entrata non è quindi più necessario presentare un certificato di vaccinazione o di guarigione. Il DFGP tiene in tal modo conto dell’evoluzione positiva della situazione epidemiologica. L’elenco dei Paesi e regioni a rischio COVID 19 tenuto dal Dipartimento federale di giustizia e polizia (DFGP) è vuoto.
Il 19 marzo 2020, ossia all’inizio della pandemia di COVID-19 in Svizzera, il Consiglio federale aveva introdotto una prima serie di restrizioni d’entrata nei confronti dei viaggiatori, provenienti da Paesi che non fanno parte dello spazio Schengen. Da allora, queste restrizioni sono state modificate a più riprese. L’elenco dei Paesi e delle regioni a rischio è stato integrato o snellito in funzione dell’evolversi della situazione.
Il DFGP ha aggiornato l’elenco consultandosi previamente con il Dipartimento federale dell’interno (DFI) e con il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE). Le restrizioni d’entrata tenevano conto delle raccomandazioni dell’UE sulle restrizioni temporanee per i viaggi non essenziali verso l’UE.
Riguardavano i cittadini di Paesi terzi che volevano entrare in Svizzera da Paesi o regioni considerati a rischio a causa della situazione legata al COVID-19. Concernevano in particolari i viaggi a fini turistici o di visita. In linea di massima sono sempre state fatte eccezioni per i casi di rigore nonché per le persone vaccinate e, successivamente, per le persone guarite. Con la più recente decisione del DFGP, l’elenco dei Paesi e regioni a rischio è ormai vuoto.
Sono 137 le proteine collegate alle forme gravi di Covid-19 che, seppure raramente, possono colpire i bambini. Le hanno identificate gli autori di uno studio guidato dal Murdoch Children's Research Institute-Mcri e dall'università di Melbourne, in Australia, pubblicato su 'Nature Communications'.
Il lavoro - spiegano - ha permesso di individuare per la prima volta i meccanismi patogenetici all'origine della sindrome infiammatoria multisistemica che attacca organi vitali come cuore, polmoni e cervello, e della sindrome da distress respiratorio acuto che danneggia i polmoni. Le vie biologiche coinvolte sono quelle della coagulazione del sangue e della risposta immunitaria al virus Sars-CoV-2, e averle scoperte apre la strada a diagnosi più precoci e a trattamenti più mirati.
"In generale i bambini sono meno suscettibili a Covid-19 e presentano sintomi più lievi, ma non sono chiari i fattori che in alcuni possono portare allo sviluppo di malattie molto gravi - ricorda Conor McCafferty, ricercatore Mcri e dottorando dell'ateneo di Melbourne - Il nostro studio è il primo a scoprire le vie specifiche della coagulazione del sangue e dell'immunità che hanno un ruolo nei bimbi colpiti da Covid severo".
Per l'indagine sono stati raccolti campioni di sangue da 20 bambini sani al Royal Children's Hospital di Melbourne e da 33 bambini con infezione da Sars-CoV-2, sindrome infiammatoria multisistemica o sindrome da distress respiratorio acuto all'Hôpital Necker-Enfants Malades, Greater Paris University Hospitals, in Francia. Alla ricerca hanno contribuito anche scienziati dell'Australian Proteome Analysis Facility di Sydney. Grazie alla proteomica, un approccio sperimentale che ha consentito di valutare contemporaneamente quasi 500 proteine circolanti nel sangue, gli autori hanno rilevato 85 proteine specifiche per la sindrome infiammatoria multisistemica e 52 per la sindrome da distress respiratorio acuto.
Dallo studio è emerso che per l'1,7% dei pazienti Covid in età pediatrica ospedalizzati il ricovero includeva la terapia intensiva. In particolare, i bambini con sindrome infiammatoria multisistemica mostravano caratteristiche cliniche simili alla malattia di Kawasaki e alla sindrome da shock tossico,quali febbre, dolore addominale, vomito, eruzioni cutanee e congiuntivite, rendendo difficile una diagnosi rapida basata sui sintomi.
Ecco perché secondo Vera Ignjatovic, docente Mcri, i risultati del nuovo lavoro potrebbero aiutare a mettere a punto test diagnostici per l'identificazione tempestiva dei piccoli più a rischio, nonché a individuare target terapeutici per trattamenti più efficaci.
"Conoscere i meccanismi associati a Covid-19 grave nei bambini, e sapere come la coagulazione del sangue e il sistema immunitario dei piccoli reagiscono al virus Sars-CoV-2 - rimarca l'esperta - aiuterà a riconoscere i casi acuti di Covid e ci consentirà di sviluppare un trattamento mirato".
Le sottovarianti del Covid Omicron 4 e 5 si confermerebbero meno 'cattive' della variante originaria Omicron 1, secondo dati sudafricani che confrontano la severità delle forme riportate nei ricoverati per Covid-19 dal 5 marzo 2020 al 23 aprile 2022.
"In Sudafrica crescono le sottovarianti di Omicron BA.4 e BA.5. Ma il dato delle forme gravi conferma il trend di minor aggressività delle sottovarianti", scrive su Facebook Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, postando i risultati della rilevazione. "La media dei ricoveri con BA.4 e 5 è di 2 giorni contro i 4 per BA.1. Forme gravi 23,4% vs 33,8%. Evoluzione più benigna del virus". Guardando allo schema, alla voce decessi la proporzione è del 4,9% con Omicron 4 e 5 contro 9,8% con Omicron 1.
"Un intervento terapeutico precoce a domicilio in pazienti con Covid-19 (entro 72 ore dall'inizio dei sintomi) con i farmaci anti-infiammatori non steroidei (ibuprofene, aspirina, nimesulide, indometacina, ketoprofene) determina una significativa riduzione del numero di ospedalizzazioni e della durata dei sintomi, rispetto a un trattamento tardivo (oltre le 72 ore)".
Questi i risultati di un nuovo studio retrospettivo osservazionale pubblicato dai medici del Comitato cura domiciliare Covid-19 sulla rivista 'American Journal of Biomedical Science and Research'. I medici hanno analizzato i dati di 966 pazienti non vaccinati (selezionati appositamente per valutare l'impatto della cura in assenza di supporto vaccinale), trattati da alcuni camici bianchi del gruppo tra febbraio e dicembre 2021.
I risultati a cui è arrivato lo studio, condotto da Serafino Fazio, Sergio Grimaldi e Andrea Mangiagalli, medici del Consiglio scientifico del Comitato, sono confermati anche analizzando i dati di un sottogruppo di 339 pazienti più anziani (over 50), con età media di 60 anni. Tra i farmaci anti infiammatori utilizzati, indometacina e nimesulide - evidenziano i medici - hanno determinato zero ospedalizzazioni, a seguito della somministrazione entro le 72 ore dall'inizio dei sintomi. Sono stati documentati i decessi di 6 pazienti (tutti over 50 con almeno una comorbidità), 1 nel gruppo che aveva iniziato la terapia entro le 72 ore (over 80 con patologie pregresse) e 5 nel gruppo che aveva iniziato la terapia più tardivamente. Alla luce dei risultati della recente letteratura, i medici sottolineano che l’indometacina, supportata anche da uno studio randomizzato e controllato verso paracetamolo, risulta il farmaco elettivo.
“Questa ulteriore pubblicazione, su un numero consistente di pazienti, conferma la necessità di intervenire in fase precoce, come ribadito da oltre due anni dai nostri medici, e avvalorato da uno studio randomizzato indiano", commenta l’avvocato Erich Grimaldi, presidente del Comitato. "Il ministero della Salute deve comprendere che la battaglia contro il virus non si potrà mai vincere con un’unica arma, soprattutto se non efficace sulle continue varianti", chiosa.
Con la fine dello stato d'mergenza (31 marzo 2022), le regole sono cambiate. Le persone risultate positive al tampone (molecolare o antigenico) sono sottoposte ancora alla misura dell’isolamento.
Valgono in proposito le stesse indicazioni contenute nella Circolare del ministero della Salute diramata il 30 dicembre 2021 che prevede che per i soggetti contagiati che abbiano precedentemente ricevuto la dose booster, o che abbiano completato il ciclo vaccinale da meno di 120 giorni, l’isolamento può essere ridotto da 10 a 7 giorni, purché i medesimi siano sempre stati asintomatici, o risultino asintomatici da almeno 3 giorni e alla condizione che, al termine di tale periodo, risulti eseguito un test molecolare o antigenico con risultato negativo per i soggetti vaccinati con booster o con ciclo vaccinale completato da meno di 120 giorni.
Senza la terza dose e con due dosi da più di 120 giorni (a cui non si deve essere aggiunta la guarigione) il periodo di isolamento dura invece 10 giorni, finiti i quali si può rifare il tampone.
Se l'esito è ancora positivo il test va ripetuto dopo 7 giorni ed è necessaria un'ulteriore settimana di isolamento, sia per sintomatici che per asintomatici.
Nel caso di contatti stretti con soggetti positivi è applicato il regime dell’autosorveglianza, che consiste nell’obbligo di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo Ffp2, al chiuso o in presenza di assembramenti, fino al decimo giorno successivo alla data dell’ultimo contatto stretto.
Se durante il periodo di autosorveglianza si manifestano sintomi, è raccomandata l’esecuzione immediata di un test antigenico o molecolare che in caso di risultato negativo va ripetuto, se ancora sono presenti sintomi, al quinto giorno successivo alla data dell’ultimo contatto.
Ma tutto questo ha ancora senso? "In parecchi Paesi non isolano più. E anche io sono molto dubbioso sull'utilità di questo". Ne è convinto Massimo Clementi, direttore del Laboratorio di microbiologia e virologia dell'università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Che aggiunge: "Il prossimo vero passo verso la normalità, a mio avviso, è la campagna dei richiami vaccinali in autunno, visto il fallimento di questa quarta dose" primaverile, "che ha avuto bassissime adesioni - osserva all'Adnkronos Salute - E secondo me hanno fatto bene le persone a lasciarsi questa chance per settembre-ottobre. Altrimenti si sarebbero dovuti rivaccinare subito di nuovo, per poi essere richiamati pure a Natale, a primavera prossima e avanti così". Quanto alla quarantena dei positivi, Clementi si chiede: "Che effetto ci dà? Il tracciamento non esiste più e il virus circola soprattutto tra i non sintomatici".
Sotto la pressione in corso per adattarsi, il coronavirus Sars-CoV-2 continua a mutare, e fioccano le sottovarianti e le varianti mix nella famiglia Omicron. Sempre più trasmissibili. L'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sta monitorando i diversi lignaggi discendenti dalla variante di preoccupazione oggi dominante.
E se non tanto tempo fa l'argomento di cui si discuteva era la maggior contagiosità di Omicron 2, ora sulla base dei "dati limitati attualmente disponibili", l'Oms parla del "vantaggio di crescita", che "sembra esserci" per le 'versioni' successive rispetto a BA.2: nel dettaglio per "BA.4, BA.5 e BA.2.12".
"L'aumento dei casi Covid che è stato osservato in alcuni Paesi - ragiona l'agenzia Onu nel suo ultimo aggiornamento - potrebbe essere dovuto alla più alta trasmissibilità intrinseca o a superiori capacità di fuga immunitaria dei sottolignaggi che stanno circolando, all'immunità che cala o a una combinazione di questi fattori nel contesto di un panorama genetico in evoluzione". Attualmente invece le evidenze disponibili "non suggeriscono differenze nella gravità o nelle manifestazioni cliniche. Sono in ogni caso attesi più dati" dagli studi in corso.
Quello che l'Oms fa notare nel focus varianti del suo ultimo aggiornamento settimanale su Covid è che "dall'emergere di Omicron nel novembre 2021, il virus ha continuato ad evolversi, dando vita a molti ceppi discendenti e ricombinanti. La diversificazione genetica di Omicron - approfondisce l'agenzia Onu - indica una continua pressione selettiva sul virus in corso per adattarsi al suo ospite e al suo ambiente". Ogni lignaggio ha mutazioni aggiuntive e/o diverse, che potrebbero portare (o no) a sostituzioni di amminoacidi nei siti genomici rilevanti. "Al momento - avverte l'Oms - gli impatti di ogni singola mutazione o di costellazioni di mutazioni non sono ben noti, e quindi è importante continuare a monitorare eventuali cambiamenti associati nell'epidemiologia" di Sars-CoV-2.
Ad oggi resta invariato il dominio della variante Omicron: tra le oltre 257mila sequenze caricate sul database Gisaid da campioni prelevati negli ultimi 30 giorni, il 99,7% erano Omicron, 47 (meno dello 0,1%) erano Delta e 555 (0,2%) sono sequenze che non sono state assegnate a un lignaggio Pango.
La diminuzione dei campioni sequenziati può essere in linea con la tendenza in calo che in questo momento si sta registrando ma, è il monito dell'Oms, "può anche riflettere cambiamenti nelle politiche di sorveglianza epidemiologica di alcuni Paesi, e nelle strategie di campionamento e sequenziamento. L'Oms raccomanda" invece "il mantenimento di una forte sorveglianza per Sars-CoV-2 durante il resto della fase acuta della pandemia".
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"La salute mentale è un problema precedente alla pandemia, che è stato trascurato". Lo ha detto il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, intervenendo al convegno dal titolo 'La prevenzione degli stati di disagio e la promozione del benessere psicologico nell'Arma dei Carabinieri: attualità e prospettive', organizzato oggi a Roma dal Comando generale dell'Arma dei Carabinieri - Dipartimento per l'organizzazione sanitaria e veterinaria.
"Siamo tutti concentrati sul dolore fisico- ha proseguito Sileri- e spesso non pensiamo che c'è anche il dolore psicologico, una forma di malattia anche più grave di tante altre malattie che vediamo tutti i giorni". La pandemia, secondo il sottosegretario, "da una parte ha accentuato la solitudine, a causa delle chiusure e dei lockdown, dall'altra ha reso più difficile la possibilità diagnostica e la prevenzione".
Il ministero della Salute, ha però sottolineato Sileri, è "attento a questi temi e nell'ultimo anno sono stati aumentati i finanziamenti alle Regioni per i dipartimenti di salute mentale. La recente istituzione del bonus psicologo, o le nuove linee guida, sono altre tessere di un mosaico che andrà completato con altri interventi strutturali". Durante l'evento è stato quindi presentato il progetto 'Help-Line' che, realizzato tramite una collaborazione tra l'azienda ospedaliera universitaria Sant'Andrea di Roma e l'Arma dei Carabinieri, prevede l'istituzione di un numero telefonico che offre sostegno psicologico agli uomini e alle donne dell'Arma. "Credo molto in questa iniziativa- ha infine commentato Sileri- Credo che possa dare ascolto e soprattutto attenzione, quell'attenzione che probabilmente è mancata negli anni passati".
Il Consiglio federale ha deciso oggi che in futuro i certificati COVID per persone guarite potranno essere emessi anche sulla base di un test antigenico rapido positivo. Con le nuove disposizioni dell’UE questi certificati sono riconosciuti a livello internazionale.
D’ora in poi, anche in Svizzera sarà possibile emettere certificati per persone guarite basati su un test antigenico rapido positivo o su un’analisi immunologica di laboratorio degli antigeni del Sars-CoV-2. Questi certificati sono validi 180 giorni e, dato che riprendono le disposizioni dell’UE, sono in linea di principio riconosciuti a livello internazionale. Possono essere emessi retroattivamente per i test risultati positivi dal 1° ottobre 2021.
In Svizzera, certificati del genere erano già stati rilasciati tra il 24 gennaio e il 16 febbraio 2022 ma, a causa della mancanza di disposizioni analoghe a livello di UE, la loro validità era limitata alla Svizzera (cosiddetto certificato svizzero). I certificati già rilasciati su questa base devono essere richiesti e rilasciati nuovamente per essere compatibili a livello internazionale.
L’ordinanza sui certificati COVID-19 sarà adeguata alle disposizioni dell’UE. La modifica entrerà in vigore il 2 maggio 2022.
Nel 2020, l’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) ha commissionato una valutazione esterna della gestione della pandemia di COVID-19 fino all’estate 2021.
La valutazione giunge alla conclusione che la Confederazione e i Cantoni hanno sostanzialmente gestito bene la pandemia e hanno per lo più risposto in modo adeguato alla minaccia. Dall’analisi emerge tuttavia che la preparazione alla crisi è stata in parte insufficiente e che in singoli settori la fase iniziale non è stata gestita in modo ottimale. La valutazione formula una serie di raccomandazioni all’UFSP, alcune delle quali sono già state attuate durante la pandemia.
La valutazione della prima fase pandemica fino all’estate 2021, affidata alla società Interface Politikstudien, mirava in particolare a stabilire se la Confederazione, nello specifico l’UFSP, e i Cantoni avessero reagito in modo tempestivo e adeguato alla minaccia rappresentata dalla COVID-19 e a capire quale fosse il potenziale di miglioramento nella preparazione e nella gestione della crisi.
Per la valutazione della gestione della crisi sono stati analizzati in modo approfondito cinque ambiti tematici: la ripartizione delle competenze tra la Confederazione e i Cantoni, la disponibilità e l’utilizzo dei dati digitali, il ruolo e la responsabilità nella comunicazione con la popolazione, l’utilizzo delle competenze professionali dei portatori di interessi e la messa a disposizione di capacità di trattamento.
La valutazione giunge alla conclusione che nella prima fase della pandemia la Confederazione e i Cantoni hanno gestito bene la crisi e – salvo eccezioni – hanno per lo più reagito in modo adeguato e rapido alla minaccia rappresentata dalla COVID-19, e questo anche nel confronto internazionale. Se da un lato le chiusure delle scuole decise nella primavera del 2020 sono ritenute inappropriate, dall’altro è sempre stata garantita la buona qualità dell’assistenza sanitaria e le misure adottate hanno incontrato un’ampia accettazione tra la popolazione.
Raccomandazioni
Il rapporto di valutazione contiene raccomandazioni destinate in parte alla Confederazione e all’UFSP e in parte ai Cantoni. All’UFSP si raccomanda in generale di prepararsi meglio a livello organizzativo all’eventualità di una nuova crisi. A tal fine, vanno garantite le risorse necessarie e condotte regolarmente esercitazioni per la gestione delle crisi. L’UFSP dovrebbe anche provvedere affinché i principali attori siano sistematicamente coinvolti nella preparazione delle decisioni e nell’attuazione delle misure, in modo da migliorare la qualità e l’accettazione delle decisioni.
In caso di pandemia, l’UFSP dovrebbe inoltre partire da un concetto più ampio di salute e tenere maggiormente conto degli effetti indiretti delle misure, come quelli sulla salute mentale. Infine, l’UFSP dovrebbe, insieme ai Cantoni e ad altri attori, promuovere e disciplinare in modo vincolante la digitalizzazione e la gestione dei dati nel sistema sanitario.
Miglioramenti già realizzati
La valutazione si riferisce alla prima fase acuta della pandemia, durante la quale l’organizzazione di crisi ha dovuto prendere forma e consolidarsi. Già in questa fase sono state adottate misure di miglioramento, per esempio nel campo della digitalizzazione. L’UFSP ha migliorato il sistema di dichiarazione e ha messo a disposizione del pubblico le cifre chiave essenziali della pandemia su una dashboard. Sta inoltre sviluppando un portale informativo su tutte le malattie a dichiarazione obbligatoria. Sono necessari ulteriori interventi, per esempio sul fronte dello sviluppo di sistemi di dichiarazione automatica tra diversi attori.
Nella definizione delle misure di protezione l’importanza della salute mentale è stata presa in considerazione già dopo poco tempo. A differenza di molti Paesi vicini, sono stati adottati dispositivi di misure meno severi, anche perché si è tenuto conto di aspetti sociali ed economici. L'UFSP ha lanciato una campagna per evidenziare l’impatto della crisi sulla salute mentale. In parallelo sono state promosse offerte di sostegno per le persone colpite.
L’UFSP utilizzerà le conoscenze acquisite grazie a questa valutazione nel quadro della revisione della legge sulle epidemie e del piano pandemico nazionale che si concluderà entro il 2024.
Sull'epatite acuta nei bambini "non c'è correlazione con il nuovo coronavirus, né con il vaccino Covid. L'ipotesi più verosimile sembrerebbe una possibile infezione da adenovirus, che normalmente non causa epatite, ma che magari in concomitanza con un'altra infezione o con altri fattori determina un danno epatico grave che può dare epatite. Sono ancora pochi casi, per questo non se ne conosce molto".
Lo chiarisce il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, intervenuto questa mattina a Radio Inblu 2000, parlando delle epatiti acute di origine sconosciuta nei bimbi.
"Non è stato il vaccino contro Covid-19, non c'è vaccino per bimbi sotto i 5 anni, nel Regno Unito non li vaccinano sotto i 10 - rimarca Sileri - non c'è correlazione con il vaccino né col virus. Nella maggioranza dei casi è stata identificata una positività all'adenovirus, ma questo non basta a stabilire una relazione".
"Il numero dei casi sospetti sarà sovrastimato rispetto ai reali casi etichettati come da nuova epatite. Attenzione a questo fiorire di casi sospetti, che poi magari, dopo una diagnosi, nella stragrande maggioranza verranno tolti dal computo", sottolinea ancora il sottosegretario.
Ci sono "11 casi segnalati in Italia, ma attenzione - precisa - una segnalazione non significa avere la certezza che si tratti di quest'epatite acuta di origine sconosciuta. Sappiamo che è stato fatto un trapianto di fegato, e sicuramente altri 3 casi sono confermati".
PEDIATRI: "ASPETTIAMO RISPOSTA SCIENZA" - "Al momento non abbiamo certezze su questa forma epatite acuta dei bambini. Come in tutte le situazioni virali, purtroppo già vissute negli ultimi anni, quando compare una situazione del genere dobbiamo aspettare che la scienza faccia il suo corso. E' inutile sforzarsi di dare risposte che potrebbero essere imprecise, inutili o addirittura controproducenti in questo momento". Lo spiega all'Adnkronos Salute Paolo Biasci, past president della Federazione italiana medici pediatri (Fimp).
"In questo momento si rischia di dare risposte parziali che poi, successivamente, passano come 'sbagliate' e rischiamo di compromettere la comunicazione indirizzata alle famiglie. Ora siamo in una fase in cui sono in corso indagini scientifiche e una attività importante di sorveglianza. Sono i due elementi fondamentali per affrontare un problema emergente", conclude.
L'OMS ha formulato una forte raccomandazione per nirmatrelvir e ritonavir, venduti con il nome di Paxlovid, per i pazienti COVID-19 lievi e moderati a più alto rischio di ricovero ospedaliero, definendola la migliore scelta terapeutica per i pazienti ad alto rischio fino ad oggi.
Tuttavia, la disponibilità, la mancanza di trasparenza dei prezzi negli accordi bilaterali stipulati dal produttore e la necessità di test tempestivi e accurati prima della somministrazione stanno trasformando questo medicinale salvavita in una sfida importante per i paesi a basso e medio reddito.
Il farmaco antivirale orale di Pfizer (una combinazione di compresse di nirmatrelvir e ritonavir) è fortemente raccomandato per i pazienti con COVID-19 non grave che sono a più alto rischio di sviluppare malattie gravi e ospedalizzazione, come pazienti non vaccinati, anziani o immunosoppressi.
Questa raccomandazione si basa su nuovi dati provenienti da due studi randomizzati controllati che hanno coinvolto 3078 pazienti. I dati mostrano che il rischio di ospedalizzazione si riduce dell'85% a seguito di questo trattamento. In un gruppo ad alto rischio (oltre il 10% di rischio di ricovero), ciò significa 84 ricoveri in meno ogni 1000 pazienti.
L'OMS ne suggerisce l'uso nei pazienti a basso rischio, poiché i benefici sono risultati trascurabili.
Un ostacolo per i paesi a basso e medio reddito è che il medicinale può essere somministrato solo mentre la malattia è nelle sue fasi iniziali; test tempestivi e accurati sono quindi essenziali per un esito positivo con questa terapia. I dati raccolti da FIND mostrano che il tasso medio giornaliero di test nei paesi a basso reddito è di un ottantesimo rispetto ai paesi ad alto reddito. Il miglioramento dell'accesso ai test e alla diagnosi precoci nelle strutture di assistenza sanitaria primaria sarà la chiave per l'introduzione globale di questo trattamento.
L'OMS è estremamente preoccupata che, come è successo con i vaccini COVID-19, i paesi a basso e medio reddito saranno nuovamente spinti alla fine della coda quando si tratta di accedere a questo trattamento.
La mancanza di trasparenza da parte della società originatrice sta rendendo difficile per le organizzazioni sanitarie pubbliche ottenere un quadro accurato della disponibilità del medicinale, quali paesi sono coinvolti in accordi bilaterali e quanto stanno pagando. Inoltre, un accordo di licenza stipulato da Pfizer con il Medicines Patent Pool limita il numero di paesi che possono beneficiare della produzione generica del medicinale.
Il prodotto originario, venduto con il nome Paxlovid*, sarà incluso oggi nell'elenco di prequalificazione dell'OMS, ma i prodotti generici non sono ancora disponibili da fonti di qualità garantita. Diverse aziende di generici (molte delle quali sono coperte dall'accordo di licenza tra Medicines Pool e Pfizer) stanno discutendo con la prequalificazione dell'OMS, ma potrebbe volerci del tempo per conformarsi agli standard internazionali in modo da poter fornire il medicinale a livello internazionale.
L'OMS raccomanda pertanto caldamente a Pfizer di rendere più trasparenti i suoi prezzi e gli accordi e di ampliare l'ambito geografico della sua licenza con il Medicines Patent Pool in modo che più produttori generici possano iniziare a produrre il medicinale e renderlo disponibile più velocemente a prezzi accessibili.
Insieme alla forte raccomandazione per l'uso di nirmatrelvir e ritonavir, l'OMS ha anche aggiornato la sua raccomandazione su remdesivir, un altro medicinale antivirale.
In precedenza, l'OMS ne aveva suggerito l'uso in tutti i pazienti COVID-19 indipendentemente dalla gravità della malattia, a causa della totalità delle prove in quel momento che mostravano scarsi o nessun effetto sulla mortalità. A seguito della pubblicazione di nuovi dati da uno studio clinico che esamina l'esito del ricovero in ospedale, l'OMS ha aggiornato la sua raccomandazione. L'OMS suggerisce ora l'uso di remdesivir in pazienti con COVID-19 lieve o moderato che sono ad alto rischio di ricovero.
La raccomandazione per l'uso di remdesivir nei pazienti con COVID-19 grave o critico è attualmente in fase di revisione.
Continuano ad aumentare le reinfezioni da Covid-19 in Italia. Nell’ultima settimana la percentuale di reinfezioni sul totale dei casi segnalati risulta pari a 4,5%, in crescita rispetto al 4,4% della settimana precedente. Lo evidenzia il report esteso dell'Istituto superiore di sanità (Iss) su Covid-19 in Italia. Dal 24 agosto 2021 al 20 aprile 2022 sono stati segnalati 357.379 casi di reinfezione, pari a 3,2% del totale dei casi notificati.
L’analisi del rischio di reinfezione a partire dal 6 dicembre 2021, quando è cominciata la diffusione della variante Omicron, evidenzia un aumento del rischio di reinfezione nei soggetti con prima diagnosi di Covid-19 notificata da oltre 210 giorni rispetto a chi ha avuto la prima diagnosi fra i 90 e i 210 giorni precedenti; nei soggetti non vaccinati o vaccinati con almeno una dose da oltre 120 giorni rispetto ai vaccinati con almeno una dose entro i 120 giorni; nelle donne rispetto ai maschi. Il maggior rischio per il sesso femminile, spiega l'Iss, può essere verosimilmente dovuto alla maggior presenza di donne in ambito scolastico (più dell'80%) dove viene effettuata una intensa attività di screening e al fatto che le donne svolgono più spesso la funzione di caregiver in ambito famigliare. Il rischio di reinfezione, inoltre, è maggiore nelle fasce di età più giovani (dai 12 ai 49 anni) rispetto alle persone con prima diagnosi fra i 50-59 anni d'età, verosimilmente per comportamenti ed esposizioni a maggior rischio; e, infine, negli operatori sanitari rispetto al resto della popolazione.
E ancora: in diminuzione l’incidenza di Covid-19, a 14 giorni, in tutte le fasce d’età, ad eccezione delle fasce 70-79 anni e 'over 80'. Ma è nella fascia 30-39 anni che si registra il più alto tasso di incidenza nelle ultime 2 settimane, pari a 1.618 per 100.000. Fra gli over 80 si registra il valore più basso, 1.170 casi per 100.000 abitanti, evidenzia ancora il report.
Nelle ultime due settimane, dal 4 al 17 aprile, sono stati segnalati 827.819 nuovi casi di Covid-19. Anche in quest’ultima settimana, riferisce l'Iss, il numero di casi notificati dalle regioni Calabria e Sicilia e dalla Provincia autonoma di Bolzano risente del ritardo di notifica dovuto a difficoltà tecnico-organizzative e alla forte pressione sui servizi sanitari.
Delle molecole 'spia' potrebbero guidare i medici nel tentativo di predire quali sono i pazienti Covid con la prognosi peggiore, a rischio cioè di sviluppare malattia grave e di morire.
A scoprirle sono stati ricercatori italiani e il loro lavoro di ricerca viene presentato al Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive (Eccmid 2022) in corso a Lisbona, in Portogallo, dal 23 al 26 aprile. Gli esperti hanno identificato una serie di citochine che possono aiutare a identificare chi rischia di più.
Una reazione eccessiva del sistema immunitario, in cui livelli eccessivi di proteine ??chiamate citochine producono livelli dannosi di infiammazione, può portare a insufficienza d'organo e morte nei pazienti con Covid. Ma quello che non è noto è quali citochine guidino questo processo. Essere in grado di misurare i livelli di tali molecole 'spia' quando i pazienti vengono ricoverati in ospedale consentirebbe di identificare quelli più a rischio e di personalizzare la loro terapia. Con questo obiettivo, Emanuela Sozio, della Clinica malattie infettive dell'Azienda sanitaria universitaria Friuli Centrale di Udine, e i colleghi del Dipartimento di medicina di laboratorio, hanno condotto uno studio retrospettivo su 415 pazienti (65,5% maschi) ricoverati con Covid-19 tra maggio 2020 e marzo 2021.
La coorte comprendeva pazienti con malattia di tutti i livelli di gravità, che sono stati classificati affetti da malattia lieve/moderata o da malattia grave/critica, secondo la definizione dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità). Età media: 70 anni. Il 15,7% è morto in ospedale e il 23,6% ha avuto esito negativo (intubazione orotracheale e/o morte). I livelli sierici di un'ampia serie di citochine sono stati misurati al momento del ricovero e confrontati con gli esiti nei pazienti, in combinazione con altri biomarcatori come la proteina C-reattiva (Pcr) e un altro identificato dalla sigla Mr-proAdm.
I ricercatori sono stati in grado di costruire un albero decisionale (un tipo di diagramma di flusso) che ha permesso di prevedere i pazienti a rischio di esito negativo, in base ai livelli delle citochine e degli altri biomarcatori nel sangue. L'analisi ha rivelato che alti livelli di IL-10 al momento del ricovero possono segnalare un'eccessiva risposta immunitaria che può portare il paziente a sviluppare fibrosi polmonare e richiedere l'intubazione.
Un'ulteriore scoperta è stata che alti livelli di IL-6, una citochina pro-infiammatoria, possono essere accompagnati da livelli elevati di altre due sostanze, Sil2ra e IL-10, che hanno un ruolo antinfiammatorio. Questo è importante, perché in questi casi, i farmaci immunosoppressori normalmente usati per trattare Covid grave potrebbero fare più male che bene, evidenziano gli esperti.
"Non è sempre possibile determinare quali pazienti Covid hanno la prognosi peggiore, soprattutto nella fase iniziale", riflette Sozio che ha esplorato la potenzialità previsionale delle citochine anche in un altro studio presentato all'Eccmid e condotto in collaborazione con la Scuola internazionale di studi avanzati (Sissa) di Trieste. "Sta diventando sempre più chiaro, tuttavia, che prima trattiamo l'infiammazione eccessiva, più è probabile che la si disattivi in modo rapido e definitivo, evitando così danni irreversibili agli organi - prosegue - Il nostro lavoro può aiutare a selezionare i pazienti con prognosi peggiore" che devono essere ricoverati in unità a più alta intensità di cura, "nonché potenzialmente aiutare a personalizzare il loro trattamento".
Il tasso di mortalità, relativo alla popolazione con più di 5 anni d'età, nel periodo 25 febbraio-27 marzo 2022, per i non vaccinati (36 decessi per 100.000 abitanti) risulta circa cinque volte più alto rispetto ai vaccinati con ciclo completo da meno di 120 giorni (8 decessi per 100.000) e circa dieci volte più alto rispetto ai vaccinati con booster (4 decessi per 100.000 abitanti). Lo evidenzia il report esteso dell'Istituto superiore di sanità (Iss) su Covid-19 in Italia.
Il tasso di ospedalizzazione standardizzato per età, relativo alla popolazione con più di 5 anni, nel periodo 4 marzo-3 aprile 2022 per i non vaccinati (128 ricoveri per 100.000 abitanti) risulta circa tre volte più alto rispetto ai vaccinati con ciclo completo da meno di 120 giorni (45 ricoveri per 100.000 abitanti) e circa quattro volte più alto rispetto ai vaccinati con dose aggiuntiva/booster (30 ricoveri per 100.000 abitanti). Nello stesso periodo il tasso di ricoveri in terapia intensiva standardizzato per età, relativo alla popolazione con più di 5 anni, per i non vaccinati (8 ricoveri in terapia intensiva per 100.000 abitanti) risulta circa quattro volte più alto rispetto ai vaccinati con ciclo completo da meno di 120 giorni (2 ricoveri in terapia intensiva per 100.000) e circa otto volte più alto rispetto ai vaccinati con booster (1 ricovero in terapia intensiva per 100.000 abitanti).
Stabile, rispetto alla settimana precedente, la percentuale dei casi segnalati nella popolazione in età scolare, il 21%, rispetto al resto della popolazione, evidenzia ancora il report. Dall’inizio dell’epidemia sono stati diagnosticati e riportati al sistema di sorveglianza integrata Covid-19 3.591.553 casi nella popolazione 0-19 anni, di cui 17.369 ospedalizzati, 388 ricoverati in terapia intensiva e 53 deceduti.
Nell’ultima settimana, come nella precedente, il 17% dei casi in età scolare è stato diagnosticato nei bambini sotto i 5 anni, il 43% nella fascia d’età 5-11 anni, il 39% nella fascia 12-19 anni. In diminuzione, rileva l'Iss, il tasso di incidenza in tutte le fasce d’età. Stabile il tasso di ospedalizzazione in tutte le fasce d’età, anche se i dati riferiti all’ultima settimana siano da considerare in via di consolidamento.
I risultati completi dello studio di profilassi pre-esposizione di fase III PROVENT hanno dimostrato che la combinazione di anticorpi tixagevimab e cilgavimab di AstraZeneca è in grado di ridurre il rischio di sviluppare il COVID-19 sintomatico del 77% nell’analisi primaria e dell’83% nell’analisi di follow-up a sei mesi, rispetto al placebo.
Non ci sono stati casi di malattia grave o decessi correlati al COVID-19 nel gruppo con tixagevimab e cilgavimab durante il follow-up a sei mesi.
Al basale, più del 75% dei partecipanti allo studio PROVENT aveva co-morbidità che li collocavano tra i soggetti ad elevato rischio di sviluppare una forma grave di COVID-19 se si fossero infettati, comprese le persone immuno-compromsse e coloro che possono presentare una risposta immunitaria inadeguata alla vaccinazione, come ad esempio le persone affette da leucemia linfatica cronica o con immunodeficienze primitive o acquisite, i trapiantati sottoposti a trattamenti immunosoppressivi.
Ulteriori dati di farmacocinetica hanno mostrato che le concentrazioni di tixagevimab e cilgavimab sono rimaste elevate nel siero per sei mesi dopo la somministrazione, a supporto del fatto che una singola dose potrebbe fornire una protezione a lungo termine contro il COVID-19 per almeno sei mesi.
I dati sono stati pubblicati nel New England Journal of Medicine.
Il Prof. Giovanni Di Perri, Professore Ordinario di Malattie Infettive all’Università di Torino e Responsabile della Divisione Universitaria di Malattie Infettive all’Ospedale Amedeo di Savoia di Torino ha commentato: “Nonostante i vaccini contro il COVID-19 siano stati altamente efficaci nel ridurre l’ospedalizzazione e la morte, rimangono ancora numerose persone le cui condizioni individuali non permettono una valida risposta protettiva alla vaccinazione. Si tratta in particolare di individui immunodepressi e di coloro per i quali la vaccinazione è controindicata. Questi importanti dati pubblicati sul New England Journal of Medicine forniscono le evidenze di come una singola dose della combinazione di anticorpi monoclonali tixagevimab e cilgavimab, facilmente somministrabile per via intramuscolare, determini una protezione duratura. Inoltre, nei rari casi in cui l’infezione si è verificata nonostante la somministrazione dei due monoclonali, in nessun caso si è presentata in modo severo o critico”.
Rispetto all’analisi primaria, l’analisi di follow-up ha dimostrato una maggiore riduzione dell’incidenza di COVID-19 nel gruppo trattato con tixagevimab e cilgavimab, con una riduzione del rischio relativo dell’83% (95% CI 66, 91) rispetto al placebo a un follow-up mediano di 196 giorni. Il COVID-19 sintomatico si è manifestato in 11/3441 (0,3%) e 31/1731 (1,8%) partecipanti rispettivamente nei gruppi con tixagevimab e cilgavimab e placebo. L’efficacia è stata generalmente coerente tra i sottogruppi di partecipanti, dove valutabile.
Non ci sono stati casi di COVID-19 grave, e decessi legati al COVID-19 o ricoveri nel gruppo con tixagevimab e cilgavimab nell’analisi di follow-up a sei mesi; ci sono stati cinque casi di malattia grave, sette ricoveri e due decessi legati al COVID-19 nel gruppo placebo.
La combinazione di anticorpi tixagevimab e cilgavimab è stata generalmente ben tollerata durante lo studio PROVENT e non sono stati riscontati problemi di sicurezza né nell’analisi primaria né in quella a sei mesi. Si sono registrati eventi avversi con ugual frequenza nei gruppi con tixagevimab e cilgavimab e placebo. L’evento avverso più comune è stata la reazione al sito di iniezione, verificatasi nel 2,4% dei partecipanti nel gruppo con tixagevimab e cilgavimab e nel 2,1% dei partecipanti nel gruppo placebo.
Circa il 2% della popolazione mondiale è considerato ad alto rischio di una risposta inadeguata alla vaccinazione contro il COVID-19 e potrebbe trarre particolare beneficio dalla profilassi pre-esposizione con la combinazione di anticorpi monoclonali tixagevimab e cilgavimab. Questa popolazione comprende persone immunocompromesse, come quelle con cancro o pazienti sottoposti a trapianto o chiunque assuma farmaci immunosoppressori. Anche le persone ad alto rischio di esposizione al virus SARS-CoV-2 potrebbero beneficiare della protezione con tixagevimab e cilgavimab.
AstraZeneca ha precedentemente annunciato risultati positivi dello studio di fase III TACKLE nel trattamento del COVID-19 da lieve a moderato. I risultati completi saranno presentati al prossimo Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive (ECCMID) e sono stati presentati per la pubblicazione in una rivista medica peer-reviewed e sono attualmente in revisione alle autorità regolatorie.
La Food and Drug Administrationstatunitense ha rilasciato l’autorizzazione all’uso di emergenza del primo test diagnostico per rilevare i composti chimici nei campioni di respiro associati a un’infezione da SARS-CoV-2 in meno di tre minuti.
Il test può essere eseguito in studi medici, ospedali e siti mobili, utilizzando uno strumento delle dimensioni di un bagaglio a mano. A somministrarlo deve essere però un operatore qualificato e formato sotto la supervisione di un operatore sanitario competente o che sia autorizzato dalla legge statale a prescrivere test.
Le prestazioni dello strumento ‘InspectIR Covid-19‘ sono state convalidate da un ampio studio su 2.409 individui con e senza sintomi. Il test ha dimostrato di avere una sensibilità del 91,2% (la percentuale di campioni positivi correttamente identificati dal test) e una specificità del 99,3% (la percentuale di campioni negativi correttamente identificati dal test).
Lo studio ha anche mostrato che, in una popolazione con solo il 4,2% di individui positivi al virus, il test ha un valore predittivo negativo del 99,6%, il che significa che le persone che ricevono un risultato negativo del test sono probabilmente veramente negative nelle aree di bassa prevalenza della malattia. Il test ha riportato lo stesso risultato in uno studio clinico di follow-up incentrato sulla variante Omicron.
‘InspectIR Covid-19’ utilizza una tecnica chiamata gas cromatografia gas spettrometria di massa(Gc-Ms) per separare e identificare le miscele chimiche e rilevare rapidamente cinque composti organici volatili (Voc) associati all’infezione da Sars-CoV-2 nel respiro esalato. Quando lo strumento ‘InspectIR Covid-19’ rileva la presenza di marcatori CoV di Sars-CoV-2, viene restituito un risultato positivo presunto (non confermato) e deve essere confermato con un test molecolare.
La diagnosi di COVID-19 consiste in un test PCR eseguito su tampone nasofaringeo o salivare. “Questo test è molto efficace nell'identificazione delle persone infette, ma non indica se sono infettive, cioè in grado di trasmettere il virus ad altre persone”, afferma Isabella Eckerle, professoressa presso il Dipartimento di Medicina dell'UNIGE Facoltà di Medicina e preside del Centro HUG-UNIGE per le malattie virali emergenti, che ha guidato questo lavoro.
“Tuttavia, la nozione di contagiosità è essenziale per decidere le misure di prevenzione collettiva, come i periodi di isolamento”.
I test PCR possono rilevare solo la presenza di RNA virale, ma non indicano se il virus è ancora intatto e in grado di diffondersi. La misurazione della carica virale infettiva comporta necessariamente la coltura del virus per diversi giorni in un laboratorio di livello 3 di biosicurezza, procedura impossibile da eseguire di routine.
Minore carica virale dovuta alla vaccinazione
Dall'inizio della pandemia, i campioni prelevati presso il centro di screening HUG sono stati conservati a scopo di ricerca, previa autorizzazione degli interessati. "Siamo stati in grado di rianalizzare campioni di precedenti ondate della malattia", spiega Benjamin Meyer, ricercatore presso il Center for Vaccinology nel Dipartimento di Patologia e Immunologia presso la Facoltà di Medicina dell'UNIGE. “Abbiamo misurato la carica virale infettiva di 3 coorti di pazienti durante i primi 5 giorni sintomatici per confrontare la carica virale causata dal virus originale (118 campioni, primavera 2020), la variante Delta (293 campioni, autunno 2021) e la variante Omicron sottogenere BA.1 (154 campioni, inverno 2022), nonché, per le ultime due coorti, se una differenza significativa potrebbe essere rilevata negli individui vaccinati e non vaccinati.
Nel complesso, la carica virale infettiva per la coorte Delta era significativamente superiore a quella della coorte con il virus originale. Tuttavia, le persone infettate da Delta che hanno ricevuto due dosi di vaccino mRNA avevano una carica virale infettiva significativamente inferiore rispetto alle persone non vaccinate. "Per la coorte Omicron, contrariamente a quanto si può presumere data la sua rapida diffusione, la carica virale infettiva era complessivamente inferiore a quella di Delta", afferma Isabella Eckerle. Al contrario, solo le persone che sono state potenziate (cioè che hanno ricevuto tre dosi di vaccino) hanno avuto una diminuzione della carica virale; le persone che hanno ricevuto solo due dosi non hanno avuto alcun beneficio in questo senso rispetto alle persone non vaccinate. "Questo è immunologicamente coerente: molti vaccini richiedono 3 dosi distanziate di diversi mesi l'una dall'altra per indurre una risposta immunitaria sostenuta, come quella contro il virus dell'epatite B",
Omicron: una variante lontana dalle precedenti
Perché la variante Omicron è così contagiosa, se la carica virale che induce è inferiore rispetto ai suoi predecessori? "Non lo sappiamo ancora, ma i nostri dati suggeriscono che sono in gioco altri meccanismi infettivi", spiega Pauline Vetter, direttrice clinica del Centro HUG-UNIGE per le malattie emergenti. "Ora è chiaro che le mutazioni di Omicron lo differenziano fortemente da altre varianti, consentendogli di sfuggire parzialmente al vaccino e di diminuire l'efficacia di alcuni trattamenti antivirali utilizzati finora". Tuttavia, la vaccinazione si è dimostrata utile nel limitare l'insorgenza di sintomi gravi e molto probabilmente anche la trasmissione del virus. Infatti, nei paesi in cui la popolazione, soprattutto gli anziani, è scarsamente vaccinata, Omicron si è dimostrato altrettanto letale.
Lo studio di Ginevra mostra inoltre che le conoscenze acquisite per le varianti precedenti devono essere aggiornate ogni volta che emerge una nuova variante per poter adattare i mezzi di lotta al COVID-19. "In vista dei nostri risultati, è necessario prestare la massima cautela di fronte a un virus la cui evoluzione non è completamente compresa e contro il quale i trattamenti attualmente esistenti perdono parte della loro efficacia", concludono gli autori.
Questo lavoro è stato realizzato grazie alle sovvenzioni della Fondazione nazionale svizzera per la scienza (FNS), della Fondation Ancrage bienfaisance del Gruppo Pictet e della Fondazione privata HUG.
Nature Medicine: "Infectious viral load in unvaccinated and vaccinated individuals infected with ancestral, Delta or Omicron SARS-CoV-2" DOI: 10.1038/s41591-022-01816-0
Antonio Caperna
"La mascherina obbligatoria per i bambini? Ipocrisia italica". Così su Twitter Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, che oggi ha ribadito la propria posizione in vista del 30 aprile, quando in teoria scadrà l'obbligo di indossare il dispositivo al chiuso.
"Oggi la linea rigorista sull'uso della mascherina serve a molto poco - ha tenuto a precisare - visto che abbiamo ancora 60mila contagi al giorno e l'obbligo della mascherina c'è da 2 anni. Io sono dell'idea che si dovrebbe finire con questa declinazione dell'obbligo e andrei sulla raccomandazione della mascherina per gli anziani e i fragili al chiuso e all'aperto. Gli altri la useranno come il gel alcolico che uno si porta dietro e lo usa quando serve. Deve diventare un oggetto che può funzionare, ma non va declinato come obbligo".
"È cominciata lentamente la discesa dei ricoveri Covid. Nell’ultima settimana monitorata, 5-12 aprile, il numero dei pazienti ospedalizzati è diminuito dell’1%". È quanto emerge dalla rilevazione negli ospedali sentinella della Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso). Una settimana fa, invece, c’era stato un incremento del 3,6%.
"Si tratta della prima inversione di tendenza dopo tre settimane consecutive nelle quali le ospedalizzazioni erano cresciute di pari passo con la risalita dei contagi - evidenzia Fiaso - A diminuire, stando ai dati dell’ultimo report, sono stati i ricoveri nei reparti ordinari mentre nelle rianimazioni la situazione è rimasta pressoché stabile". La quota di pazienti ricoverati 'con Covid', "senza sintomi respiratori e polmonari ma in ospedale per la cura di altre patologie e trovati positivi al tampone prericovero, rappresenta ormai da mesi la maggioranza nei reparti ordinari: il 55% del totale", evidenzia il report.
"Assistiamo a una inversione della curva dei ricoveri con una, sia pur lieve, diminuzione dei casi totali ed è certamente un buon segnale che preannuncia una più significativa discesa nei prossimi giorni – commenta il presidente di Fiaso, Giovanni Migliore - I dati delle terapie intensive, con le modifiche del quadro epidemiologico e l’endemizzazione del virus, evidenziano come a pagare le conseguenze più gravi della malattia da Covid-19 siano i soggetti estremamente vulnerabili e con un’età avanzata che nei mesi è ulteriormente cresciuta: sono dunque i fragili e gli anziani i più a rischio. Questo conferma la bontà della scelta di allargare la platea della quarta dose vaccinale agli over 80 e ai fragili sopra i 60 anni. Occorre spingere sul secondo booster - conclude - e ribadirne l’importanza nel garantire una completa copertura immunologica visto che a oggi meno del 10% della popolazione immunocompromessa vi ha aderito".
70 ANNI ETÀ RICOVERI RIANIMAZIONE - "In terapia intensiva quasi tutti i pazienti" Covid "presentano comorbidità: la percentuale di soggetti affetti da gravi patologie e ricoverati in rianimazione a seguito dell'infezione del virus Sars-CoV-2 è altissima e supera il 90% sia fra i vaccinati sia tra i non vaccinati. Un altro dato da sottolineare è quello dell'età media dei pazienti in terapia intensiva, che nel corso degli ultimi 3 mesi, da gennaio ad aprile, si è alzata di circa 5 anni, raggiungendo i 70 anni".
SITUAZIONE RESTA CRITICA PER BAMBINI PIÙ PICCOLI RICOVERATI - "Permane la situazione critica per i bambini più piccoli, nei quali il Covid determina quadri di maggior impegno, da proteggere maggiormente attraverso la vaccinazione dei genitori". "Complessivamente sono 62 i pazienti sotto i 18 anni ricoverati 'per o con Covid' nei quattro ospedali pediatrici. Nella rilevazione del 5 aprile erano 58", precisa il report che nell'analisi evidenzia come "la variazione è minima e conferma il dato continuamente altalenante già registrato nel corso delle settimane precedenti. La classe di età più colpita come sempre è quella fra 0 e 4 anni (66%). Il 16%, invece, ha fra i 5 e gli 11 anni e il 18% tra 12 e 18 anni".