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Secondo i ricercatori del Quebec, dell'Illinois e del Texas, per prevenire la diffusione di COVID-19 negli ambienti chiusi, la linea guida di distanza fisica di due metri non è sufficiente senza mascherine. Tuttavia, indossare una maschera al chiuso può ridurre la gamma di contaminazione delle particelle sospese nell'aria di circa il 67%.
"Le indicazioni sulla mascherina e una buona ventilazione sono di fondamentale importanza per frenare la diffusione di ceppi più contagiosi di COVID-19, specialmente durante la stagione influenzale e i mesi invernali, poiché più persone socializzano in casa", afferma Saad Akhtar, un ex studente di dottorato sotto la supervisione del professor Agus Sasmito alla McGill University.
Sebbene la maggior parte delle linee guida sulla salute pubblica raccomandi una distanza fisica di due metri per le persone di famiglie diverse, i ricercatori affermano che la distanza da sola non è sufficiente per prevenire la diffusione di COVID-19. In uno studio pubblicato su Building and Environment, i ricercatori hanno scoperto che quando le persone non portano la mascherina, oltre il 70% delle particelle sospese nell'aria supera la soglia dei due metri entro 30 secondi. Al contrario, meno dell'1% delle particelle supera il segno dei due metri, se si indossano.
Simulazione della dinamica della tosse
Basandosi sui modelli utilizzati dagli scienziati per studiare il flusso di liquidi e gas, il team della McGill University, dell'Université de Sherbrooke, della Texas A&M University e della Northern Illinois University, ha sviluppato un programma per computer, per simulare accuratamente la dinamica della tosse negli spazi interni.
Mentre la ventilazione, la postura di una persona e l'uso della maschera hanno avuto un impatto significativo sulla diffusione dei biocontaminanti, l'impatto dell'età e del sesso è stato marginale, hanno scoperto i ricercatori.
La tosse è una delle principali fonti di diffusione di virus nell'aria da individui sintomatici. "Questo studio fa progredire la comprensione di come le particelle infettive possono diffondersi da una fonte all'ambiente circostante e può aiutare i responsabili politici e i governi a prendere decisioni informate sulle linee guida per le maschere e il distanziamento negli ambienti interni", aggiunge Akhtar.
Building and Environment: Implication of coughing dynamics on safe social distancing in an indoor environment—A numerical perspective. DOI: https://doi.org/10.1016/j.buildenv.2021.108280
Antonio Caperna
Lo stesso fattore di rischio genetico, che aumenta il rischio di una persona di sviluppare il morbo di Alzheimer, può anche renderla più vulnerabile ai sintomi gravi di COVID-19, secondo uno studio dei ricercatori dell'University College di Londra.
Gli scienziati hanno scoperto che le varianti del gene OAS1 svolgono un ruolo sia nell'aumento del rischio di demenza che nel peggioramento delle infezioni da coronavirus. In particolare, una variante del gene OAS1 può aumentare il rischio di una persona di sviluppare l'Alzheimer dal 3% al 6%. Lo studio, pubblicato sulla rivista Brain, rileva che le varianti OAS1 aumentano anche le probabilità di aver bisogno di cure intensive per COVID-19 fino al 20%. La scoperta potrebbe aprire la porta a trattamenti per entrambe le condizioni.
"Mentre l'Alzheimer è principalmente caratterizzato da un dannoso accumulo di proteine ??amiloidi e grovigli nel cervello, c'è anche un'ampia infiammazione nel cervello, che evidenzia l'importanza del sistema immunitario nell'Alzheimer. Abbiamo scoperto che alcuni degli stessi cambiamenti del sistema immunitario possono verificarsi sia nell'Alzheimer che nel COVID-19- afferma l'autore principale, il dott. Dervis Salih- Nei pazienti con grave infezione da COVID-19 possono esserci anche cambiamenti infiammatori nel cervello. Qui abbiamo identificato un gene che può contribuire a una risposta immunitaria esagerata per aumentare i rischi sia di Alzheimer che di COVID-19 ».
Il legame tra il sistema immunitario e le cellule cerebrali
I ricercatori affermano che il gene OAS1 è espresso nelle microglia, che sono cellule immunitarie che costituiscono circa il 10% di tutte le cellule del cervello. Il team ha sequenziato i dati genetici di 2.547 persone durante lo studio. La metà di questi individui aveva il morbo di Alzheimer, la forma più comune di demenza. I risultati mostrano che una particolare variante del gene OAS1, rs1131454, aumenta dall'11 al 22% le probabilità di sviluppare l'Alzheimer. Gli scienziati affermano che questa variante del gene antivirale è estremamente comune, con oltre la metà degli europei portatrice.
Cosa fa OAS1?
Lo studio rileva che questo gene controlla la quantità di proteine ??pro-infiammatorie, rilasciate dalle cellule immunitarie del corpo. I ricercatori hanno trattato le cellule della microglia per simulare l'impatto di un'infezione da COVID. Nelle cellule che esprimevano il gene OAS1 con meno potenza, le cellule avevano una "risposta esagerata" alla malattia. Questa reazione eccessiva ha prodotto quella che gli scienziati chiamano la "tempesta di citochine", in cui il sistema immunitario rilascia troppi agenti infiammatori per combattere le malattie.
Il risultato vede il sistema immunitario di una persona attaccare i tessuti sani del corpo, portando a complicazioni potenzialmente letali. Un problema con l'attività dell'OAS1 è che cambia con l'età, il che potrebbe essere il motivo per cui le persone anziane sono più a rischio sia di Alzheimer che di COVID. "I nostri risultati suggeriscono che alcune persone potrebbero avere una maggiore suscettibilità sia all'Alzheimer che al COVID-19 grave, indipendentemente dalla loro età, poiché alcune delle nostre cellule immunitarie sembrano impegnare un meccanismo molecolare comune in entrambe le malattie", aggiunge la dottoranda Naciye Magusali dell'Istituto di ricerca sulla demenza del Regno Unito presso l'UCL.
"Se potessimo sviluppare un modo semplice per testare queste varianti genetiche quando qualcuno risulta positivo al COVID-19, allora potrebbe essere possibile identificare chi è a maggior rischio di aver bisogno di cure critiche, ma c'è molto altro lavoro da fare per portaci lì -conclude il dott. Salih.- Allo stesso modo, speriamo che la nostra ricerca possa contribuire allo sviluppo di un esame del sangue per identificare se qualcuno è a rischio di sviluppare l'Alzheimer prima che mostri problemi di memoria".
Lo studio è pubblicato sulla rivista Brain .
Antonio Caperna
"Il vertice di oggi è un'eccellente opportunità per rafforzare i legami tra il settore pubblico e quello privato a livello multilaterale. Ciò è essenziale per garantire una ripresa solida, equa e sostenibile dalla pandemia e per affrontare le altre sfide dei nostri tempi, compreso il cambiamento climatico". Così il premier Mario Draghi intervenendo in videocollegamento al Summit B20.
"Il rapido sviluppo di vaccini efficaci contro il Covid-19 mostra come la cooperazione tra governi e imprese possa - letteralmente - salvare vite umane. Lo sforzo di ricerca delle aziende farmaceutiche è iniziato subito dopo la scoperta dei primi casi di Covid-19. Grazie all'ingegnosità del settore privato, i vaccini erano pronti poco dopo, mentre normalmente ci vogliono circa dieci anni" ha sottolineato il presidente del Consiglio.
"Una campagna di vaccinazione di massa è diventata possibile appena un anno dopo. I governi, da parte loro - ha rimarcato il premier - hanno fornito generose sovvenzioni per finanziare il lavoro di laboratorio, le sperimentazioni cliniche e la produzione di vaccini. Il settore pubblico ha impegnato somme significative in appalti a lungo termine che hanno protetto l'industria dal rischio di fallimento. Attualmente abbiamo somministrato più di 6 miliardi di dosi di vaccini in tutto il mondo. I nostri sforzi congiunti ci hanno aiutato a tenere sotto controllo la pandemia in molti paesi e a darci la speranza che la sua fine sia finalmente in vista".
CLIMA - Poi il clima. "La Banca centrale europea stima che il cambiamento climatico incontrollato causerà un calo del 40% della produttività delle aziende entro il 2050. Abbiamo bisogno di finanziamenti privati su larga scala, insieme a maggiori investimenti pubblici, per accelerare la transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio. Le aziende sono esattamente al centro della transizione ecologica. Dovrai cambiare la tua struttura produttiva, adattarti alle nuove fonti di energia e i governi sono pronti a supportarti" ha detto Draghi.
Per il presidente del Consiglio, "anche le imprese e i governi dovrebbero collaborare per affrontare il cambiamento climatico. I Paesi del G20 sono responsabili del 75% delle emissioni globali. La Presidenza italiana del G20 sta lavorando per garantire che sosteniamo collettivamente il nostro impegno a limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. È nell'interesse di tutti raggiungere questo obiettivo".
WTO - Inoltre, "la presidenza italiana del G20 sta lavorando per preservare e rafforzare un efficace sistema commerciale multilaterale basato su regole all'interno del World Trade Organization. Vogliamo mantenere un ambiente commerciale aperto, equo e trasparente che possa avvantaggiare le aziende, i consumatori, ma anche i lavoratori. Ciò significa promuovere i diritti dei lavoratori, insieme ai sindacati e alle nostre parti sociali".
FAME NEL MONDO - Ancora, "la lotta alla malnutrizione è un altro ambito in cui possiamo lavorare insieme. La crisi economica e il cambiamento climatico stanno rendendo più difficile raggiungere il nostro obiettivo di fame zero entro il 2030. Le aziende possono donare fondi e forniture di emergenza alle comunità bisognose. Puoi fornire l'accesso ai tuoi sistemi di distribuzione per portare aiuti in aree remote. E puoi aiutare a sviluppare nuovi prodotti economici e nutrienti. Dobbiamo mirare a nutrire tutti nel mondo e creare catene alimentari resistenti alle crisi future" ha detto Draghi.
PARI OPPORTUNITA' - "Voglio sottolineare il ruolo del settore privato nella promozione dell'uguaglianza di genere" poiché "le aziende possono aumentare le opportunità di formazione e la creazione di posti di lavoro per le donne a tutti i livelli - ha rimarcato il presidente del Consiglio - Puoi rafforzare l'offerta di assistenza familiare, sostenere le madri che lavorano e rimuovere gli ostacoli che trattengono le donne nella loro carriera. E tu puoi dare l'esempio, offrendo orientamento e supporto tecnico alle start up create da imprenditrici. Questo è ciò che le aziende possono fare. Ma il settore pubblico deve anche agire per creare condizioni favorevoli per sbloccare gli investimenti privati".
"Intanto dobbiamo essere chiari: non esiste uno studio che dimostra la validità di un tampone negativo per 48 ore. Il tampone molecolare fa una fotografia istantanea della situazione, subito dopo, il soggetto che aveva la malattia in incubazione potrebbe diventare positivo.
Il concetto con cui si è introdotta questa regola delle 48 ore è che generalmente chi risulta negativo, ma poi diventa positivo, nelle 48 ore successive al tampone non è così contagioso.
Tuttavia questa informazione deriva da alcuni studi che sono stati fatti sulla prima variante del virus, quella di Wuhan, e sulla variante inglese, invece la variante delta è molto più contagiosa e replica molto più rapidamente del virus originale. Tanto è vero che, se con il virus originale e la variante alfa avevamo un periodo di insorgenza dei sintomi di 4-7 giorni dal contagio, adesso già dopo 48 ore i soggetti sviluppano stati febbrili. Quindi non c'è nessuna certezza che il soggetto negativo nelle 48 ore non possa diffondere la malattia, figuriamoci nelle 72". Così Marco Falcone, professore associato di Malattie infettive all'Università di Pisa (Unipi) e consigliere del direttivo Simit (Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali), intervistato da 'Gli Inascoltabili', programma radiofonico su New sound Level.
"Capisco la logica politica- dice- ma scientificamente questa proposta serve solo ad esporre soggetti non vaccinati e quelli che non rispondono bene al vaccino, al rischio d'infezione. Infatti, in questo modo ci ritroveremo al ristorante, al cinema, al teatro e in tutti i posti dove è obbligatorio avere il Green Pass, con un potenziale rischio d'infettarsi con il Covid. Io personalmente non vedo nessuna razionalità scientifica in questa proposta.
Era il momento di aprire le attività ad un maggior numero di persone- continua- siamo vicini all'80% di vaccinati con due dosi, quindi non c'era più la necessità di avere tutte queste restrizioni, la riapertura era doverosa e forse ci si poteva pensare anche qualche settimana prima. Allo stesso tempo, proprio per favorire queste attività in sicurezza, non bisogna trovare escamotage, come quella dell'estensione della validità a 72 ore, per favorire chi il vaccino non vuole farselo. La scelta dovrebbe essere: vaccinarsi e andare a teatro o al cinema, non vaccinarsi e stare a casa. Se noi vogliamo modificare le regole a nostro uso e consumo, rischiamo solo di far correre un rischio a chi non si è vaccinato e va in giro o a chi non risponde al vaccino".
Vaccino anti-covid Moderna sospeso tra i giovani in Svezia e Danimarca. La Svezia ha deciso di dire stop alla somministrazione per le persone nate nel 1991 e dopo. E questo per il rischio di possibili effetti collaterali rari, come la miocardite.
"L'Agenzia svedese per la sanità pubblica ha deciso di sospendere l'uso del vaccino Spikevax* di Moderna per tutti i nati dal 1991 in poi per motivi precauzionali", si legge in una nota. "Sono in aumento le segnalazioni degli effetti collaterali come miocardite e pericardite. Tuttavia - si precisa - il rischio di essere colpiti da questi effetti collaterali è molto basso". L'agenzia sanitaria ha affermato di aver raccomandato invece la somministrazione del vaccino Comirnaty* di Pfizer/BioNtech. Le persone nate nel 1991 o successivamente che hanno già ricevuto una prima dose di Moderna, circa 81mila persone, riceveranno la seconda dose di un vaccino diverso. All'inizio della settimana l'agenzia sanitaria svedese ha spiegato che le persone di età compresa tra i 12 e i 15 anni riceveranno solo il vaccino Pfizer/BioNtech.
La Danimarca sospenderà invece la somministrazione di Moderna per le persone al di sotto dei 18 anni, dopo i rapporti relativi a possibili rari effetti avversi, come le miocarditi. Lo hanno annunciato le autorità sanitarie del Paese, dopo che analogo annuncio era stato fatto dalla Svezia per le persone nate a partire dal 1991.
"L-arginina riduce i tempi di ospedalizzazione e anche i sintomi nel post Covid". Questo emerge dagli studi condotti da Gaetano Santulli, docente dell'Università Federico II di Napoli (Unina) e presso l'Albert Einstein College of Medicine di New York, da Antonietta Coppola, anch'ella docente all'Unina, e da altri studiosi, tra i quali Giuseppe Fiorentino e Raffaele Izzo, rispettivamente primario di Fisiopatologia e Riabilitazione respiratoria al Cotugno di Napoli e medico statistico sempre alla Federico II.
I ricercatori lo spiegano nel corso dell'incontro 'Sperimentazioni cliniche e terapia Covid: primo studio italiano pubblicato su Lancet dimostra l'efficacia dell'arginina nella terapia nei pazienti Covid', organizzato da Damor Farmaceutici, il ruolo dell'aminoacido (L-arginina) nel trattamento del Covid-19 sui pazienti ospedalizzati. "Il ruolo dell'arginina nella terapia Covid si basa su due punti- afferma Santulli- essa svolge un ruolo fondamentale nella funzione endoteliale e immunitaria. La prima funzione esprime tutti i fattori essenziali per l'interiorizzazione del Sars-CoV-2, perché agisce sul recettore Ace-2. Questo spiega- sottolinea Santulli- gli effetti avversi trombotici legati alla sintomatologia grave del Covid-19, tanto da poter dire, e vari studiosi lo hanno dimostrato, che il Coronavirus è una malattia endoteliale".
"L-arginina è importante su questa disfunzione perché è precursore per la sintesi dell'ossido nitrico, che svolge la funzione di vasodilatatore dell'endotelio, ma agisce anche per disinfiammare e ossigenare. C'è un altro studio, uscito sulla rivista Pnas del maggio 2021, che spiega la funzione della risposta immunitaria dell'arginina nel corso dell'infezione. A questo lavoro hanno contribuito il professor Fiorentino e la professoressa Antonietta Coppola- aggiunge il docente dell'Albert Einstein College of Medicine", afferma Santulli. L-arginina non è un farmaco ma un integratore, che interviene quando l'infezione è già molto più avanti rispetto al farmaco di Merck/MSD, presentato nei giorni scorsi, il Molnupiravir, che blocca la replicazione dell'infezione. "Dai primi risultati ottenuti dalle analisi iniziali dei dati sulla bio-arginina nella terapia Covid che abbiamo condotto- spiega Coppola, che ha portato avanti la somministrazione ai pazienti ricoverati- emergono riscontri interessanti e positivi. L'obiettivo primario della sperimentazione- ricorda la ricercatrice- era valutare la riduzione del supporto respiratorio nei reparti di terapia intensiva, dove peraltro opero. Più è grave l'insufficienza respiratoria e più è grave l'infenzione e la necessità del supporto respiratorio. I pazienti, nello studio, sono stati valutati dopo dieci e dopo venti giorni dalla randomizzazione, ovvero la somministrazione casuale della bio-arginina".
"Lo studio è clinico, randomizzato e a doppio cieco- evidenzia Coppola- 210 sono stati i pazienti ricoverati da novembre 2020 fino a marzo 2021. Di questi solo 101 sono stati arruolati, 53 trattati con placebo e 38 trattati con L-arginina, all'inizio; alcuni di loro però sono peggiorati prima ancora del trattamento e alla fine sono stati 45 quelli del gruppo placebo e altrettanti, 45, quelli trattati con L-arginina per via orale. Dopo dieci giorni dall'inizio del trattamento oltre il 70% dei pazienti trattati hanno ridotto la necessità del supporto respiratorio, migliorando nella loro funzione respiratoria. Questo ha comportato anche una riduzione dei tempi di degenza, perché il paziente viene così dimesso in tempi più brevi: 25 giorni rispetto ai 46 giorni di degenza media del gruppo placebo. Inoltre, non sono stati osservati eventi avversi nei soggetti trattati- sottolinea Coppola- né modifiche sui linfociti e sugli esiti di negativizzazione alla PCR; ovvero non si sono negativizzati prima degli altri pazienti, perché la L-arginina non incide sulla replicazione del virus. Questo significa che ci sono implicazioni cliniche positive: l-arginina è sicura ed efficace e può essere impiegata significativamente verso i pazienti non vaccinati che attualmente popolano le terapie intensive".
In conclusione, gli studiosi sostengono che l'arginina agisca sia sulla risposta immunitaria che infiammatoria, ma vi sono stati anche effetti positivi sul post-Covid. "Somministriamo un questionario ai pazienti nel post-Covid, dal quale raccogliere informazioni utili dopo la degenza- spiega Coppola- ebbene, abbiamo notato che l'astenia era marcatamente ridotta nei pazienti che avevano assunto L-arginina e non ci sono differenze di età nella risposta positiva al trattamento", conclude la docente dell'università di Napoli.
AstraZeneca ha presentato all'Agenzia americana del farmaco Fda la richiesta di autorizzazione all'uso di emergenza (Eua) per AZD7442, una combinazione di anticorpi monoclonali a lunga durata d'azione (Laab), per la profilassi di Covid-19 in forma sintomatica. "Se il via libera venisse concesso - sottolinea il gruppo farmaceutico anglo-svedese - AZD7442 sarebbe il primo Laab a ricevere un'Eua per la prevenzione di Covid-19".
Il trattamento, a base di tixagevimab (AZD8895) e cilgavimab (AZD1061), "è il primo Laab con dati di fase 3 che dimostrano, rispetto a placebo, una riduzione statisticamente significativa del rischio di sviluppare la malattia Covid-19 sintomatica", riporta AZ.
I risultati dello studio 'Provent', ricorda la compagnia, indicano "una riduzione del 77% del rischio di sviluppare Covid-19 sintomatica" fra le persone trattate con il mix di monoclonali, rispetto a placebo. Secondo AZ, potenzialmente questa terapia potrebbe anche "offrire protezione a chi rischia di non sviluppare una risposta immunitaria adeguata dopo la vaccinazione" anti-Covid.
"Le popolazioni vulnerabili come gli immunocompromessi spesso non sono in grado di attivare una risposta protettiva dopo la vaccinazione e continuano a essere a rischio di sviluppare Covid-19 - afferma Mene Pangalos, Executive Vice President, BioPharmaceuticals R&D, AstraZeneca - Con questo primo inoltro" di dossier a scopo "regolatorio a livello globale, siamo un passo più vicini a fornire un'opzione aggiuntiva, insieme ai vaccini, per aiutare a proteggere contro Covid-19".
I dati dello studio Provent sulla combinazione di monoclonali nella profilassi di Covid-19 pre-esposizione erano stati annunciati da AstraZeneca in agosto. "E' importante sottolineare - evidenzia l'azienda - che la popolazione" coinvolta del trial "includeva persone con comorbilità e che potrebbero avere bisogno di una protezione aggiuntiva dall'infezione da Sars-CoV-2. Più del 75% dei partecipanti a Provent presentava" infatti "comorbilità associate a un aumentato rischio di malattia grave o a una ridotta risposta immunitaria alla vaccinazione". Nell'analisi primaria dello studio sono stati rilevati 25 casi sintomatici di Covid, con una riduzione del 77% (95% intervallo di confidenza: 46-90) del rischio di svilupparlo per AZD7442 rispetto a placebo. Il trattamento è stato inoltre "ben tollerato".
Il mix di anticorpi - si legge in una nota - è stato ottimizzato utilizzando una tecnologia AZ di estensione dell'emivita, che ha triplicato la durata d'azione della combinazione rispetto ai monoclonali convenzionali. La richiesta di Eua sottoposta alla Fda comprende i risultati di sicurezza ed efficacia degli studi di fase 3 Provent, e di fase 1 'Storm' e 'Chaser'. Prevenzione, ma non solo: dati preliminari in vitro dimostrano anche che AZD7442 ha "un'ampia attività anti-Covid, e in particolare neutralizza le recenti varianti virali emergenti di Sars-CoV-2, comprese Delta e Mu", rimarca AstraZeneca che preannuncia su questo fronte nuovi risultati "entro la fine dell'anno". Le discussioni sugli accordi di fornitura per AZD7442, conclude il gruppo, sono in corso con il governo degli Stati Uniti e con altri governi in tutto il mondo.
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Un team dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibiom) di Bari, dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, dell’Università Statale di Milano, dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Puglia e Basilicata e del Laboratorio Covid dell’Ospedale “Di Venere” di Bari, con il supporto della piattaforma genomica e bioinformatica messa a disposizione dal nodo italiano dell’Infrastruttura di ricerca europea Elixir per le scienze della vita, ha effettuato uno studio su 166 soggetti affetti da Covid-19 con differente grado di carica virale nel quale è stata messa a punto una metodologia per determinare il numero assoluto di molecole di RNA virale contenute nei tamponi molecolari utilizzati per individuare la positività al virus.
La ricerca pubblicata su Communications Biology permette di individuare il grado di infettività di persona affetta da Covid-19.
A seguito dell’infezione da SARS-Cov-2, il virus produce due tipi di molecole di RNA: 1) un filamento di RNA di circa 30,000 nucleotidi corrispondente al genoma completo del virus; 2) una serie di molecole di RNA discontinue dette anche trascritti-sub-genomici che codificano per le proteine necessarie ad assemblare nuovi virioni e sono necessari per la replicazione del virus. Queste molecole costituiscono dunque un indice dell’attività di replicazione virale e, indirettamente, del grado di infettività di un soggetto affetto da COVID-19.
“La nuova metodologia sviluppata, basata sull’utilizzo della tecnica della “droplet digital PCR” (ddPCR) consente di conteggiare separatamente il numero di molecole di RNA genomiche e subgenomiche. I test molecolari standard attualmente utilizzati, basati invece sulla tecnica della “real time PCR” non sono in grado di discriminare tra i due tipi di RNA virali”, spiega Graziano Pesole del Cnr-Ibiom.
Dal momento che le molecole subgenomiche sono marcatori di un processo infettivo in corso, nel quale si ha proliferazione di nuove particelle virali, approcci basati su questo principio potranno essere applicati in futuro per determinare il grado di infettività di una persona, anche nel corso del tempo. “Lo studio ha mostrato che la percentuale di RNA subgenomici è correlata alla carica virale ed è anche analogamente determinabile da analisi mediante sequenziamento massivo del trascrittoma. I risultati presentati contribuiscono a comprendere meglio la dinamica dell’espressione di SARS-Cov-2 in diverse condizioni e a mettere a punto strategie diagnostiche innovative per fronteggiare la pandemia da SARS-Cov-2”, conclude Pesole.
Dopo 7 mesi dalla seconda dose di vaccino anti-covid, i primi operatori sanitari vaccinati a Sassari sono ancora protetti.
Lo certifica uno studio realizzato dalla struttura di Sorveglianza sanitaria dell’Azienda ospedaliera sassarese, che ha effettuato un’analisi sull'efficacia del vaccino contro il Covid-19 su oltre 4mila persone, tra operatori sanitari, personale amministrativo e operatori delle ditte esterne che lavorano negli ospedali. I dati, spiega una nota, dimostrano che, a distanza di 7 mesi dalla somministrazione, il vaccino mantiene la sua efficacia protettiva. Alcuni operatori vaccinati hanno contratto una infezione da Sars Cov-2 solo lo 0,48% in forma asintomatica o paucisintomatica, nessuno è stato ricoverato e sempre nessuno è deceduto. Dallo studio emerge che il livello di protezione è significativamente superiore a quello rilevato dall'Istituto Superiore di Sanità nella popolazione italiana per classi di età comparabili alla popolazione in studio.
"E chiaro che ci sono anche altre condizioni - afferma Antonello Serra, responsabile della struttura Sorveglianza sanitaria e coordinatore del centro vaccini Covid-19 assieme a Paolo Castiglia - e tra queste deve essere tenuta in debito conto la maggiore attitudine degli operatori sanitari ad adottare dispositivi e comportamenti di protezione dal rischio infettivo. A questa va aggiunto anche il fatto che una popolazione di lavoratori in attività è, mediamente, in condizioni di salute migliori rispetto alla popolazione generale".
"E rilevante - prosegue - che questo elevato livello di protezione del vaccino permanga, nonostante il livello di anticorpi neutralizzanti si sia ridotto del 79,2% rispetto al livello misurato subito dopo il completamento del ciclo vaccinale. L'ipotesi è che - aggiunge - il complesso della risposta immunitaria, che comprende diverse linee di attività tra le quali l'immunità cellulare che può essere misurata solo con test di maggiore complessità, risulti ancora efficace a distanza di 7 mesi, anche rispetto alla protezione di una variante del virus, la Delta, significativamente più infettiva del ceppo originario".
L'amministratore delegato della biotecnologia dietro il primo vaccino Covid-19 ha detto che una nuova formulazione sarà probabilmente necessaria entro la metà del prossimo anno per proteggere contro il virus che sta mutando.
Ugur Sahin, amministratore delegato di BioNTech, ha detto al Financial Times che col passare del tempo, emergeranno mutazioni che possono eludere le difese immunitarie del corpo. Un vaccino diverso "quest'anno non è assolutamente necessario. Ma a metà del prossimo anno, potrebbe essere una situazione diversa".
La previsione di Sahin è che le varianti di Covid-19 attualmente in circolazione, in particolare il ceppo Delta, siano più contagiose ma non abbastanza diverse da minare l'efficacia dei vaccini attuali. "I richiami sembrano in grado di affrontare le varianti principali- afferma Sahin- Ma il virus alla fine svilupperà mutazioni che possono sfuggire alla risposta immunitaria data dal vaccino, rendendo necessaria una versione "su misura" per colpire specificamente il nuovo ceppo”.
"Questo virus rimarrà, e il virus si adatterà ulteriormente. Non abbiamo motivo di supporre che la prossima generazione di virus sarà più facile da gestire per il sistema immunitario rispetto alla generazione esistente. Si tratta di un'evoluzione continua, e questa evoluzione è appena iniziata".
Entro il prossimo anno, poi ci saranno due programmi principali per la vaccinazione: i richiami per coloro che sono già stati vaccinati, e una spinta continua per vaccinare chi ha avuto finora meno possibilità.
Secondo un nuovo studio condotto dai ricercatori della Weill Cornell Medicine e del NewYork-Presbyterian, il COVID-19 può portare ad alti rischi di malattia grave e morte in molti pazienti interrompendo i segnali metabolici chiave e innescando così l'iperglicemia.
Nello studio, riportato su Cell Metabolism, i ricercatori hanno scoperto che l'iperglicemia è comune nei pazienti ospedalizzati con COVID-19 ed è fortemente associata a esiti peggiori. I ricercatori hanno anche trovato prove che suggeriscono che SARS-CoV-2 può indurre l'iperglicemia, interrompendo la produzione di adiponectina da parte delle cellule adipose, un ormone che aiuta a regolare i livelli di zucchero nel sangue.
"Normalmente non pensiamo che le cellule adipose siano molto attive ma in realtà sintetizzano molte proteine ????protettive per il corpo e sembra che SARS-CoV-2 possa disabilitare tale protezione in molti pazienti", affermato il dott. James Lo, professore associato di medicina presso il Weill Center for Metabolic Health e il Cardiovascular Research Institute presso Weill Cornell Medicine e cardiologo presso il NewYork-Presbyterian/Weill Cornell Medical Center.
L'iperglicemia, la caratteristica principale del diabete, è associata all'infiammazione e all'indebolimento dell'immunità contro le infezioni ed è stata riconosciuta come un fattore di rischio significativo per il COVID-19 grave all'inizio della pandemia. Tuttavia, in seguito i medici hanno iniziato a trovare prove che il COVID-19 fosse associato all'iperglicemia in pazienti che non avevano una storia di diabete.
Per comprendere meglio questo aspetto importante ma misterioso di COVID-19, il Dr. Lo e colleghi hanno analizzato i dati di 3.854 pazienti ricoverati con COVID-19 al NewYork-Presbyterian / Weill Cornell Medical Center, NewYork-Presbyterian Queens e NewYork-Presbyterian Lower Ospedale di Manhattan. nei primi mesi della pandemia negli Stati Uniti.
Hanno scoperto che una percentuale notevolmente elevata (49,7 %) di questi presentava iperglicemiao la sviluppava durante le degenze ospedaliere.
Anche l'iperglicemia in questi pazienti COVID-19 è stata sorprendentemente associata a esiti peggiori. Rispetto ai pazienti con normali livelli di zucchero nel sangue, quelli con iperglicemia avevano 9 volte più probabilità di sviluppare una grave disfunzione polmonare (sindrome da distress respiratorio acuto o ARDS), 15 volte più probabilità di ricevere ventilazione meccanica e 3 volte più probabilità di morire .
Sorprendentemente, i ricercatori hanno scoperto che l'iperglicemia e i gravi rischi che comporta si verificano anche in altre forme non COVID-19 di grave disfunzione polmonare. Lo hanno trovato nella stessa proporzione nei casi di ARDS associati a COVID-19 e nei casi di ARDS da cause non COVID-19 come una grave influenza o una polmonite batterica. Tuttavia, l'iperglicemia in questi ultimi casi sembrava essere causata principalmente dalla morte o dalla disfunzione delle cellule beta che producono insulina, il principale ormone che regola i livelli di zucchero nel sangue. "Al contrario, l'iperglicemia nei pazienti COVID-19 è principalmente causata dall'insulino-resistenza, in cui l'insulina è presente ma i tessuti su cui agisce normalmente non sono più sensibili ad essa", spiega il dr. Moritz Reiterer, post doc e e primo autore dello studio.
Ulteriori test hanno rivelato che i pazienti affetti da COVID-19 ARDS avevano gravi diminuzioni dei livelli ematici di adiponectina, un ormone prodotto dalle cellule adipose, che normalmente ha un effetto protettivo contro il diabete aumentando la sensibilità all'insulina.
Non è ancora chiaro come SARS-CoV-2 interrompa la produzione di adiponectina da parte delle cellule adipose. Può farlo indirettamente, aumentando il livello generale di infiammazione, che a sua volta distrugge le cellule adipose. Ma i ricercatori hanno dimostrato che SARS-CoV-2 può infettare le cellule adipose umane e di topo, suggerendo la possibilità che il virus interrompa la produzione di adiponectina in questo modo diretto nei pazienti COVID-19.
I risultati aprono una nuova prospettiva sul COVID-19, offrendo, tra le altre cose, una nuova spiegazione del perché alcune persone hanno esiti peggiori.
"I pazienti con obesità, ad esempio, potrebbero essere più vulnerabili al COVID-19 perché potrebbero già avere un certo grado di insulino-resistenza e disfunzione delle cellule adipose, e forse le loro cellule adipose sono più suscettibili alle infezioni", sottolinea il dott. Lo.
I risultati suggeriscono anche che una classe di farmaci per il diabete chiamati tiazolidinedioni, che aumentano la produzione di adiponectina, può essere utile nel trattamento del COVID-19 quando include l'iperglicemia. Sono necessarie ulteriori ricerche prima che questo diventi clinicamente attuabile.
Il Dr. Lo sta ora studiando se l'iperglicemia indotta da COVID-19 persiste e si trasforma in diabete anche dopo il recupero da COVID-19.
Antonio Caperna
Con l'avvicinarsi della campagna di vaccinazione anti-influenzale, è possibile che alcune categorie di soggetti per le quali la vaccinazione antinfluenzale stagionale è raccomandata e offerta attivamente e gratuitamente siano allo stesso tempo eleggibili per la vaccinazione antiSARS-CoV-2/COVID-19 (es. gruppi target della dose addizionale o booster, persone over 60 non ancora vaccinate, etc…).
Sebbene nelle schede tecniche dei vaccini anti-SARS-CoV-2/COVID-19 autorizzati da EMA non siano presenti, ad oggi, indicazioni relative alla loro somministrazione concomitante con altri vaccini, tenuto conto delle attuali indicazioni espresse dalle principali autorità di Sanità Pubblica internazionali e relativi Comitati Consultivi e dei dati preliminari relativi alla co-somministrazione di vaccini anti-SARS-CoV-2/COVID-19 con vaccini antinfluenzali, sarà possibile programmare la somministrazione dei due vaccini, nel rispetto delle norme di buona pratica vaccinale, nella medesima seduta vaccinale, fermo restando che una eventuale mancanza di disponibilità di uno dei due vaccini non venga utilizzata come motivo per procrastinare la somministrazione dell’altro.
Sarà possibile altresì effettuare la somministrazione concomitante (o a qualsiasi distanza di tempo, prima o dopo), di un vaccino anti-SARS-CoV-2/COVID-19 utilizzato in Italia e un altro vaccino del Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale, con l’eccezione dei vaccini vivi attenuati, per i quali può essere considerata valida una distanza minima precauzionale di 14 giorni prima o dopo la somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2. In allegato la circolare.
I collegamenti tra obesità e mortalità sono diventati sempre più evidenti, sin dalla prima pandemia del 21° secolo, portando i ricercatori dell'Università del Texas a San Antonio e dell'Università del Wisconsin-Milwaukee a indagare su legame tra eccesso di peso corporeo e alti tassi di mortalità per COVID-19 in tutto il mondo.
Il principale investigatore Hamid Beladi, economista dell'Università Stata dello Utah -UTSA e i suoi colleghi hanno recentemente pubblicato un nuovo studio in Public Health in Practice, che analizza le associazioni plausibili di mortalità da COVID-19 e sovrappeso in quasi 5,5 miliardi di adulti provenienti da 154 paesi in tutto il mondo. mondo.
Per identificare potenziali modelli nei dati, i ricercatori hanno impiegato tecniche all'avanguardia di analisi statistiche.
"Il risultato principale è un'associazione statisticamente significativa tra la mortalità da COVID-19 e la percentuale di sovrappeso nelle popolazioni adulte in 154 paesi- affermato Beladi- Questa associazione vale tra paesi appartenenti a diversi gruppi di reddito e non è sensibile all'età media di una popolazione, alla percentuale di anziani e/o alla percentuale di donne".
Beladi ha aggiunto che quando la proporzione delle persone in sovrappeso nella popolazione adulta di un paese è di un punto percentuale superiore alla proporzione del sovrappeso nella popolazione adulta di un secondo paese, sulla base di questo studio, è ragionevole prevedere che la mortalità per COVID-19 possa essere 3,5 punti percentuali in più nel primo paese rispetto al secondo.
“L'individuo medio ha meno probabilità di morire di COVID-19 in un paese con una proporzione relativamente bassa di sovrappeso nella popolazione adulta, a parità di altre condizioni, rispetto a quello che sarebbe in un paese con una proporzione relativamente alta di il sovrappeso nella popolazione adulta”, prosegue Beladi.
Gli autori dello studio affermano che, clinicamente, l'eccesso di peso corporeo è correlato a diverse comorbilità che possono portare a un decorso sempre più grave e alla conseguente morte per COVID-19. I disturbi metabolici, ad esempio, possono predisporre gli individui a un esito peggiore del COVID-19. Poiché l'eccesso di peso corporeo può comportare un volume maggiore e una maggiore durata del contagio, può anche portare a un livello più elevato di esposizione a COVID-19.
Hanno aggiunto che, in media, la pandemia di COVID-19 è stata più fatale per le popolazioni adulte residenti in parti del mondo caratterizzate da un eccesso di peso corporeo.
I ricercatori ritengono che i loro risultati possano essere utilizzati per sostenere le normative di politica pubblica sull'industria alimentare, nella misura in cui trae profitto dalle vendite di alimenti trasformati, cibi ricchi di sale, zucchero e grassi saturi.
"Con il bilancio delle vittime dell'attuale pandemia che supera i 4,5 milioni, i principali risultati del gruppo richiedono regolamenti immediati ed efficaci che sono attesi da tempo- conclude Beladi- Alcune aziende del settore alimentare si sono prese la libertà di utilizzare la pandemia come piattaforma di marketing in modi che sono tutt'altro che favorevoli al contenimento del peso corporeo. La nostra associazione osservata, tra la mortalità da COVID-19 e la quota di sovrappeso in quasi 5,5 miliardi di adulti residenti in 154 paesi che ospitano quasi 7,5 miliardi di persone in tutto il mondo, serve come monito contro questo rischio".
Public Health in Practice: "COVID-19 mortality and the overweight: Cross-Country Evidence". DOI: 10.1016/j.puhip.2021.100179
Antonio Caperna
Swissmedic ha omologato in primavera il vaccino anti-COVID-19 «COVID-19 Vaccine Janssen» sviluppato dal colosso farmaceutico Johnson & Johnson. Secondo i piani dell’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP), il vaccino sarà disponibile a partire dalla metà della prossima settimana.
Il 22 marzo 2021, Swissmedic ha omologato il vaccino del gruppo farmaceutico Johnson & Johnson. L’acquisto e la distribuzione dei vaccini ai cantoni è responsabilità dell’UFSP, che ha recentemente acquistato il vaccino da Johnson & Johnson. Secondo i piani dell’UFSP, il vaccino potrà essere iniettato dalla metà della prossima settimana. Con questo vaccino vettoriale, la popolazione svizzera avrà un’alternativa ai vaccini a mRNA di Pfizer/BioNTech e Moderna. Il vaccino viene somministrato una volta ed è omologato per le persone a partire dai 18 anni di età. Il vettore è un virus che contiene la struttura delle proteine spike del coronavirus, sulle cui basi viene attivata la risposta immunitaria desiderata nelle cellule immunitarie umane.
La differenza tra il vaccino vettoriale e il vaccino a mRNA risiede principalmente nel modo in cui le informazioni per la produzione della proteina spike entrano nelle cellule dell’organismo – mediante nanoparticelle o mediante virus. Tutti i tipi di vaccino hanno dimostrato un’elevata efficacia e un rapporto rischi-benefici positivo durante l’esame di omologazione di Swissmedic. I medicamenti e i vaccini possono causare effetti collaterali indesiderati dopo la somministrazione. Swissmedic documenta le notifiche di tali effetti e pubblica regolarmente informazioni a riguardo.
Il sistema di notifica e valutazione consente di acquisire nuove conoscenze che non erano ancora note al momento della domanda di omologazione. Le reazioni avverse ai medicamenti possono essere notificate sulla homepage di Swissmedic alla voce «Segnalazioni». Secondo la legge sugli agenti terapeutici, gli operatori sanitari devono notificare entro 15 giorni a Swissmedic reazioni avverse gravi sinora non note nonché altre reazioni avverse considerate importanti dal punto di vista medico. Le/i pazienti hanno il diritto di notificare gli effetti indesiderati. Ogni notifica aiuta Swissmedic ad analizzare i medicamenti nella loro applicazione su larga scala, a conoscerli meglio e, se necessario, ad adottare misure a beneficio della popolazione svizzera.
Alla pandemia da coronavirus rischia di seguire un’epidemia di malattie causate da stili di vita scorretti, dai tumori alle patologie reumatologiche fino a quelle cardiovascolari come infarto e ictus. Le conseguenze dei lunghi mesi di lockdown sono chiare.
Nel 2021, si conta oltre un milione di fumatori in più rispetto al passato (hanno raggiunto gli 11,3 milioni, pari al 26,2% della popolazione rispetto al 23,3% di gennaio 2020). Il 44% dei cittadini è aumentato di peso fra smart working e riduzione dell’attività fisica a seguito della chiusura di palestre e piscine (l’incremento è stato in media di ben 4 Kg). Inoltre, nel 2020 si sono registrati aumenti del 23,6% fra i maschi e del 9,7% delle femmine del consumo eccessivo di alcol in grado di mettere a rischio la salute. Dati allarmanti, che devono portare la prevenzione in cima alla lista delle priorità. Per questo le società scientifiche riunite nel “Forum Permanente sul Sistema Sanitario Nazionale nel post Covid” lanciano, insieme al mondo dello sport rappresentato dal CONI, un vero e proprio “Piano Marshall” per promuovere gli stili di vita sani, un progetto a 360 gradi rivolto a tutti i cittadini. Il progetto è presentato oggi in una conferenza stampa nella Sala Giunta del CONI.
“Il ‘Forum’ è composto da 19 società scientifiche delle principali aree terapeutiche (oncologia, cardiologia, ematologia, reumatologia, neurologia, ginecologia, urologia, chirurgia) che, per la prima volta, si sono riunite per affrontare il post Covid – spiega Francesco Cognetti, Coordinatore del ‘Forum’ e Presidente Fondazione Insieme contro il Cancro -. Abbiamo realizzato un corposo documento, inviato al Presidente del Consiglio e al Ministro della Salute avanzando proposte concrete per ridisegnare il Sistema Sanitario Nazionale e risolvere i grandi temi emersi con il coronavirus a partire dalla carenza strutturale di medici, dalla modernizzazione degli ospedali e dalla riorganizzazione della medicina del territorio. Nel 2020 sono stati oltre 1,3 milioni i ricoveri in meno rispetto al 2019, quelli di chirurgia oncologica sono diminuiti dell’80% nell’attività programmata e, per l’area cardiovascolare, il calo è stato di circa il 20%. Allo stesso tempo, ci stiamo rendendo conto che la pandemia, oltre ai 130.000 decessi, rischia di provocare un’altra epidemia legata agli scorretti stili di vita che i cittadini hanno adottato in un anno e mezzo di lockdown”.
“Lanciamo un ‘Piano Marshall’ articolato dedicato alla prevenzione – continua il Prof. Cognetti -. Partiamo con una campagna social molto ampia, per poi andare negli stadi e nei palazzetti dello sport prima delle partite, per distribuire opuscoli e materiale realizzato ad hoc. Un modo per incontrare e informare i cittadini. Diffonderemo manifesti negli ospedali per sensibilizzare pazienti e familiari. Organizzeremo anche appuntamenti nelle piazze dove incontreremo cittadini di tutte le età”.
Il cancro è la più curabile e prevenibile delle patologie croniche: il 40% dei tumori, pari a oltre 150mila casi ogni anno in Italia, è evitabile grazie a stili di vita sani. Fattori di rischio comportamentali e, quindi, modificabili sono responsabili ogni anno di circa 65.000 decessi oncologici. Il fumo è il fattore di rischio con maggiore impatto, a cui sono riconducibili almeno 43.000 decessi annui per cancro. E i tabagisti hanno da due a quattro volte più probabilità di sviluppare una malattia cardiovascolare rispetto ai non fumatori. Tra tutti i decessi causati dalle malattie cardiovascolari, circa uno su cinque è connesso al fumo. E ben il 20% dei tumori è causato dalla sedentarietà.
“Lo sport si schiera a fianco della scienza per sensibilizzare tutti i cittadini – afferma Giovanni Malagò, Presidente CONI -. L’OMS raccomanda di praticare almeno centocinquanta minuti, cioè due ore e mezza di attività fisica moderata ogni settimana, come camminare o andare in bicicletta. L’American Cancer Society ha aggiornato le linee guida per la prevenzione oncologica, raddoppiando il tempo da dedicare al movimento. Il documento esorta gli adulti a praticare tra i 150 e i 300 minuti di attività fisica di moderata intensità o tra i 75 e i 150 minuti di attività fisica intensa a settimana. Purtroppo in Italia, i dati pre pandemia, aggiornati al 2019, mettevano già in luce la scarsa attitudine di buona parte dei cittadini nei confronti del movimento: il 35% della popolazione non pratica alcuna attività sportiva, ma queste percentuali sono peggiorate a seguito delle restrizioni imposte dalla pandemia. Ora dobbiamo impegnarci per far tornare tutti a praticare sport con continuità”.
“Uno studio internazionale che ha coinvolto circa un milione e mezzo di persone e 26 tipologie di carcinoma ha evidenziato come l’attività fisica riduca di più del 20% l’incidenza di sette tipi di neoplasie: il cancro dell’esofago, endometrio, rene, polmone, fegato, gastrico e la leucemia mieloide – sottolinea Giovanni Scambia, Direttore scientifico Fondazione Policlinico Universitario Gemelli di Roma e Past President Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia -. Una riduzione di incidenza tra il 10% ed il 20% riguarda il rischio per altre sei tipologie, tra cui i tumori della mammella, della testa e del collo, del retto, della vescica e il mieloma. La prevenzione è un percorso che deve accompagnarci in tutte le età e deve essere sempre più personalizzata in base alle caratteristiche individuali. In particolare nelle donne, a ogni fase della vita corrispondono programmi specifici, dalla vaccinazione anti HPV nell’adolescenza, all’adesione in età adulta ai programmi di screening mammografico e al Pap test per la prevenzione del tumore del collo dell’utero e, nelle persone che presentano familiarità per neoplasie della mammella o dell’ovaio, i controlli ginecologici, ecografici e mammografici devono iniziare dai 30 anni. Gli stili di vita sani, in particolare attività fisica e controllo del peso, vanno mantenuti per tutta la vita, anche in post menopausa, e svolgono un ruolo importante nella riduzione del rischio di recidiva nelle persone che hanno ricevuto la diagnosi di tumore”.
“Purtroppo, durante il primo lockdown, gli screening oncologici hanno subito numerose cancellazioni e ritardi e non sono al momento disponibili dati relativi all’entità del loro recupero – afferma Riccardo Masetti, Presidente Susan G. Komen Italia -. Nel 2020 sono stati eseguiti oltre due milioni e mezzo (precisamente 2.532.035) di esami di screening in meno rispetto al 2019. Ritardi che si stanno accumulando e che si traducono in una netta riduzione non solo delle nuove diagnosi di tumore della mammella (3.324 in meno) e del colon-retto (1.300 in meno), ma anche delle lesioni che possono essere una spia di quest’ultima neoplasia (7.400 adenomi avanzati del colon-retto non individuati) o del cancro della cervice uterina (2.782 lesioni CIN 2 o più gravi non diagnosticate). Dal punto di vista clinico già da mesi osserviamo con frequenza neoplasie della mammella più avanzate alla prima diagnosi rispetto al passato ed è prevedibile un aumento della mortalità per cancro nel prossimo futuro nel nostro Paese. È importante sensibilizzare i cittadini anche sul ruolo della prevenzione secondaria, che permette di individuare neoplasie in fase precoce quando le possibilità di guarigione sono elevate”.
Il “Piano Marshall” per la prevenzione ha un focus mirato in particolare ai giovani. La pandemia ha infatti determinato un incremento dei tabagisti under 18. Uno su 3 fra i 14 e i 17 anni ha già avuto contatto con il fumo di sigaretta e il 42% con la sigaretta elettronica. Non solo. L’isolamento causato dalla pandemia ha favorito un consumo incontrollato di alcol. A preoccupare in particolar modo è l’aumento registrato nel 2020 delle giovani consumatrici a rischio (30,5%), le 14-17enni, che superano per la prima volta i loro coetanei (28,4%). Altra variabile collegata al rischio è il bere per ubriacarsi, il binge drinking, l’abbuffata alcolica di 6 o più bicchieri di bevande alcoliche in un’unica occasione, che coinvolge 830.000 11-25enni (21,8% del totale dei binge drinker in Italia) che giungono fino all’intossicazione. “Il mondo dello sport – spiega Michele Uva, Direttore Football & Social Responsability della UEFA – deve occuparsi di un tema fondamentale come l’Health & Well-being oggi e soprattutto pensando alle nuove generazioni. I temi della nutrizione, dell’attività fisica, del benessere mentale e dell’evitare l’uso di sostanze dannose alla salute sono urgenze sociali da affrontare. La UEFA lo sta facendo utilizzando un nuovo percorso con gli allenatori delle nazionali femminili e maschili delle 55 federazioni europee come testimonial. Il programma ‘Coaches for Health’ parte con la campagna #FeelWell, Play Well creata grazie al contributo scientifico della Fondazione Insieme contro il Cancro. Nei prossimi tre mesi useranno le loro voci influenti per ingaggiare i giovani e la società civile in generale sull’importanza di adottare scelte comportamentali sane che aiutino il pilastro della prevenzione. Durante la fase pilota gli allenatori di cinque Federazioni – Israele, Italia, Paesi Bassi, Irlanda del Nord e Slovenia – hanno registrato messaggi educativi attraverso video di 10-30 secondi che saranno trasmessi su tutti i canali di comunicazione: social media, newsletter, siti web ufficiali. I miei complimenti alla Fondazione Insieme contro il Cancro che ha aperto la strada nel passato con il progetto ‘Allenatore Alleato di Salute’, che aveva come testimonial Massimiliano Allegri”.
“Ho sempre creduto nel progetto ‘Allenatore Alleato di Salute’ – sottolinea Max Allegri – perché tutti noi mister, professionisti e dilettanti, abbiamo il dovere di indirizzare i giovani sul rispetto del proprio fisico per diventare adulti sani. Il Covid ci impone ancora una maggiore attenzione verso questi aspetti. È importante insegnare i corretti schemi di gioco ma è fondamentale spiegare ai ragazzi che è necessario non fumare, non consumare alcol e seguire la dieta mediterranea. Continuo con orgoglio a portare avanti questo progetto”.
“Sono anch’io orgoglioso di partecipare attivamente a questa campagna – aggiunge Roberto Mancini, Ct della Nazionale -. Il mondo dello sport deve fare la sua parte. Dobbiamo prendere coscienza del ruolo che ci viene attribuito dai giovani e dare il buon esempio. Bisogna essere campioni anche nella vita, prendendoci cura della nostra salute”.
Merck & Co. (NYSE: MRK) – conosciuta come MSD al di fuori degli Stati Uniti e del Canada – e Ridgeback Biotherapeutics hanno annunciato oggi che molnupiravir (MK-4482, EIDD-2801), un antivirale orale in fase di sperimentazione clinica, ha ridotto significativamente il rischio di ospedalizzazione o di morte in base ai risultati dell’interim analysis della fase III del trial MOVe-OUT condotto su pazienti adulti non ospedalizzati a rischio con COVID-19 in forma lieve o moderata.
In base ai dati della interim analysis, molnupiravir ha ridotto il rischio di ospedalizzazione o di morte di circa il 50%; il 7,3% dei pazienti che hanno ricevuto molnupiravir sono stati ospedalizzati o sono deceduti entro il 29° giorno dal momento della randomizzazione (28/385), a fronte di un 14,1% per i pazienti trattati con placebo (53/377); p=0.0012.
Sino al 29° giorno di somministrazione, nessun decesso è stato riportato nei pazienti che hanno ricevuto la somministrazione di molnupiravir, a fronte di 8 pazienti deceduti trattati con placebo.
Sulla base della raccomandazione di un Comitato indipendente di monitoraggio dei dati e in consultazione con la Food and Drug Administration (FDA) statunitense, il reclutamento dei pazienti nello studio è stato interrotto anticipatamente in base a questi risultati positivi.
Sulla base di questi dati, MSD intende richiedere quanto prima un’autorizzazione all’uso per emergenza (Emergency Use Authorization - EUA) alla FDA statunitense; allo stesso tempo, intende richiedere un’autorizzazione all’immissione in commercio ad altre agenzie regolatorie a livello mondiale.
“La pandemia da COVID-19 richiede urgentemente nuovi opzioni terapeutiche e trattamenti – ha dichiarato Robert M. Davis, Chief Executive Officer e Presidente di MSD – Il COVID-19 è ormai una delle principali cause di morte e continua ad avere un impatto significativo sui pazienti, le loro famiglie, la società in generale nonché i sistemi sanitari in tutto il mondo. Sulla base di questi risultati fortemente promettenti, siamo fiduciosi che molnupiravir possa rappresentare un’importante opzione terapeutica e una componente essenziale dello sforzo globale per combattere la pandemia. Al tempo stesso – prosegue Robert M. Davis – molnupiravir rappresenterà un nuovo, importante tassello della tradizione MSD di mettere a disposizione dei pazienti opzioni terapeutiche innovative nelle malattie infettive, proprio dove è maggiore il bisogno. Coerentemente con l’impegno indefesso di MSD di salvare e migliorare la qualità di vita dei pazienti, continueremo a lavorare con le agenzie regolatorie di tutto il mondo affinché molnupiravir possa essere a disposizione dei pazienti nel più breve tempo possibile.”
“Da parte di tutti noi di MSD – ha concluso Robert M. Davis – desidero esprimere i miei più sentiti ringraziamenti a tutti i ricercatori MSD e ai pazienti per il loro essenziale contributo allo sviluppo di molnupiravir”.
“Con un virus che continua a circolare in modo diffuso – ha dichiarato Wendy Holman, Chief Executive Officer di Ridgeback Biotherapeutics – le opzioni terapeutiche attualmente disponibili sono esclusivamente di tipo infusionale e richiedono l’accesso alle strutture ospedaliere. Ciò fa sì che terapie antivirali che possano essere assunte a domicilio senza una ospedalizzazione del paziente rappresentano oggi un’opzione terapeutica fondamentale. I risultati dell’interim analysis sono fortemente incoraggianti e siamo fiduciosi che molnupiravir, se autorizzato per l’uso, possa avere un impatto importante nel tenere la pandemia sotto controllo. La nostra partnership con MSD è fondamentale per assicurare un tempestivo accesso su scala globale qualora questo farmaco venisse approvato. Siamo davvero orgogliosi di questo sforzo comune che ha consentito di raggiungere questi importanti risultati nella fase di sviluppo del farmaco”.
Dopo anziani, Rsa, sanitari e fragili la terza dose di vaccino contro il Covid verrà estesa ad altre fasce di popolazione. Lo ha affermato il ministro della Salute, Roberto Speranza, nel suo intervento al Festival della città 2021 promosso dalla Lega delle autonomie locali, rispondendo alla domanda su un possibile allargamento del richiamo.
Ma secondo il professor Franco Locatelli, coordinatore del Comitato tecnico scientifico, per "i soggetti sani e giovani è tutto fuorché scontato che si debba andare verso una terza dose". Intanto a più del 6% è già stata somministrata una terza inoculazione di richiamo. E nel mese di settembre la ‘quarta ondata’ dell’epidemia ha rallentato, con gli ultimi dati che indicano meno di 40 contagi alla settimana per 100 mila abitanti.
Speranza: "Ci guiderà la nostra la comunità scientifica"
Sull'estensione della terza dose a tutti "ci affideremo come sempre alla nostre autorità scientifiche, io penso che verrà un po' alla volta allargata in altri ambiti ma ci guiderà la nostra la comunità scientifica come sempre abbiamo fatto. C'è anche una interlocuzione costante con altre autorità scientifiche nel mondo. Valuteremo se sarà indispensabile un allargamento, ma voglio dire che non ci sono problemi di approvvigionamento delle dosi", ha detto.
Locatelli (Cts): "Terza dose per giovani sani non è scontata"
Secondo Franco Locatelli, coordinatore del Comitato tecnico scientifico per l'emergenza Covid, la terza dose per i soggetti sani e giovani non è assolutamente scontata". Prima di estendere il 'booster' a tutti, ha spiegato Locatelli, "occorre dare copertura nei Paesi dove la campagna vaccinale è imparagonabilmente più bassa". "Il covid è diventata la quarta causa di morte in Italia", mentre "negli Usa è al terzo posto", ha detto. "Secondo i dati raccolti dall'Oms - ha sottolineato - nel 94% dei Paesi la pandemia ha poi provocato un'alterazione o un'interruzione dei servizi sanitari".
Nel Lazio richiamo vaccini per 140mila over 80
Nel Lazio è intanto partito il nuovo richiamo di vaccino Covid-19 per gli over 80. "Da oggi a mezzanotte sarà attivo per tutta la regione il servizio di prenotazione online per gli over 80 che hanno ricevuto la seconda dose entro il 31 marzo 2021: una platea di 140mila utenti. Le prenotazioni sono possibili su www.prenotavaccino-covid.regione.lazio.it/MAIN/HOME, inserendo il numero della tessera sanitaria, e scegliendo il centro vaccinale o la farmacia vicino casa. Chi vuole può fare la terza dose del richiamo dal proprio medico di famiglia contattandolo direttamente". Lo sottolinea l'assessore regionale alla Sanità, Alessio D'Amato, nel bollettino Covid quotidiano.
"Gli over 80 autosufficienti che hanno precedentemente ricevuto la vaccinazione Covid a domicilio - ricorda - verranno contattati direttamente dalle Asl e non dovranno fare nulla. Gli ospiti nelle Rsa e nelle altre strutture residenziali non dovranno fare nulla, riceveranno la terza dose direttamente dalle équipe delle Asl, dalle Uscar o dalle strutture che li ospitano".
Il meccanismo dettagliato di come SARS-CoV-2 attacca le cellule produttrici di insulina del pancreas, prendendo di mira la proteina dell'enzima di conversione dell'angiotensina 2 (ACE2) sulla superficie delle cellule è oggetto di una presentazione speciale del prof. Francesco Dotta, Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Neuroscienze, Università di Siena, al Meeting annuale dell'Associazione Europea per lo Studio del Diabete (EASD).
“Il virus SARS-CoV-2 attacca specifici tessuti dell'ospite a causa della presenza di recettori virali sulla superficie delle cellule bersaglio. Pertanto, il legame del virus alla proteina ACE2 è il fattore determinante per la sua entrata, propagazione e trasmissibilità- spiega il prof. Dotta- Molti studi hanno dimostrato che gli anziani e quelli con condizioni mediche croniche come malattie cardiache e polmonari e/o diabete sono a più alto rischio di complicanze da infezione da SARS-CoV-2. Inoltre, il controllo alterato della glicemia è associato ad un aumento del rischio di COVID-19 grave, suggerendo un legame tra l'infezione da COVID-19 e il diabete. Diversi rapporti indicano un'ampia, sebbene variabile, distribuzione della proteina ACE2 tra diversi tessuti”.
Il team del professor Dotta hanno studiato il pattern di espressione di ACE2 in campioni di tessuto pancreatico di donatori multiorgano non diabetici, al fine di comprendere meglio il legame molecolare tra COVID-19 e diabete. In particolare, il loro gruppo collaborativo ha analizzato campioni di tessuto pancreatico nell'ambito del consorzio INNODIA, un grande progetto di ricerca sul diabete finanziato dall'UE, dalla JDRF e dalla Fondazione Helmsely nell'ambito dell'iniziativa europea IMI2.
Nel pancreas "normale", ACE2 è altamente espresso nel microcircolo (piccoli vasi sanguigni) e nelle cellule duttali (cellule che rivestono la connessione tra il pancreas e il dotto biliare). “È importante notare che abbiamo scoperto che ACE2 era espresso nelle isole pancreatiche umane, preferenzialmente nelle cellule beta, che producono insulina. Abbiamo anche dimostrato che i livelli di ACE2 sono aumentati in condizioni proinfiammatorie, confermando così il legame tra infiammazione e ACE2 anche nelle cellule beta delle isole pancreatiche -prosegue- Al fine di identificare correttamente il meccanismo coinvolto nella sovraregolazione di ACE2 indotta dall'infiammazione, i livelli di ACE2 sono stati misurati in isole pancreatiche umane pretrattate con due farmaci che bloccano l'infiammazione nelle cellule beta, ovvero Baricitinib o Nimbus (inibitori di Jak1/2 e TYK2). e quindi esposto a condizioni pro-infiammatorie. Abbiamo dimostrato che questi farmaci prevengono l'aumento di ACE2 indotto dall'infiammazione nelle isole pancreatiche umane, dimostrando che il recettore ACE2 è regolato attraverso percorsi molecolari specifici e che la sua maggiore espressione può essere prevenuta.
Nel nostro lavoro in collaborazione con l'Università di Pisa, l'Università di Lovanio e l'Università di Bruxelles abbiamo studiato i meccanismi di ingresso del virus SARS-CoV-2 nelle cellule beta produttrici di insulina e abbiamo scoperto che queste cellule esprimono il recettore SARS-CoV-2 ACE2”, sottolinea il prof Dotta. Tali dati sono stati confermati indipendentemente da altri autori.
Da notare che ulteriori dati pubblicati hanno confermato che SARS-CoV-2 può effettivamente infettare le cellule produttrici di insulina pancreatiche, causandone la disfunzione o la morte. Inoltre, durante l'infiammazione l'espressione del recettore SARS-CoV-2 ACE2 aumenta di parecchie volte al di sopra dei valori standard.
“Ciò significa che queste cellule beta produttrici di insulina potrebbero essere ancora più suscettibili all'infezione virale quando infiammate. Questa scoperta è importante anche da un punto di vista clinico, poiché tenere sotto controllo lo stato infiammatorio nei pazienti con COVID-19 può ridurre l'espressione del recettore ACE2 nelle cellule beta con effetti benefici sulla glicemia e sul controllo metabolico dei pazienti", conclude il prof. Dotta.
Antonio Caperna
Una nuova ricerca presentata a Meeting annuale dell'Associazione europea per lo studio del diabete (EASD), ha esplorato se il COVID-19 sia più mortale per alcune persone con diabete rispetto ad altre.
E' stato scoperto che il diabete di tipo 2 è associato a un rischio di mortalità più elevato nei pazienti COVID ospedalizzati rispetto a quelli con diabete di tipo 1. Anche la combinazione di un'età avanzata e di un'elevata proteina C-reattiva (CRP) è stata collegata a un rischio più elevato di morte.
Anche i giovani (sotto i 70 anni) con malattia renale cronica, una comune complicanza a lungo termine del diabete, avevano una maggiore probabilità di morire. Il BMI, tuttavia, non era legato alla sopravvivenza.
Le informazioni sono state utilizzate per creare un modello semplice, che può essere utilizzato per prevedere quali pazienti sono a più alto rischio di morte.
Mentre le persone con diabete non hanno maggiori probabilità di contrarre COVID-19 rispetto ad altre, hanno però maggiori probabilità di ammalarsi gravemente se infettati. Non è stato chiaro, tuttavia, se alcune caratteristiche mettano alcune persone con diabete a un rischio maggiore di malattie gravi e morte rispetto ad altre.
Lo studio ACCREDIT, condotto dal team del dott. Daniel Kevin Llanera e dalla dott.ssa Rebekah Wilmington, presso il Countess of Chester NHS Foundation Trust in Inghilterra, ha cercato collegamenti tra una serie di caratteristiche cliniche e biochimiche e il rischio di mortalità entro sette giorni dal ricovero ospedaliero in pazienti affetti da COVID-19 con diabete.
I 1.004 pazienti di sette ospedali nel nord-ovest dell'Inghilterra avevano un'età media di 74,1. La maggior parte (60,7%) era di sesso maschile e il 45% viveva in aree classificate come le più svantaggiate del Regno Unito (in base all'indice di deprivazione multipla del governo).
Il BMI mediano era 27,6 e il 56,2% presentava complicanze macrovascolari del diabete (ad es. infarto o ictus) e il 49,6% presentava complicanze microvascolari (ad es. neuropatia o retinopatia).
Il 7,5% è stato ricoverato in terapia intensiva e il 24% è morto entro sette giorni dal ricovero in ospedale. La maggiore deprivazione socioeconomica e l'età avanzata dei pazienti studiati possono aiutare a spiegare perché la mortalità a sette giorni era più alta rispetto ad altri studi, afferma il dott. Llanera. Tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche per confermarlo.
Circa un paziente su dieci (9,8%) ha richiesto infusioni di insulina, il che significa che sono passati da altri trattamenti all'insulina per via endovenosa per controllare meglio la glicemia.
L'analisi ha mostrato che quelli con diabete di tipo 2 avevano 2,5 volte più probabilità di morire entro sette giorni dal ricovero rispetto a quelli con altri tipi di diabete. Gli autori dello studio affermano che ciò potrebbe essere dovuto al fatto che il diabete di tipo 2 di solito si verifica nelle persone anziane e può essere accompagnato da altre condizioni di salute di vecchia data, esponendole a un rischio maggiore di esiti peggiori.
Coloro che facevano infusioni di insulina avevano, tuttavia, la metà delle probabilità di morire di quelli che non avevano bisogno di insulina per via endovenosa. Gli autori dello studio affermano che questo potrebbe essere un indizio del fatto che un migliore controllo della glicemia può migliorare i risultati nei pazienti con COVID grave e diabete.
Il rischio di morte era anche più alto tra gli under-70 con malattia renale cronica. Avevano 2,74 volte più probabilità di morire rispetto agli under 70 senza malattia renale cronica.
“Secondo diversi studi, i pazienti con malattia renale diabetica hanno uno stato pro-infiammatorio cronico e una disregolazione immunitaria, che rende difficile combattere off' il virus rispetto a qualcuno che ha un sistema immunitario che funziona correttamente- afferma la dottoressa Llanera, che si è recentemente trasferita dalla Countess of Chester NHS Foundation Trust all'Imperial College di Londra,-Inoltre, i recettori ACE2 sono sovraregolati nei reni dei pazienti con malattia renale diabetica. Queste sono molecole, che facilitano l'ingresso di SARS-COV-2 nelle cellule. Ciò può portare ad un attacco diretto dei reni da parte del virus, che può portare a risultati complessivi peggiori”.
La combinazione di età avanzata e alta PCR (un marker di infiammazione) è stata collegata a un rischio di morte più di tre volte (3,44) più elevato entro il giorno 7. Gli autori dello studio affermano che una PCR più elevata è correlata a un alto grado di infiammazione, che può eventualmente portare a insufficienza d'organo.
I dati sono stati utilizzati per creare un modello che, se applicato a un paziente con caratteristiche demografiche simili, può prevedere un rischio più elevato di morte in 7 giorni utilizzando solo l'età e la PCR come variabili.
“Entrambe queste variabili sono facilmente disponibili durante il ricovero in ospedale. Ciò significa che possiamo facilmente identificare i pazienti all'inizio della loro degenza ospedaliera che probabilmente richiederanno interventi più aggressivi per cercare di migliorare la sopravvivenza", continua Llanera.
A differenza di alcuni studi precedenti, BMI e HbA1c (livello medio di zucchero nel sangue) non sono stati associati alla morte.
Né è stata osservata alcuna associazione significativa con le complicanze del diabete, a parte la malattia renale cronica, o l'uso di ACE-inibitori e bloccanti del recettore dell'angiotensina (ARB) - tipi di farmaci per la pressione sanguigna.
La percentuale di pazienti (9,8%) passati alle infusioni di insulina è superiore alla cifra tipica dell'8%, suggerendo che i pazienti Covid richiedono livelli più elevati di input da parte dei team per il diabete ricoverati.
“Per aiutare i nostri pazienti con diabete a sopravvivere a questa pandemia, avevamo bisogno di esplorare ulteriormente ciò che li rende a rischio di esiti peggiori -conclude Llanera-Questi risultati consentiranno ad altri ricercatori e medici di scoprire come possiamo intervenire al meglio, permettendoci di fornire ai nostri pazienti il ??trattamento più appropriato".
Antonio Caperna
Secondo un nuovo articolo pubblicato su PLOS Medicine da Marc Chadeau-Hyam e Paul Elliott dell'Imperial College di Londra, è possibile utilizzare una serie di 7 sintomi, considerati insieme, per scoprire il COVID-19.
Il rilevamento rapido dell'infezione da SARS-CoV-2 nella comunità è fondamentale per garantire un controllo efficiente della trasmissione. Quando la capacità di test è limitata, è importante utilizzare i test nel modo più efficiente possibile, incluso l'utilizzo dei sintomi più chiari per l'assegnazione dei test. Nel nuovo studio, i ricercatori hanno ottenuto tamponi faringei e nasali con risultati validi del test PCR SARS-CoV-2 da 1.147.345 volontari in Inghilterra di età pari o superiore a 5 anni. I dati sono stati raccolti in 8 cicli di test condotti tra giugno 2020 e gennaio 2021 nell'ambito dello studio REal-time Assessment of Community Transmission-1 (REACT-1). Ai partecipanti è stato chiesto dei sintomi che hanno sperimentato nella settimana prima del test.
È stato sviluppato un modello basato sui dati ottenuti durante i turni da 2 a 7, con 7 sintomi selezionati come predittivi congiuntamente positivi di positività alla PCR: perdita o cambiamento dell'olfatto, perdita o cambiamento del gusto, febbre, nuova tosse persistente, brividi, perdita di appetito, e dolori muscolari. I primi 4 di questi sintomi sono attualmente utilizzati nel Regno Unito per determinare l'idoneità per il test PCR di comunità. Nel round 8 di test, il modello risultante ha predetto la positività alla PCR con un'area sotto la curva di 0,77 e il test delle persone nella comunità con almeno 1 dei 7 sintomi predittivi selezionati ha fornito sensibilità, specificità e valori predittivi positivi del 74% , 64% e 9,7%, rispettivamente.
"Al fine di migliorare i tassi di rilevamento della positività alla PCR e di conseguenza migliorare il controllo della trasmissione virale tramite misure di isolamento, proporremmo di estendere l'elenco dei sintomi utilizzati per il triage a tutti e 7 i sintomi che abbiamo identificato", affermano gli autori.
"Questi risultati suggeriscono che molte persone con COVID-19 non verranno testate - e quindi non si autoisolano - perché i loro sintomi non corrispondono a quelli utilizzati nelle attuali linee guida sulla salute pubblica per aiutare a identificare le persone infette- aggiunge Elliott- Comprendiamo che sono necessari criteri di test chiari e che includere molti sintomi, che si trovano comunemente in altre malattie come l'influenza stagionale, potrebbe portare le persone ad autoisolarsi inutilmente. Spero che i nostri risultati su questi sintomi significhino che il programma di test possa sfruttare le prove disponibili, contribuendo a ottimizzare il rilevamento delle persone infette”.
Elliott J, Whitaker M, Bodinier B, Eales O, Riley S, Ward H, et al. (2021) Predictive symptoms for COVID-19 in the community: REACT-1 study of over 1 million people. PLoS Med 18(9): e1003777. https://doi.org/10.1371/journal.pmed.1003777
Antonio Caperna
Trattamento di Covid 19 in pazienti ospedalizzati con polmonite e necessità di supporto respiratorio, via libera dell'Agenzia italiana del farmaco Aifa all'antinfiammatorio anakinra e ad altri due farmaci (baricitinib e sarilumab).
"Nella riunione straordinaria del 23 settembre - informa l'ente regolatorio nazionale in una nota - la Commissione tecnico scientifica (Cts) di Aifa ha valutato le nuove evidenze che si sono rese disponibili all'utilizzo per il trattamento del Covid-19 di anakinra, baricitinib e sarilumab, farmaci immunomodulanti, attualmente autorizzati per altre indicazioni. I tre farmaci, pur avendo proprie specificità, si aggiungono al tocilizumab nel trattamento di soggetti ospedalizzati con Covid-19 con polmonite ingravescente sottoposti a vari livelli di supporto con ossigenoterapia. Tale decisione, basata sulle evidenze di letteratura recentemente pubblicate, allarga il numero di opzioni terapeutiche e nello stesso tempo consente di evitare che l'eventuale carenza di tocilizumab o di uno di questi tre farmaci possa avere un impatto negativo sulle possibilità di cura".
In una riunione di oggi, aggiunge l'agenzia, "il Cda di Aifa ha approvato l'inserimento dei tre farmaci anakinra, baricitinib e sarilumab nell'elenco della L.648/96, che consente la copertura a carico del Servizio sanitario nazionale. Il provvedimento sarà efficace dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale".
Il vaccino anti Covid è efficace nei pazienti oncologici, ma per ottenere un’adeguata protezione sono indispensabili due dosi. Lo dimostra il più grande studio al mondo sulla risposta immunologica e sulla sicurezza del vaccino a mRNA nelle persone colpite da cancro, condotto presso l’Istituto Regina Elena-Sapienza Università di Roma.
Lo studio, pubblicato su “Clinical Cancer Research”, la rivista ufficiale dell’American Association for Cancer Research (AACR), ha arruolato 816 pazienti con diversi tipi di neoplasie solide, in particolare tumore della mammella (31%), del polmone (21%) e melanoma (15%), in trattamento attivo o sottoposti a cure nei 6 mesi precedenti la vaccinazione anti COVID. I risultati del lavoro sono presentati oggi in una conferenza stampa presso Sapienza Università di Roma.
“Tutti i pazienti hanno ricevuto entrambe le dosi di vaccino a distanza di 21 giorni – spiega Francesco Cognetti, Professore di Oncologia Medica Sapienza Università di Roma e Direttore Oncologia Medica Regina Elena di Roma -. Il tasso di risposta sierologico e il titolo positivo di immunoglobuline (IgG) sono stati misurati in tre diversi momenti: prima della vaccinazione, a 3 e a 7 settimane dalla prima inoculazione. Il gruppo di confronto con le persone sane era rappresentato da 274 operatori sanitari, sottoposti alla immunizzazione anti COVID con ciclo completo. Il tasso di risposta anticorpale è aumentato nei pazienti oncologici in maniera significativa dal 59,8% a 21 giorni dalla prima dose fino al 94,2% dopo 7 settimane. Invece gli operatori sani hanno evidenziato una percentuale di risposta del 93,7% già 21 giorni dopo la prima dose (raggiungendo il 100% a 7 settimane).
Tutti i pazienti oncologici vaccinati sono stati seguiti con frequenti tamponi molecolari. Complessivamente sono stati registrati solo 5 casi (0,6%) di infezioni da COVID peraltro asintomatiche. Ciò conferma l’elevatissimo valore della vaccinazione in questa popolazione molto fragile di pazienti”.
“Primi in Italia, abbiamo cominciato a vaccinare i pazienti oncologici nel Lazio lo scorso marzo – afferma Alessio D’Amato, Assessore Sanità e integrazione Socio-Sanitaria Regione Lazio -. I risultati di questo studio convalidano la nostra decisione. Nel Lazio c’è stato uno sforzo senza precedenti grazie al lavoro di squadra condotto dagli operatori sanitari e dalle Istituzioni. La nostra Regione si è distinta per efficienza proprio verso i più fragili e siamo partiti per primi anche con la somministrazione della terza dose del vaccino anti COVID nei confronti di questa popolazione”.
“Si tratta di uno studio fondamentale, che mostra come la vaccinazione induca una risposta immune in un’elevata percentuale di pazienti affetti da neoplasie solide – spiega Gianni Rezza, Direttore Generale della Prevenzione, Ministero della Salute -. Si tratta di uno studio estremamente ampio e condotto nella pratica reale. Sarà estremamente importante ora valutare l’effetto a lungo termine della vaccinazione”.
È lo studio con la più ampia casistica al mondo sull’efficacia del vaccino anti COVID nei pazienti oncologici in trattamento attivo. Le persone colpite da cancro sono ad alto rischio di conseguenze gravi fino alla morte, se contagiate dal virus. Finora però vi erano evidenze scientifiche molto limitate sull’immunogenicità e sulla sicurezza del vaccino in questa popolazione, perché esclusa dagli studi di fase 3 che hanno portato all’approvazione del siero. Le ricerche già pubblicate fino a oggi hanno considerato solo qualche decina di pazienti oncologici. Inoltre, questo è il primo studio effettuato con valutazioni della sierologia in tre tempi diversi: prima della vaccinazione, dopo la prima inoculazione e successivamente alla seconda. Una ricerca israeliana e una americana su casistiche molto inferiori hanno considerato i risultati solo in due momenti: prima della vaccinazione e alla conclusione del ciclo completo, non analizzando quindi i risultati dopo la prima dose.
“Lo studio presentato oggi ribadisce l’alto profilo della ricerca medica italiana nello scenario internazionale e punta i riflettori su una fascia di pazienti fragili che è necessario tutelare al meglio – sottolinea la Rettrice Antonella Polimeni -. Sono particolarmente orgogliosa del contributo di Sapienza nel contrasto alla pandemia, che trova fondamento nel legame indissolubile tra assistenza, ricerca e didattica, ben rappresentato dai Policlinici universitari e dalla capacità di dialogo con gli enti di territorio. Un modello che ha prodotto casi virtuosi e risultati concreti”.
Dallo studio emerge con chiarezza il valore fondamentale della seconda dose nelle persone colpite da cancro e molto fragili, che devono riceverla entro 21 giorni dalla prima, pena il potenziale rischio di contagio. FOCE (Federazione degli oncologi, cardiologi ematologi) aveva già segnalato le potenziali conseguenze pericolose del ritardo della seconda dose di vaccino per i pazienti oncologici in trattamento attivo, nei quali invece andava rigorosamente rispettata la tempistica delle due somministrazioni.
Inoltre, nello studio, la risposta anticorpale è risultata inferiore nelle persone trattate con chemioterapia e con uso prolungato di steroidi, proprio per gli effetti immunosoppressivi di queste cure. Ed è il primo studio a evidenziare l’impatto negativo dei glucorticoidi (cortisone), una classe di ormoni steroidei, sull’efficacia del vaccino anti COVID a mRNA, finora dimostrato solo in persone con malattie infiammatorie croniche. Va quindi evitato l’uso non indispensabile di steroidi. Nello studio è anche emerso lo scarso valore aggiunto degli anticorpi neutralizzanti anche particolarmente costosi, i cui test possono essere evitati nei pazienti oncologici.
La frequenza di effetti collaterali locali o sistemici, nella maggior parte dei casi lievi, è stata bassa e comunque in linea con quanto osservato nei sani, anzi la comparsa di effetti collaterali espressione dell’attivazione della risposta infiammatoria è stata osservata correlata ad un maggiore tasso di risposta anticorpale.
Sono in corso valutazioni sul mantenimento dell’immunoreattività umorale nel corso del tempo. “Dati preliminari in corso di pubblicazione – conclude il Professor Cognetti – mostrano a questo riguardo una notevole diminuzione del tasso anticorpale nei pazienti oncologici in trattamento attivo a 6 mesi dalla prima dose, diminuzione molto più significativa rispetto ai sani ed una previsione di azzeramento degli anticorpi in questi pazienti a circa 9 mesi rispetto ai 16 mesi nei sani e la conferma nel corso del tempo degli stessi fattori clinici già dimostratisi correlati con la diminuzione delle immunoreattività umorale. Questi dati, quindi, sono di indubbia utilità nella selezione delle priorità temporali alla somministrazione della terza dose nei malati oncologici”.
Al via la somministrazione della terza dose - o dosi 'booster' - di vaccino anti Covid-19 a soggetti di età pari o superiore agli 80 anni, al personale e agli ospiti dei presidi residenziali per anziani e, "in un momento successivo" agli esercenti le professioni sanitarie e operatori di interesse sanitario a partire dai 60 anni o con patologia concomitante tale da renderli vulnerabili a forme di Covid-19 grave o con elevato livello di esposizione all’infezione.
E' quanto dispone la circolare del ministero della Salute, firmata dal direttore della Prevenzione, Giovanni Rezza. In linea con quanto evidenziato dal Cts" nel suo verbale, "la strategia di somministrazione di una dose 'booster' potrà includere anche i soggetti con elevata fragilità motivata da patologie concomitanti/pre-esistenti, previo parere delle agenzie regolatorie", si chiarisce inoltre nella circolare.
"Ferma restando la priorità del raggiungimento di un'elevata copertura vaccinale con il completamento dei cicli attualmente autorizzati - si legge nella circolare - sarà possibile procedere con la somministrazione di dosi 'booster' di vaccino anti Sars-CoV-2 (come richiamo dopo un ciclo vaccinale primario)". Nel testo si elencano punto per punto le categorie: anziani dagli 80 anni in su, personale e ospiti dei presidi residenziali per anziani. E "in un momento successivo" i sanitari (esercenti le professioni sanitarie e operatori di interesse sanitario) che "svolgono le loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali", a partire dai 60 anni in su, oppure "con patologia concomitante tale da renderli vulnerabili a forme di Covid-19 grave o con elevato livello di esposizione all'infezione".
La terza dose, come già emerso, sarà con vaccino a mRna: "Indipendentemente dal vaccino utilizzato per il ciclo primario (Comirnaty*, Spikevax*, Vaxzevria*, Janssen*), considerate le indicazioni fornite dalla commissione tecnico scientifica di Aifa, sarà per ora possibile utilizzare come dose 'booster' uno qualsiasi dei due vaccini a m-Rna autorizzati in Italia (Comirnaty* di BioNTech/Pfizer e Spikevax* di Moderna)".
La dose 'booster', continua la circolare, "va somministrata dopo almeno 6 mesi dal completamento del ciclo vaccinale primario". "In linea con quanto evidenziato dal Cts" nel suo verbale, "la strategia di somministrazione di una dose 'booster' potrà includere anche i soggetti con elevata fragilità motivata da patologie concomitanti/pre-esistenti, previo parere delle agenzie regolatorie", si chiarisce nel testo.
"La strategia di offerta vaccinale a favore di ulteriori gruppi target o della popolazione generale verrà invece decisa sulla base dell'acquisizione di nuove evidenze scientifiche e dell’andamento epidemiologico", si legge ancora nella circolare del ministero.
"Partiamo con la terza dose per ottantenni, ospiti delle Rsa e personale sanitario. Diamo subito più protezione ai più fragili e a chi lavora nei presidi sanitari", ha commentato il ministro della Salute, Roberto Speranza lasciando Siena dove ha partecipato ad una iniziativa con Enrico Letta.
È appena ricominciato l’anno scolastico per oltre 8 milioni di alunni[1] e mai come oggi l’attenzione di tutti, Istituzioni, docenti, personale ATA e famiglie, è concentrata su un rientro in presenza che possa però garantire a tutti ampi margini di sicurezza.
Anche in considerazione del fatto che, ad oggi, la campagna vaccinale prevede la somministrazione del vaccino anti Sars Covid-19 ai ragazzi tra i 12 e i 18 anni, ma non contempla i bambini della scuola dell’infanzia, della primaria e gli alunni di I media, ovvero circa 3 milioni e 700.000 studenti.
Per garantire la sicurezza di tutti, riducendo al minimo le chiusure o la limitazione alla didattica nelle scuole, un modello di sorveglianza semplice ma estremamente efficace è costituito dall’utilizzo dei test molecolari salivari che, essendo anche meno invasivi dei tamponi naso-faringei, sono più semplici da eseguire anche su bambini molto piccoli. Questi test salivari, messi a punto dai pediatri e dai ricercatori dell’Ospedale Buzzi e dell’Università di Milano, sono piccoli cilindri in cotone, come quelli oggi comunemente utilizzati dai dentisti, che devono essere tenuti in bocca per qualche minuto. Privi di rischi, questi test risultano essere attendibili come i tamponi naso-faringei e, consentendo di raccogliere più materiale rispetto a questi ultimi, abbassano la possibilità di risultati erronei.
«Come ha dimostrato il nostro studio pilota condotto lo scorso aprile nelle scuole di Bollate – spiega il Prof. Gianvincenzo Zuccotti, Direttore di Dipartimento Pediatrico - Ospedale V. Buzzi ASST Fatebenefratelli – Sacco di Milano – la valenza dei test salivari molecolari è data dal fatto che essi sono in grado di “fotografare il momento”, evidenziando quello che sta accadendo, ad esempio, in una singola classe. Il test molecolare salivare è efficace sia su bambini sintomatici che asintomatici, consentendo di individuarli anche 24/48 ore prima rispetto ai normali tamponi naso-faringei. Inoltre, i test salivari molecolari, pur essendo meno invasivi, hanno dimostrato una sensibilità e specificità assolutamente sovrapponibili ai naso-faringei. La modalità con cui si raccoglie la saliva consente di ottenere un campione pulito, privo di effetti contaminatori che possano dare risultati erronei (falsi positivi o falsi negativi). Per questo, è auspicabile che, con il nuovo anno scolastico, essi vengano impiegati per screenare tutti i bambini <12 anni all’ingresso nelle scuole e successivamente in maniera random, con cadenza ad esempio quindicinale, evitando così il rischio di nuove chiusure scolastiche e il ritorno forzato alla didattica a distanza».
Una volta raccolto, il campione salivare deve essere processato con strumenti d’avanguardia, come quello messo a punto dall’azienda PerkinElmer che si basa sulla tecnica della Rt-Pcr (Real time-polymerase chain reaction) che ha un’attendibilità del 98%, così come confermato anche dalla FDA (Food and Drug Administration) americana, che ha collocato al primo posto per sensibilità e specificità lo strumento analitico dell’azienda. Altri vantaggi dei test molecolari salivari sono i costi contenuti e il riscontro rapido, in quanto essi vengono processati nell’arco di 6-12 ore. Inoltre, se collocato in un hub, lo strumento analitico può processare fino a 3.000 tamponi al giorno, offrendo ampie garanzie di individuazione rapidissima anche di alunni asintomatici.
Diverso il discorso per le università italiane, che attendono il rientro di oltre un 1.600.000 iscritti[2] per i quali, dal 1° settembre, sarà obbligatorio il green pass per accedere agli atenei. Per ottenere il green pass le alternative saranno tre: comprovata guarigione dal virus, un tampone negativo effettuato entro 48 ore o la vaccinazione contro il Covid.
Per monitorare la risposta anticorpale del vaccino, PerkinElmer è l’unica azienda ad aver messo a punto un test basato su macchie di sangue secco (DBS) per SARS-CoV-2 IgG che prevede il prelievo e l’analisi di una goccia di sangue essiccata su filtri di carta bibula. Simile ad un prelievo ematico e di facile utilizzo, il kit è stato sviluppato da PerkinElmer per la rilevazione della sieroconversione anti-SARS-CoV2 ed il suo follow-up nel tempo su campioni di sangue secco di individui cui sia stata somministrata la vaccinazione o per valutare se individui asintomatici siano stati esposti al contagio ed abbiano sviluppato una risposta adattativa al virus CoV-2.
«I campioni di sangue essiccato sono utilizzati da decenni, per esempio, nei programmi di screening neonatale – precisa a riguardo il Prof. Gianvincenzo Zuccotti – e garantiscono un’ampia validità diagnostica. In questo caso, il vantaggio dell’utilizzo del cartoncino Dried Blood Spot (DBS) per la raccolta del campione per il test Anti-SARS CoV-2 consiste non solo nel fatto che il campionamento viene svolto con una lancetta pungi dito da personale sanitario non specializzato o, potenzialmente, anche mediante auto-campionamento, ma soprattutto nella possibilità di misurare la risposta anticorpale al vaccino di singoli pazienti. Un’opportunità estremamente importante, quindi, per evitare di far ripartire l’infezione in popolazioni specifiche, come i pazienti fragili o gli anziani, oltre che per priorizzare l’erogazione di un’eventuale terza dose».
I campioni raccolti vengono processati attraverso l’utilizzo della piattaforma GSP® / DELFIA® sempre di PerkinElmer che può consentire l'elaborazione fino a 5.000 test al giorno. Una volta processato il campione, il risultato potrà comparire direttamente nel Fascicolo Sanitario Elettronico del cittadino
[1] Fonte MIUR, dati anno scolastico 2020-21 riferiti ai vari gradi scolastici (da scuola dell’infanzia a secondaria di secondo grado).
[2] Fonte MIUR, dati 2020
Tra gennaio e agosto di quest'anno i contagi sul lavoro da Covid denunciati all'Inail sono diminuiti del 40% rispetto allo stesso periodo del 2020.
A rilevarlo è il 19esimo report nazionale elaborato dalla Consulenza statistico attuariale dell'Istituto, da cui emerge che dall'inizio della pandemia alla data dello scorso 31 agosto le infezioni di origine professionale, segnalate all'Inail sono 179.992, pari a meno di un quinto del totale delle denunce di infortunio pervenute da gennaio 2020 e al 4,0% del totale dei contagiati nazionali comunicati dall'Istituto superiore di sanità (Iss) alla stessa data.
In giugno rilevato il dato mensile più basso. Rispetto alle 176.925 denunce rilevate dal monitoraggio precedente del 30 giugno, i casi in più sono 3.067 (+1,7%), di cui 820 riferiti ad agosto e 641 a luglio scorsi, mentre gli altri 1.606 casi riguardano per il 65% gli altri mesi del 2021 e il restante 35% il 2020. Il consolidamento dei dati permette, infatti, di acquisire informazioni non disponibili nelle rilevazioni precedenti. Il 2020, con 147.715 infezioni totali denunciate, raccoglie l'82% degli infortuni da Covid pervenuti da inizio pandemia, con i mesi di novembre (40.359 denunce) e marzo (28.646) ai primi due posti per numero di casi. Il 2021, con 32.277 contagi denunciati in otto mesi, al momento pesa invece per il restante 18%. Da febbraio di quest'anno il fenomeno è in significativa discesa e i 228 casi di giugno, sebbene ancora provvisori, rappresentano il minor numero di contagi mensili registrati dall'anno scorso, sensibilmente inferiore anche al precedente minimo osservato a luglio del 2020 (con poco più di 500 casi).
Rispetto al monitoraggio precedente i decessi sono 65 in più. Le morti sul lavoro da Covid denunciate all'Inail dall'inizio della pandemia sono 747, circa un terzo del totale dei decessi denunciati all'Inail da gennaio 2020, con una incidenza dello 0,6% rispetto al complesso dei deceduti nazionali comunicati dall'Iss alla stessa data. Rispetto ai 682 casi rilevati dal monitoraggio dello scorso 30 giugno, i decessi sono 65 in più, di cui tre avvenuti a luglio e due ad agosto, mentre i restanti 60 casi sono riconducibili ai mesi precedenti (45 avvenuti nel 2021 e 15 nel 2020). Il 2020 con 548 decessi da Covid raccoglie il 73,4% di tutti i casi mortali da contagio sul lavoro pervenuti fino al 31 agosto di quest'anno, con il mese di aprile al primo posto per numero di deceduti (194), seguito da marzo (139).
Il 2021, con 199 decessi nei primi otto mesi, al momento pesa invece per il 26,6% sul totale delle infezioni di origine professionale con esito mortale. Milano, Torino, Roma e Napoli le province più colpite. L'analisi territoriale, approfondita anche attraverso la versione aggiornata delle schede regionali, evidenzia una distribuzione delle denunce del 42,7% nel Nord-Ovest (prima la Lombardia con il 25,3%), del 24,6% nel Nord-Est (Veneto 10,6%), del 15,2% al Centro (Lazio 6,7%), del 12,7% al Sud (Campania 5,8%) e del 4,8% nelle Isole (Sicilia 3,2%). Le province con il maggior numero di contagi da inizio pandemia sono quelle di Milano (9,6%), Torino (7,0%), Roma (5,3%), Napoli (3,9%), Brescia, Verona e Varese (2,5% ciascuna), e Genova (2,4%). Roma è la provincia che registra il maggior numero di contagi professionali accaduti nel solo mese di agosto, seguita da Palermo, Torino, Milano, Cagliari, Siracusa, Genova, Firenze, Livorno e Imperia. La quota femminile sul totale delle denunce, spiega l'Inail, è del 68,5%, tra gli under 35 solo lo 0,7% dei casi mortali. La maggioranza dei casi mortali riguarda gli uomini (83,1%) e i lavoratori nelle fasce di età 50-64 anni (71,5%), over 64 anni (18,9%) e 35-49 anni (8,9%), mentre tra gli under 35 si registra solo lo 0,7% dei morti. Allargando l'analisi a tutti i contagi sul lavoro da Covid-19, il rapporto tra i generi si inverte. La quota femminile sul totale delle denunce, infatti, è pari al 68,5%.
Il numero delle lavoratrici contagiate supera quello dei lavoratori in tutte le regioni, a eccezione della Calabria, della Sicilia e della Campania, dove l'incidenza delle donne sul complesso delle infezioni di origine professionale è, rispettivamente, del 47,9%, del 46,1% e del 44,3%. L'età media è di 46 anni e sale a 58 e mezzo per i deceduti. L'età media dall'inizio dell'epidemia è di 46 anni per i contagiati di entrambi i sessi e 58 e mezzo per i deceduti (57 per le donne, 59 per gli uomini). Il 42,5% del totale delle denunce riguarda la classe 50-64 anni. Seguono le fasce 35-49 anni (36,6%), under 35 anni (18,9%) e over 64 anni (2,0%). L'86,4% delle denunce riguarda lavoratori italiani. Il restante 13,6% sono stranieri, concentrati soprattutto tra i lavoratori rumeni (pari al 20,9% dei contagiati stranieri), peruviani (12,7%), albanesi (8,1%), moldavi (4,6%) ed ecuadoriani (4,1%). Più di nove morti su 10 sono italiani (90,6%), mentre la comunità straniera con più decessi denunciati è quella peruviana (con il 15,7% dei casi mortali dei lavoratori stranieri), seguita da quelle albanese (12,9%) e rumena (8,6%).
Circa tremila contagiati tra insegnanti, professori e ricercatori. La stragrande maggioranza dei contagi e dei decessi (rispettivamente 96,9% e 88,0%) riguarda l'Industria e servizi, con i restanti casi distribuiti nelle gestioni assicurative per Conto dello Stato (amministrazioni centrali dello Stato, scuole e università statali), Agricoltura e Navigazione. Sono circa tremila, in particolare, le infezioni di origine professionale di insegnanti, professori e ricercatori di scuole di ogni ordine e grado e di università statali e private, riconducibili sia alla gestione dei dipendenti del Conto dello Stato sia al settore Istruzione della gestione Industria e servizi.