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- US, Domestic Travel During COVID-19. Fully vaccinated travelers are less likely to get and spread virus
- During Travel
- Wear a mask over your nose and mouth. Masks are required on planes, buses, trains, and other forms of public transportation traveling into, within, or out of the United States and in U.S. transportation hubs such as airports and stations.
- Avoid crowds and?stay at least 6 feet/2 meters?(about 2 arm lengths) from anyone who is not traveling with you.
- Wash your hands?often or use hand sanitizer (with at least 60% alcohol).
- After Travel
- Self-monitor for COVID-19 symptoms; isolate and get tested if you develop symptoms.
- Follow all?state and local?recommendations or requirements.
- Before you travel:
- Get tested with a viral test 1-3 days before your trip.
- While you are traveling:
- Wear a mask over your nose and mouth. Masks are required on planes, buses, trains, and other forms of public transportation traveling into, within, or out of the United States and in U.S. transportation hubs such as airports and stations.
- Avoid crowds and stay at least 6 feet/2 meters (about 2 arm lengths) from anyone who is not traveling with you.
- Wash your hands often or use hand sanitizer (with at least 60% alcohol).
- After you travel:
- Get tested with a viral test 3-5 days after travel AND stay home and self-quarantine for a full 7 days after travel.
- Even if you test negative, stay home and self-quarantine for the full 7 days.
- If your test is positive, isolate yourself to protect others from getting infected.
- If you don’t get tested, stay home and self-quarantine for 10 days after travel.
- Avoid being around people who are at increased risk for severe illness for 14 days, whether you get tested or not.
- Self-monitor for COVID-19 symptoms; isolate and get tested if you develop symptoms.
- Follow all state and local recommendations or requirements.
- Get tested with a viral test 3-5 days after travel AND stay home and self-quarantine for a full 7 days after travel.
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- sebbene AIFA non ne abbia mai approvato l’uso per COVID-19, l’azitromicina continua a registrare aumenti notevoli sia a livello territoriale che ospedaliero, in particolar modo in Campania (+250%) e Lazio (+300%);
- nonostante la grande pressione a carico delle strutture ospedaliere, gli acquisti ospedalieri di farmaci oncologici e immunoppressori nel 2020 risultano stabili rispetto all’anno precedente in tutte le regioni, anche in quelle maggiormente gravate dall’emergenza;
- tra i farmaci non specifici per il COVID-19, si evidenzia rispetto al 2019 un aumento generalizzato degli stimolanti cardiaci iniettivi utilizzati nelle terapie intensive e subintensive (+127%). In particolar modo, i primi due mesi del 2021 hanno fatto registrare un incremento superiore rispetto al 2020 per le regioni Molise, Basilicata, Piemonte ed Emilia Romagna;
- nel 2020 si è registrato un aumento di farmaci ansiolitici (+12%) soprattutto nelle regioni del centro, Marche (+68%) ed Umbria (+73%). In generale la cosiddetta fase 2 dell’epidemia ha visto aumentare l’acquisto di ansiolitici in misura maggiore rispetto all’incremento già osservato durante la prima fase.
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CDC recommends delaying travel until you are fully vaccinated, because travel increases your chance of getting and spreading COVID-19. If you are not fully vaccinated and must travel, follow CDC’s recommendations for unvaccinated people.
CDC will update these recommendations as more people are vaccinated, as rates of COVID-19 change, and as additional scientific evidence becomes available.
This guidance applies to travel within the United States and U.S. territories.
Domestic Travel Recommendations for Fully Vaccinated People
People who are fully vaccinated with an FDA-authorized vaccine can travel safely within the United States.
If you are fully vaccinated, take the following steps to protect others if you travel:
You do NOT need to get tested or self-quarantine if you are fully vaccinated or have recovered from COVID-19 in the past 3 months. You should still follow all other travel recommendations.
Domestic Travel Recommendations for Unvaccinated People
If you are not fully vaccinated and must travel, take the following steps to protect yourself and others from COVID-19:
Do NOT travel if you were exposed to COVID-19, you are sick, you test positive for COVID-19, or you are waiting for results of a COVID-19 test. Learn when it is safe for you to travel. Don’t travel with someone who is sick.
Traveling Internationally? Check CDC’s COVID-19 Travel Recommendations by Destination before planning your trip.
Check Travel Restrictions
State, local, and territorial governments may have travel restrictions in place, including testing requirements, stay-at-home orders, and quarantine requirements upon arrival. For up-to-date information and travel guidance, check the state or territorial and local health department where you are, along your route, and where you are going. Prepare to be flexible during your trip as restrictions and policies may change during your travel. Follow all state, local, and territorial travel restrictions.
If traveling by air, check if your airline requires any health information, testing, or other documents.
Dal 3 aprile a partire dalle 14:00, "tutti i cittadini di Capri ed Anacapri di eta' superiore ai 16 anni potranno aderire volontariamente alla campagna vaccinale inserendo i propri dati nella piattaforma regionale".
A darne notizia i primi cittadini dell'isola, Marino Lembo (Capri) e Alessandro Scoppa (Anacapri) che, in una nota, ricordano come la campagna vaccinale "diffusa", "finalizzata a raggiungere la piu' alta percentuale isolana possibile di immunizzazione contro il covid-19", sia frutto della pianificazione voluta dal governatore campano Vincenzo De Luca. Ad occuparsi delle somministrazioni l'Asl Napoli 1 in sinergia con le Amministrazioni comunali dell'isola.
Lembo e Scoppa parlano di "obiettivo assolutamente fondamentale per ridurre al minimo il rischio di contagio da covid-19, in modo tale da garantire la salute dei cittadini e il rilancio del turismo, il tutto nell'ambito di un'isola ampiamente vaccinata e quindi sicura per tutti, residenti, lavoratori ed ospiti".
I dati vanno inseriti nella piattaforma regionale https://adesionevaccinazioni.soresa.it/adesione/cittadino.
Al 30 marzo 2021 sono 1.188 su 106.789 (1,1%) i pazienti deceduti in Italia per Covid 19 di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 282 di questi avevano meno di 40 anni (172 uomini e 110 donne con età compresa tra 0 e 39 anni).
E' quanto emerge dall'ultimo report dell'Istituto Superiore di sanità, dedicato alle "Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all'infezione da Sars-CoV-2 in Italia", aggiornato al 30 marzo.
Di 80 pazienti di età inferiore a 40 anni non sono disponibili informazioni cliniche; degli altri pazienti, 164 presentavano gravi patologie preesistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità) e 38 non avevano diagnosticate patologie di rilievo, si legge nel report.
È stato pubblicato sulla rivista scientifica Radiology uno studio che che ha dimostrato come la sarcopenia, ovvero una ridotta massa muscolare, rappresenti un fattore prognostico negativo nei pazienti ospedalizzati per Covid.
L’obiettivo era di stabilire quanto la ridotta massa muscolare fosse predittiva di decorso clinico sfavorevole nei pazienti Covid ricoverati nei reparti ordinari o in terapia intensiva, nel corso della prima ondata pandemica.
E' stato coordinato dall’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi e dall’IRCCS Policlinico San Donato di Milano insieme all’Azienda Ospedaliero-Universitaria Maggiore della Carità di Novara, all’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano, alla Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero di Brescia, all’Istituto Europeo di Oncologia e all’Ospedale di Cento – in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano, l’Università degli Studi di Palermo e l’Università degli Studi del Piemonte Orientale – che ha dimostrato come la sarcopenia, ovvero una ridotta massa muscolare, rappresenti un fattore prognostico negativo nei pazienti ospedalizzati per Covid.
Nello studio retrospettivo (dati raccolti dal 21 febbraio al 30 aprile 2020) sono stati inclusi 552 pazienti di cui 364 uomini, con età media di 65 anni. L’analisi si è basata su un modello statistico che ha incrociato le informazioni relative allo stato della muscolatura paravertebrale ottenute tramite TAC toracica, eseguita all’ingresso del paziente in ospedale, per verificare la presenza di polmonite,con alcuni dati fisici e clinici di ciascun paziente.
È stata osservata un’associazione significativa tra la ridotta massa muscolare e l’insorgenza di complicanze da Covid. L’analisi ha preso in esame età, sesso, indice di massa corporea, estensione della polmonite, stato muscolare, eventuali malattie concomitanti broncopolmonari, cardiovascolari, neurologiche e oncologiche, diabete, insufficienza renale e indici derivati dagli esami di laboratorio. Lo stato muscolare deficitario si è rivelato un forte predittore indipendente sia del ricovero in terapia intensiva, sia del decesso. È noto come una ridotta massa muscolare rappresenti un fattore prognostico negativo in molte patologie, in particolare in ambito oncologico. I ricercatori hanno dimostrato come questa associazione sfavorevole si verifichi anche nei pazienti affetti da Covid-19.
“Le TC toraciche eseguite sui pazienti affetti da Covid-19 ci hanno dato la possibilità di avere accesso a una fonte preziosa di informazioni relative allo stato dei muscoli paravertebrali” conferma il professor Luca Maria Sconfienza, responsabile dell’Unità di Radiologia diagnostica e interventistica all’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi (Gruppo San Donato) e professore all’Università Statale di Milano. “Questo ci ha permesso di validare la nostra ipotesi, ovvero che la ridotta massa muscolare sia un fattore rilevante da considerare nei pazienti Covid, come già accade per altre comorbidità. Questi risultati potrebbero essere utili ai colleghi clinici impegnati nei reparti Covid”.
La ricerca ha coinvolto quattro ospedali: l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Maggiore della Carità di Novara, l’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano, la Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero di Brescia, l’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi. “La grande sfida della pandemia ci ha mostrato nuovamente quanto sia preziosa la collaborazione tra diversi ospedali”, sottolinea il dottor Simone Schiaffino, radiologo presso l’IRCCS Policlinico San Donato e primo autore della ricerca.
“È il modello dello studio multicentrico, che integra molteplici esperienze per uno scopo comune: ricavare dalle indagini eseguite dati utili alla prognosi mediante un dato normalmente non considerato, lo stato muscolare, che esprime in modo efficace la possibile “fragilità” dei pazienti, concetto quanto mai attuale. Impostare studi che vadano oltre i limiti del singolo ospedale è una necessità che abbiamo verificato in particolare in questa pandemia, sia in questa occasione, sia in precedenti esperienze come l’applicazione di algoritmi di intelligenza artificiale alla lettura delle radiografie del torace nei pazienti con sospetto Covid”.
Può un cane addestrato riconoscere un soggetto positivo al Covid-19 usando esclusivamente il suo olfatto? È la domanda a cui vuole rispondere il primo studio sviluppato all’interno di una struttura ospedaliera universitaria con l’addestramento di cani destinati allo screening rapido degli individui potenzialmente affetti da Covid-19 sintomatici e asintomatici.
Il progetto di ricerca è stato avviato a Roma presso il Drive-in Campus test del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico e verrà realizzato per la prima volta al mondo su un campione statistico rilevante di oltre mille pazienti dell’Università Campus Bio-Medico di Roma.
L’efficienza dell’olfatto del cane verrà messa alla prova con i test molecolari per la diagnosi di Covid-19. Le procedure permetteranno la tracciabilità del lavoro e saranno svolte in piena sicurezza per l’operatore, per il cane e dal punto di vista scientifico.
Grazie alla collaborazione con NGS Srl, impegnata nell’impiego di cani addestrati per la sicurezza anti esplosivo in emergenze e grandi eventi, da aprile a giugno 2021 le unità cinofile saranno appositamente addestrate, da professionisti attivi negli ambiti della safety & security, nel riconoscere la presenza del Covid-19 nel sudore dei pazienti che ogni giorno si recano al Drive-in Campus test del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, in via Regdo Scodro 42 per effettuare il tampone.
Dopo una prima fase di sperimentazione della durata di 6-8 settimane nella quale i cani saranno preparati al riconoscimento del Covid-19 attraverso specifiche tecniche mutuate dall’addestramento per gli esplosivi, il progetto vedrà altre quattro-sei settimane di sperimentazione su volontari grazie alla collaborazione dei pazienti che effettuano i tamponi al Drive-in Campus test. Sarà raccolto un campione di oltre 1000 pazienti.
All’interno di un container di circa 40 metri quadrati dedicato al progetto, il cane, in pieno comfort e sicurezza, annuserà i campioni contenenti il sudore dei pazienti. L’animale non entrerà mai in contatto diretto con la sostanza biologica. Il paziente effettuerà un autoprelievo del sudore con una garza che verrà poi inserita in un contenitore anonimo dotato di numero identificativo corrispondente al paziente stesso. Gli operatori cinofili sottoporranno il campione al cane che grazie all’addestramento ricevuto e al suo straordinario fiuto, darà in pochi secondi il suo responso sulla presenza del Covid-19. L’operatore annoterà il risultato del test come positivo o negativo su un apposito registro.
Parallelamente il Laboratorio analisi del Policlinico eseguirà il test molecolare del tampone nasofaringeo dello stesso paziente e registrerà i risultati su un database in cui i pazienti verranno resi anonimi. Lo stesso campione verrà analizzato da un sensore elettronico, realizzato dalla Facoltà di Ingegneria dell’Università Campus Bio-Medico di Roma sviluppato dall’Unità di Elettronica per Sistemi Sensoriali già sperimentato in altri progetti scientifici.
A coordinare il progetto la professoressa Silvia Angeletti, direttore dell’Unità Laboratorio analisi del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico: “Il nostro studio rappresenta il primo esempio di una collaborazione tra ricerca in laboratorio e sperimentazione sul campo. Grazie alle possibilità offerte contemporaneamente dall’attività del Drive-in Campus test e del Laboratorio Analisi possiamo lavorare in presa diretta con i cani e verificare scientificamente le nostre ipotesi”.
“Stiamo addestrando i nostri cani a riconoscere la presenza del Covid-19 nei campioni raccolti presso il Covid Center – spiega Massimiliano Macera, amministratore delegato di NGS - All’interno del container verranno sottoposte al cane alcune scatole appositamente studiate per il progetto del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, all’interno delle quali ci saranno i campioni da processare. Tutto verrà dopo una prima fase di condizionamento studiata per garantire la massima sicurezza per operatori e cani a lavoro con materiale biologico. Per esercitarsi a sviluppare la sensibilità al virus il cane passa in rassegna le scatole metalliche e quando rileverà la presenza del Covid-19 lo segnalerà precisamente ma con discrezione e riceverà un premio”.
“L’esperimento che stiamo conducendo è molto importante dal punto di vista dell’epidemiologia e della salute pubblica – ha spiegato Massimo Ciccozzi, epidemiologo molecolare dell’Università Campus Bio-Medico di Roma e promotore del progetto - Basti pensare all’utilizzo che si potrà fare di questi cani in grandi eventi, concerti e partite di calcio evitando dispendiosi test di screening e soprattutto sui tempi di rilevazione. Tutto questo, unito alla sperimentazione delle tecnologie di sensoristica sviluppate presso la facoltà di Ingegneria rappresenterà una grande risorsa per il futuro verso il ritorno alla normalità”.
LE PROSPETTIVE DEL PROGETTO
In prospettiva, se il progetto avrà successo, sarà possibile utilizzare i cani addestrati in contesti urbani per attività di screening anti Covid-19 all’interno di grandi eventi, all’ingresso di cinema, stadi e ai varchi di imbarco degli aeroporti con l’obiettivo di far ripartire la vita associata anche in quegli ambiti dove si incontra una moltitudine di persone. L’impiego dei cani comporterà diversi vantaggi: la velocizzazione delle operazioni di accesso ai luoghi di aggregazione, l’abbassamento delle spese derivanti dall’utilizzo dei tamponi e una migliore organizzazione ed efficacia dei controlli.
Un cane addestrato può impiegare circa 10 secondi per riconoscere un caso di positività, un tampone rapido richiede 20-30 minuti per fornire un risultato e almeno 24 ore il tampone molecolare. Quanto ai costi, un tampone molecolare varia dai 60 ai 150 euro, uno rapido da 20€ a 60€ circa mentre un cane addestrato ha un costo che si abbatte progressivamente all’aumentare dei soggetti esaminati. Ogni cane può lavorare con turnazioni di 1-2 ore al giorno. Nel progetto saranno impiegati fino a 6 cani. Ad oggi non risulta che i cani possano essere coinvolti nella trasmissione o diffusione del virus Sars-Cov-2.
L’UTILIZZO DEI CANI DA RILEVAMENTO
I cani per rilevamento sono oggi impiegati in numerosi campi. In ambito sanitario per esempio viene effettuato il rilevamento delle infezioni virali o batteriche: il tasso di segnalazioni esatte è compreso tra il 77 e il 92,6 per cento. L’Organizzazione Mondiale della Sanità fissa al 75 per cento la soglia di affidabilità dei test diagnostici per il rilevamento del batterio Clostridium.
Finora in Europa sono stati effettuati due studi di laboratorio per la rilelazione del Covid-19 con cani addestrati: Il primo, realizzato della Ecole Nationale Vétérinaire d'Alfort e dell’Université Paris Est ha ottenuto un tasso di rilevazione esatta tra l’83 e il 100 per cento con l’utilizzo di campioni di sudore. Il secondo, della Università di Hannover e Amburgo e dal Central institute of medical service delle Forze armate della Germania, ha ottenuto un tasso medio di rilevazione esatta del 94 per cento, utilizzando campioni di saliva.
IL DRIVE IN CAMPUS TEST
Il Drive-in Campus test si trova in Via Regdo Scodro, 42 (Roma, zona Trigoria) ORARI: dal lunedì al venerdì, ore 9.00-16.00 - Sabato e domenica, ore 9.00-14.00
Per effettuare il tampone è necessario prenotare online la fascia oraria e presentarsi con la tessera sanitaria. Ogni prenotazione è valida per una sola persona. Per prenotarsi consultare la pagina web: https://www.policlinicocampusbiomedico.it/news/al-via-il-drive-in-campus-test
Febbre, cefalea, astenia e sensazione di malessere genere, fino ad altri più specifici come la perdita di olfatto e gusto.
Sono i sintomi principali del 'Long Covid', cioè a distanza di settimane dalla malattia, legati al sistema nervoso centrale e che interessano dal 10% al 30% di chi è stato infettato dal coronavirus.
La Sars-CoV-2 attacca il sistema nervoso del cervello in altre due evenienze, non molto frequenti fortunatamente: le ischemie cerebrali con la tempesta citochinica e poi sono stati segnalati casi di encefalite ma questo è legato proprio al fatto stesso che parliamo di un virus.
Secondo uno studio della 'Northwestern Medicine' su pazienti ricoverati in 21 Stati americani e pubblicato su 'Annals of Clinical and Translational Neurology', l'8%% ha ben 4 sintomi a distanza di oltre un mese: mal di testa, formicolii, perdita del gusto e dell'olfatto, annebbiamento mentale. E poi anche capogiri e vista offuscata. Tra i malesseri duraturi non di carattere neurologico piu' comuni, invece, segnalano insonnia, fatica, dolore al torace, depressione, mancanza di respiro.
Covid e gravità della malattia. Non sono solo i fattori di rischio del Coronavirus, quale l'età avanzata, l'essere uomo e le comorbidità, a fare la differenza. I ricercatori del Ceinge-Biotecnologie avanzate di Napoli, già un anno fa, all’inizio di questa devastante pandemia, avevano ipotizzato che i fattori genetici possono contribuire allo sviluppo di una forma di Covid-19 più aggressiva.
Oggi lo stesso team di studiosi, guidato da Mario Capasso e Achille Iolascon, professori di Genetica medica dell’Università degli studi di Napoli Federico II e Principal Investigator del Ceinge, ha validato quell’ipotesi, grazie a uno studio genetico, pubblicato sulla rivista internazionale iScience (Cell Press), dai numeri veramente rilevanti.
Sono stati esaminati, infatti, i dati genetici di più di 7mila soggetti positivi, che avevano sviluppato una forma grave di malattia e che erano sottoposti a cure ospedaliere, e di circa 1 milione di soggetti sani. In particolare, i ricercatori hanno eseguito un'analisi approfondita del cromosoma 21, che ha svelato il ruolo determinante di 5 varianti genetiche nell’alterare le funzioni dei geni Tmprss2 e MX1 e nel predisporre i soggetti a manifestare sintomi gravi del Covid-19.
I risultati sono stati raggiunti, grazie al contributo di Immacolata Andolfo (biologa ricercatrice del Ceinge) e Roberta Russo (biologa ricercatrice di Genetica medica dell’Università degli studi di Napoli Federico II e Ceinge) e grazie alla collaborazione internazionale con il consorzio “Covid-19 Host Genetics Initiative”, che ha reso possibile l’acquisizione dei dati genetici di soggetti provenienti da diversi paesi europei e di diversa età e sesso.
"Questo studio - spiega Mario Capasso - getta le basi per mettere a punto nuovi test genetici che permettono di predire quali sono i soggetti ad alto rischio di sviluppare manifestazioni cliniche gravi del Covid-19". "Inoltre – sottolinea Achille Iolascon - i due geni (Tmprss2 e Mx1) trovati più frequentemente mutati nel gruppo dei pazienti gravi, potrebbero essere potenziali bersagli terapeutici". E non è tutto. "Un punto di forza di questo studio – continua Capasso – sta nel fatto che abbiamo utilizzato tecniche computazionali create ad hoc per studiare una così grande mole di dati genomici".
I numeri dello studio: coinvolti 143 centri di ricerca internazionali- Consorzio 'The Covid-19 Host Genetics Initiative'. Analizzati i dati genetici di 7mila positivi con una forma grave di Covid - 19 di origine Europea, tra cui anche gli italiani, 182 positivi con una forma grave di Covid -19 di origine africana, 386 positivi con una forma grave di Covid-19 di origine asiatica, 1 milione di soggetti sani.
Il corretto e costante esercizio fisico anche a casa, a tutte le eta' e soprattutto negli anziani, e' uno scudo in piu' contro SARS-CoV-2. Evitare la perdita di tessuto muscolare connessa con l'invecchiamento riduce il rischio di conseguenze gravi dell'eventuale infezione, perche' una buona massa muscolare favorisce una corretta risposta immunitaria.
Avere muscoli in salute accelera anche il processo di guarigione e recupero, contrastando i principali sintomi della sindrome post Covid-19 che, stando a una ricerca condotta da geriatri del Day Hospital post-Covid della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs - Universita' Cattolica campus di Roma, comporta stanchezza o affanno nell'87% dei pazienti che ne sono colpiti e che lamentano malessere persistente anche a distanza di settimane dalla risoluzione dell'infezione.
L'esercizio fisico e' percio' un vero 'farmaco salvavita' sia per ridurre il rischio di ammalarsi, sia per superare al meglio la malattia in caso di contagio, tornando piu' rapidamente e meglio alla normalita'.
Lo sottolineano gli esperti in occasione della pubblicazione del volume 'Muscoli in salute. La chiave del benessere a tutte le eta'' (a cura di Silvia Di Maio e Federico Mereta - edizioni Gribaudo), a cui ha contribuito Francesco Landi, presidente della Societa' Italiana di Gerontologia e Geriatria (Sigg), direttore Uoc Riabilitazione e Medicina Fisica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs e docente di medicina interna e geriatria all'Universita' Cattolica, campus di Roma. Nel libro appena pubblicato, realizzato con il contributo della Fondazione Istituto Danone, gli esperti raccontano l'importanza dei muscoli per la buona salute a tutte le eta' e come prendersene cura, per diffondere conoscenza, prevenzione e sane abitudini.
Il ricavato delle vendite sara' devoluto alla ricerca geriatrica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs. "E' ben noto che un corretto e costante esercizio fisico a ogni eta' contrasta la perdita di forza e tono muscolare connessa all'invecchiamento, e soprattutto negli anziani, per i quali l'attivita' fisica e' un salvavita, perche' ha ripercussioni positive sulle capacita' cognitive, la disabilita', la funzione cardiovascolare e respiratoria, il ritmo sonno-veglia- spiega Francesco Landi, coautore del volume- Il ruolo centrale della massa muscolare e' stato osservato anche in riferimento al Covid: gli anziani piu' in forma hanno un minor rischio di progressione grave della malattia, perche' hanno un sistema immunitario piu' efficiente.
Chi invece e' affetto da sarcopenia e malnutrizione- prosegue Landi- stando a dati pubblicati su 'Advances in Nutrition' dall'Universita' di San Paolo in Brasile, ha un minor numero di linfociti T circolanti e non riesce ad affrontare al meglio il 'superlavoro' metabolico necessario per combattere il virus. In chi viene colpito da SARS-CoV-2, inoltre, si registra una perdita rapida e spesso consistente del peso e della massa muscolare che dovrebbe essere affrontata subito in maniera decisa".
I muscoli infatti si assottigliano letteralmente e si indeboliscono, lasciando una sensazione di affaticamento che accompagna i pazienti per settimane anche dopo la risoluzione dell'infezione. "Dati raccolti sui nostri pazienti- aggiunge Landi- mostrano che l'87% manifesta almeno un segnale di disagio anche una volta guariti e che i sintomi piu' frequenti della sindrome post Covid-19 sono proprio la stanchezza (53%) e l'affanno (43%), entrambi direttamente connessi alla perdita del tono muscolare. Intervenendo rapidamente sui pazienti contagiati da SARS-CoV-2 con esercizi personalizzati, per favorire il mantenimento del tono muscolare generale e respiratorio, e' possibile un recupero migliore e piu' rapido", conclude Landi.
Roche ha confermato oggi i risultati topline positivi del più grande studio condotto fino a questo momento che valuta un trattamento contro il COVID-19 in pazienti infetti non ospedalizzati (n = 4.567; REGN-COV 2067).
Lo studio di fase III sugli “outcome” in pazienti non ospedalizzati ad alto rischio con COVID-19 ha raggiunto il suo endpoint primario, dimostrando che il cocktail di anticorpi sperimentali di casirivimab e imdevimab ha ridotto il rischio di ospedalizzazione o morte del 70% (1.200 mg per via endovenosa [IV]) e 71% (2.400 mg EV) rispetto al placebo.
Casirivimab e imdevimab hanno anche raggiunto tutti gli endpoint secondari chiave nello studio di fase III REGN-COV 2067, inclusa la capacità di ridurre la durata dei sintomi da 14 a 10 giorni (numeri mediani). Inoltre, uno studio complementare di fase II (REGN-COV 20145) in pazienti non ospedalizzati sintomatici o asintomatici a basso rischio con COVID-19 ha mostrato riduzioni della carica virale significative e comparabili a dosi comprese tra 300 e 2.400 mg.
“I risultati di oggi mostrano l'importante beneficio medico che casirivimab e imdevimab possono fornire alle persone con COVID-19 riducendo significativamente il rischio di ospedalizzazione e morte"- ha affermato Levi Garraway, MD, Ph.D., Chief Medical Officer e Head of Global Product di Roche Sviluppo. Le nuove infezioni continuano ad aumentare a livello globale con oltre tre milioni di casi segnalati a partire dalla scorsa settimana, quindi questo cocktail di anticorpi sperimentali può offrire speranza come potenziale nuova terapia per i pazienti ad alto rischio, in particolare alla luce delle recenti prove che dimostrano che casirivimab e imdevimab insieme mantengono attività contro le principali varianti emergenti. Insieme al nostro partner Regeneron, siamo grati ai pazienti e agli sperimentatori che hanno partecipato agli studi clinici in corso e non vediamo l'ora di discutere il crescente corpo di evidenze con le autorità sanitarie e di portare il trattamento a quante più persone possibile".
Oltre a questi studi su pazienti non ospedalizzati, il cocktail di anticorpi sperimentali casirivimab e imdevimab è attualmente in valutazione in uno studio clinico di fase II / III per il trattamento di COVID-19 in pazienti ospedalizzati, nello studio di fase III RECOVERY in aperto di pazienti ricoverati nel Regno Unito e in uno studio di fase III per la prevenzione del COVID-19 nei contatti familiari di individui infetti. A partire da marzo 2021, più di 25.000 persone hanno partecipato a studi clinici su casirivimab e imdevimab.
I risultati dettagliati di entrambi gli studi (REGN-COV 2067 e REGN-COV 20145) saranno condivisi con le autorità regolatorie e sottoposti a revisione il prima possibile. Regeneron condividerà nuovi dati con la Food and Drug Administration (FDA) statunitense e Roche e Regeneron continueranno a collaborare con l'Agenzia europea per i medicinali (EMA) e altre autorità sanitarie in tutto il mondo. All'inizio di quest'anno, il comitato per i medicinali per uso umano dell'EMA ha emesso un parere scientifico sotto Articolo 5, paragrafo 3, del regolamento 726/2004, che sostiene l'uso di casirivimab e imdevimab come opzione di trattamento per i pazienti con COVID-19 confermato.
In questi tempi eccezionali, Roche è al fianco della società, dei governi, degli operatori sanitari e di tutti coloro che lavorano per superare la pandemia.
Risultati chiave dello studio di fase III REGN-COV 2067 in pazienti non ospedalizzati[1][2][3]
|
1.200 mg IV n=736 |
Placebo n=748 |
2.400 mg IV n=1.355 |
Placebo n=1.314 |
Pazienti con ospedalizzazione o morte correlate a COVID-19 entro il giorno 29 |
||||
Riduzione del rischio |
70% (p=0.0024) |
71% (p<0.0001) |
||
Numero di pazienti con eventi |
7 (1.0%) |
24 (3.2%) |
18 (1.3%) |
62 (4.6%) |
Tempo alla risoluzione dei sintomi di COVID-19 |
||||
Riduzione mediana (giorni) |
4 (p<0.0001) |
4 (p<0.0001) |
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Mediana (giorni) |
10 |
14 |
10 |
14 |
Una valutazione della sicurezza è stata condotta su tutti i dati disponibili sui pazienti fino al giorno 169 e non ha identificato nuovi segnali di sicurezza. Gli eventi avversi gravi (SAE) erano in gran parte correlati al COVID-19 e si sono verificati nell'1,1% dei pazienti nel gruppo 1.200 mg, nell'1,3% nel gruppo 2.400 mg e nel 4,0% nel gruppo placebo. C'è stato un decesso nel gruppo 1.200 mg (n = 827), un decesso nel gruppo 2.400 mg (n = 1.849) e cinque decessi nel gruppo placebo (n = 1.843).
Tutti i pazienti in questa analisi avevano almeno un fattore di rischio, inclusa l'obesità (58%), l'età di 50 anni (51%) e le malattie cardiovascolari, inclusa l'ipertensione (36%). Circa il 35% dei pazienti era latino / ispanico, il 5% era nero / afroamericano e l'età media era di 50 anni (range: 18-96 anni). Lo studio di fase III REGN-COV 2067 in pazienti non ospedalizzati era stato in precedenza modificato per interrompere l'arruolamento nel gruppo placebo, a seguito di una raccomandazione dell'Independent Data Monitoring Committee, che ha riscontrato una chiara efficacia per entrambe le dosi.
Informazioni sullo studio REGN-COV 2067
REGN-COV 2067 [NCT04425629] è uno studio clinico di fase I-III adattativo, randomizzato, controllato con placebo, in doppio cieco per valutare l'efficacia, la sicurezza e la tollerabilità di casirivimab e imdevimab rispetto al placebo per il trattamento di pazienti adulti con COVID-19 non ospedalizzati. L'obiettivo dello studio di conferma di fase III su 4.567 pazienti era dimostrare prospetticamente un effetto clinicamente significativo sul rischio di ospedalizzazione da COVID-19 o di morte per tutte le cause in pazienti non ospedalizzati ad alto rischio e confermare la sicurezza. Lo studio ha anche valutato prospetticamente il potenziale beneficio sulla durata dei sintomi.
La popolazione di pazienti comprendeva pazienti adulti con COVID-19 non ospedalizzati con insorgenza dei sintomi ≤7 giorni dalla randomizzazione. I pazienti sono stati confermati da SARS-CoV-2 mediante test molecolari a meno di 72 ore dalla randomizzazione e non sono stati sottoposti a potenziali terapie per COVID-19. Il disegno dello studio originariamente confrontava 8.000 mg e 2.400 mg rispetto al placebo ed è stato modificato per valutare 2.400 mg e 1.200 mg rispetto al placebo.
I dati iniziali della porzione di fase II dello studio hanno soddisfatto gli endpoint primari e secondari chiave, mostrando una riduzione della carica virale e una diminuzione delle visite mediche in pazienti con COVID-19 non ospedalizzati. Questi dati provenivano da due analisi di 799 pazienti sintomatici che hanno ricevuto o casirivimab e imdevimab o placebo aggiunti allo standard di cura. Inoltre il cocktail di anticorpi sperimentali è stato generalmente ben tollerato.
Informazioni sullo studio REGN-COV 20145
REGN-COV 20145 [NCT04666441] è uno studio randomizzato di fase II per valutare l'effetto antivirale di casirivimab e imdevimab attraverso diverse dosi endovenose e sottocutanee rispetto al placebo in 815 pazienti adulti con COVID-19 a basso rischio non ospedalizzati e asintomatici. L'endpoint primario è la variazione giornaliera media ponderata della carica virale nel tempo rispetto al basale, con endpoint secondari chiave inclusi indicatori aggiuntivi di efficacia virologica, sicurezza e tollerabilità, concentrazioni degli anticorpi nel siero nel tempo e immunogenicità del cocktail di anticorpi contro placebo. Tutte le dosi testate hanno raggiunto l'endpoint primario, riducendo rapidamente e significativamente la carica virale dei pazienti (log10 copie / mL) rispetto al placebo (p <0.001), con tutte le dosi che hanno dimostrato un'efficacia simile.
Informazioni su casirivimab e imdevimab
Casirivimab e imdevimab sono un cocktail di due anticorpi monoclonali (anche noti come REGN10933 e REGN10987, rispettivamente) progettati dagli scienziati di Regeneron per bloccare l’infezione da SARS-CoV-2, il virus che causa COVID-19. Sono state valutate migliaia di anticorpi completamente umanizzati prodotti dal topo brevettato VelocImmune di proprietà dell’azienda modificato geneticamente per sviluppare un sistema immunitario umano, così come anticorpi identificati da pazienti guariti da COVID-19.
I due potenti anticorpi neutralizzanti il virus casirivimab e imdevimab sono stati pensati per legarsi in maniera non competitiva al dominio critico di legame al recettore della proteina spike del virus. Si pensa che ciò diminuisca la capacità dei virus mutati di sfuggire al trattamento e che protegga contro le varianti della proteina spike, che potrebbero emergere nella popolazione umana, così come dettagliato in una pubblicazione sulla rivista Science. Il cocktail di casirivimab e imdevimab non ha attualmente ricevuto formale autorizzazione alla commercializzazione da parte di nessuna autorità regolatoria.
[1] Basato sulla popolazione mFAS, che include tutti i pazienti randomizzati con un test SARS-CoV-2 RT-qPCR positivo da tamponi NP alla randomizzazione e ≥1 fattore di rischio per COVID-19 grave.
[2] L'analisi gerarchica formale ha prima valutato la dose di 2.400 mg rispetto al placebo concomitante e quindi ha valutato la dose di 1.200 mg rispetto al placebo concomitante.
[3] Sulla base delle analisi di fase I / II che mostrano che le dosi di 8.000 mg e 2.400 mg erano indistinguibili, il protocollo di fase III è stato modificato per confrontare 2.400 mg e 1.200 mg rispetto al placebo e i dati di 8.000 mg sono stati convertiti in un'analisi descrittiva.
Domanda di omologazione di Janssen-Cilag AG approvata: Swissmedic ha omologato temporaneamente il vaccino anti-COVID-19 «COVID-19 Vaccine Janssen» sviluppato dal colosso farmaceutico Johnson & Johnson per le persone a partire dai 18 anni di età.
Questo significa che in Svizzera sono ufficialmente commerciabili tre vaccini per prevenire la malattia da COVID-19. Il vaccino vettoriale basato su un adenovirus umano deve essere somministrato una sola volta. I dati dello studio presentati mostrano un’efficacia media del 66,9% in tutte le fasce di età testate.
Il 7 dicembre 2020 l’azienda Janssen-Cilag AG del gruppo sanitario Johnson & Johnson ha presentato una domanda di omologazione per il vaccino candidato (Ad26.COV2.S) a Swissmedic. Swissmedic ha omologato temporaneamente il vaccino «COVID-19 Vaccine Janssen» dopo un attento esame di tutti i documenti inoltrati. Il comitato di esperti esterni HMEC (Human Medicines Expert Committee) che collabora con Swissmedic ha appoggiato la decisione in una riunione straordinaria.
Il vaccino è somministrato una volta (dose singola) ed è omologato per le persone a partire dai 18 anni di età. Il vettore è un adenovirus umano (variante umana del virus del raffreddore) che contiene la struttura delle proteine spike del coronavirus SARS-CoV-2, sulle cui basi viene attivata la risposta immunitaria desiderata contro il virus nelle cellule immunitarie umane.
I dati dello studio presentati mostrano in tutte le fasce di età testate un’efficacia compresa tra il 64,2% (fascia di età:18-64 anni) e l’82,4% (fascia di età: 65 anni e oltre) 14 giorni dopo la vaccinazione. Questo vaccino permette di evitare i decorsi gravi e critici della malattia da COVID-19 (fino a quasi l’85%). Inoltre, è stato dimostrato che è anche efficace contro le mutazioni presenti in Brasile e Sud Africa (varianti SARS-CoV-2). Il vaccino è somministrato una volta (dose singola) ed è omologato per le persone a partire dai 18 anni di età.
Gli effetti collaterali più comuni riportati negli studi clinici sono stati mal di testa, stanchezza, dolori nel sito di iniezione o nausea. La maggior parte delle reazioni al vaccino si è verificata entro 1-2 giorni dalla vaccinazione e la durata è stata breve (1-2 giorni).
Il vaccino può essere conservato congelato a una temperatura compresa tra -25 °C e -15 °C e trasportato congelato o scongelato a una temperatura compresa tra 2° C e 8 °C. Dopo averlo tolto dal congelatore, il vaccino chiuso può essere conservato in frigorifero per massimo 3 mesi.
Swissmedic ha inoltre esaminato questa domanda di omologazione con la massima celerità mediante la procedura di rolling review. Le risposte alle domande poste e i risultati degli studi in corso sono stati presentati dall’azienda su base continuativa e verificati da Swissmedic non appena erano disponibili.
Con l’omologazione del vaccino anti-COVID-19 di Johnson & Johnson, Swissmedic ha valutato positivamente tre domande su quattro finora presentate per i vaccini anti-COVID-19. I vaccini di Pfizer/BioNTech (Comirnaty) e Moderna sono già stati omologati. La domanda di AstraZeneca è ancora sotto esame.
La carenza di Vitamina D (VitD) sembrerebbe associata a stadi clinici di COVID-19 più compromessi. E’ quanto emerge da uno studio retrospettivo su 52 pazienti, che ha visto la collaborazione dell’ISS, dell’Ospedale Sant’Andrea di Roma e di altre istituzioni, pubblicato sulla rivista Respiratory Research.
“Nella nostra indagine abbiamo correlato, per la prima volta, i livelli plasmatici di VitD a quelli di diversi marcatori (di infiammazione, di danno cellulare e coagulazione) e ai risultati radiologici tramite TAC durante il ricovero per COVID-19 – spiega Francesco Facchiano, ricercatore dell’ISS, coautore dello studio – e abbiamo osservato che i pazienti con bassi livelli plasmatici di VitD, indipendentemente dall'età, mostravano una significativa compromissione di tali valori, vale a dire risposte infiammatorie alterate e un maggiore coinvolgimento polmonare”.
Per lo studio sono stati arruolati 52 pazienti affetti da infezione da COVID-19 con coinvolgimento polmonare (27 femmine e 25 maschi, l'età mediana era di 68,4 anni). I livelli di vitamina D erano carenti (con livelli plasmatici di VitD molto bassi, sotto 10 ng/ml) nell’80% dei pazienti, insufficienti nel 6,5% e normali nel 13,5%.
Recenti osservazioni hanno dimostrato che la VitD non è un semplice micronutriente coinvolto nel metabolismo del calcio e nella salute delle ossa, ma svolge anche un ruolo importante come un ormone pluripotente in diversi meccanismi immunologici. È noto che i suoi recettori sono ampiamente distribuiti in tutto l’organismo e in particolare nell'epitelio alveolare polmonare e nel sistema immunitario.
“Anche se gli effetti in vivo della VitD non sono completamente compresi – si legge nello studio - una serie di osservazioni sottolineano il ruolo della VitD nello sviluppo delle malattie polmonari. La sua insufficienza è stata collegata alle infezioni virali del tratto respiratorio inferiore e all'esacerbazione delle malattie polmonari ostruttive croniche e dell'asma. Inoltre, i soggetti con bassi livelli di VitD al momento del test COVID-19 erano a più alto rischio di essere positivi al COVID-19 rispetto ai soggetti con sufficiente stato di VitD”.
Tuttavia, gli studiosi sono cauti. “L'effetto della carenza di VitD nella progressione del COVID-19 o nella gravità della malattia è ancora da valutare. I nostri dati sottolineano una relazione tra i livelli plasmatici di VitD e diversi marcatori di malattia. Al momento è difficile sostenere se l'integrazione di VitD possa svolgere un ruolo nel combattere la gravità della malattia e ridurre la sua mortalità, ma può essere una raccomandazione utile e sicura per quasi tutti i pazienti”.
“Oggi tutte le vaccinazioni del Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale possono essere somministrate dai Pediatri di Famiglia. Un riconoscimento atteso da anni, frutto di un accreditamento finalmente ottenuto e consolidato presso il Ministero della Salute e le Regioni che hanno compreso e riconosciuto il nostro ruolo, centrale nel Servizio Sanitario Nazionale per la presenza capillare, la prossimità territoriale e il rapporto fiduciario con le famiglie.
Il Covid-19 ha ridisegnato il futuro. Ora guardiamo a una nuova normalità che chiediamo sia fatta soprattutto di implementazione della qualità delle cure primarie, dal personale di studio ai necessari dispositivi di diagnostica ambulatoriale”. Questo l’intervento chiave di Paolo Biasci, Presidente della Federazione Italiana Medici Pediatri, al 47esimo Congresso Nazionale Sindacale FIMP, presenti oltre 600 iscritti, riuniti oggi in modalità webinar.
In apertura dei lavori, l’intervento e il plauso del Ministro della Salute Roberto Speranza: “Ho avuto modo di apprezzare la serietà del lavoro di tutti voi, questa rete di prossimità e vicinanza, straordinario patrimonio per il nostro Paese. Dobbiamo accelerare sui vaccini liberando e potenziando tutte le risorse che abbiamo e vi sono grato per esservi fatti carico intanto dell’immunizzazione dei genitori di bambini portatori di fragilità. Garantisco la mia massima attenzione alle vostre istanze, anche nei prossimi provvedimenti normativi. In questi mesi dobbiamo lavorare insieme su due obiettivi fondamentali: la chiusura dell’emergenza Covid e l’incredibile opportunità di ripartenza offerta dalla crisi al Servizio Sanitario Nazionale: dobbiamo, assieme, trasformare la crisi in opportunità.
La parola chiave della riforma sarà prossimità. I vostri studi rappresentano un pezzo del SSN che contribuisce in modo sostanziale alla domanda di salute dei nostri concittadini. Oggi più che mai le persone sono consapevoli che il nostro SSN è davvero la cosa più preziosa che abbiamo. Rilanciarlo sarà frutto di una grande impresa collettiva”.
A un anno dall’inizio della pandemia, il bilancio della Pediatria di Famiglia nella gestione del Covid-19 è importante. “Buona parte della tenuta del Sistema Sanitario – ricorda Biasci – è passata dalla porta dei nostri oltre 7000 studi: abbiamo infatti ridotto la pressione sugli ospedali pediatrici fino all’80%, gestito i pazienti con il triage telefonico, programmato gli accessi negli studi ed evitato il diffondersi del contagio. Ora ci occupiamo di vaccinare genitori e caregiver dei bambini fragili, sollevando dal compito i Servizi di Prevenzione su tutto il territorio nazionale. In futuro, quando sarà disponibile, organizzeremo le somministrazioni per gli under 16, accedendo e aggiornando l’anagrafe vaccinale in tempo reale e così rafforzando l’efficacia delle campagne di profilassi.
Dobbiamo però essere messi in grado di lavorare con serenità: i Pediatri di Famiglia, che liberamente aderiranno al protocollo d’intesa sottoscritto con Governo e Regioni una volta che sarà declinato a livello regionale, dovranno essere protetti dai rischi giudiziari legati alle reazioni avverse, non dipendenti dalla loro volontà e perizia. Diversamente, chi rischierebbe una denuncia penale a fronte della semplice somministrazione di un vaccino?”.
“Neppure l’emergenza Covid-19 – conclude Biasci – ha ridotto la disomogeneità orizzontale di sistemi di cure non sempre allineati e quella verticale dei 20 diversi modelli regionali, rimasti profondamente tali spesso anche nella gestione emergenziale dell’epidemia. Dobbiamo invece prevedere un miglioramento dei livelli organizzativi e su questo stiamo seguendo un percorso che sappiamo avere l’apprezzamento del Ministero della Salute.
Il supporto alla Pediatria di Famiglia passerà attraverso l’assunzione di personale di studio e la fornitura di dispositivi di diagnostica ambulatoriale a risposta rapida, il cosiddetto “self help”, misure alle quali la Legge di Bilancio 2020 aveva destinato 235 milioni di euro, non ancora investiti. Su questi provvedimenti, che dovranno entrare a regime e non avere il carattere emergenziale, chiediamo l’attenzione del Governo. Il futuro della Pediatria di Famiglia sta dentro a quello dell’intero Paese e dobbiamo continuare a costruirlo insieme”.
Un 'passaporto covid' digitale, per aiutare la libertà di movimento in Ue. Questo l'annuncio della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, in conferenza stampa a Bruxelles.
Ma a cosa serve e a chi spetta? Il certificato verde digitale proposto oggi dalla Commissione Europea, spiega von der Leyen, "dichiara se una persona è stata vaccinata, è negativa al test o è guarita dalla Covid-19 e ha gli anticorpi. Assicurerà che i risultati che mostra vengano mutualmente riconosciuti in ogni Stato membro. Con questo certificato digitale puntiamo a ripristinare la libertà di movimento in modo sicuro, responsabile e fidato".
Il certificato Ue sarà pronto "prima dell'estate", assicura il commissario alla Giustizia Didier Reynders. Sarà gratuito, in forma digitale, oppure cartaceo, ma entrambi riporteranno un codice Qr che contenga le informazioni necessarie, come pure una firma digitale per assicurarne l'autenticità.
Il certificato sarà redatto nella lingua dello Stato membro e in inglese; coprendo i vaccinati, i guariti dalla malattia e coloro che semplicemente hanno fatto un test (Pcr o rapido) "preverrà le discriminazioni contro le persone che non sono vaccinate". Inoltre, precisa Reynders, a decidere che uso fare del certificato "saranno gli Stati membri" e non l'Ue. Essere vaccinati, specifica la Commissione, "non sarà una precondizione per viaggiare", dato che "tutti i cittadini hanno il diritto fondamentale della libertà di circolazione e questa si applica a prescindere dal fatto che uno sia vaccinato o meno".
Il certificato "renderà più semplice esercitare il diritto" di muoversi da uno Stato membro all'altro, cosa che è oggi molto complicata, non solo per le restrizioni anti-Covid, ma anche perché spesso gli Stati continuano a non riconoscere i risultati dei test condotti in altri Paesi Ue.
Il 'pass', sottolinea il commissario alla Giustizia Didier Reynders, sarà uno "strumento temporaneo: non vogliamo prolungarlo. Quando l'Organizzazione Mondiale della Sanità potrà dire che siamo alla fine della pandemia, smetteremo", dato che la libertà di circolazione nello spazio Schengen tornerà, non sussistendo più ragioni per limitarla.
"Naturalmente - continua Reynders - sarà possibile riattivarlo nel caso, speriamo di no, di un'altra pandemia in futuro. Ma questo avverrà con un atto delegato, con l'intervento del Parlamento Europeo. Non discutiamo dell'uso dello strumento, ma vogliamo far sì che sia possibile per le persone utilizzare il risultato del test", cosa che oggi non è sempre possibile.
Inoltre, continua Reynders, le vaccinazioni "non sono obbligatorie" e, per di più, ci sono persone che "non si possono vaccinare". E' uno strumento che "non discrimina" tra i cittadini. Sarà possibile in futuro "estenderlo ai cittadini di Paesi terzi", aggiunge Reynders. "C'è molto da lavoro da fare a livello dei Paesi membri: l'intenzione è di essere pronti a giugno, sia con lo strumento legislativo che con la struttura digitale", conclude.
L’Onorevole Vanessa Cattoi, membro dell’Intergruppo parlamentare “Insieme per un impegno contro il cancro”, ha presentato una interrogazione a risposta scritta indirizzata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e al Ministero della Salute sul tema delle vaccinazioni anti-Covid-19 dei pazienti oncologici ed oncoematologici, per chiedere al Governo quali siano le attendibili previsioni sulle tempistiche di vaccinazione dei pazienti oncologici ed oncoematologici in situazione vulnerabile, con particolare riguardo ai tumori ematologici e a quelli del distretto toracico, come il tumore del polmone.
L’iniziativa nasce dalle criticità evidenziate sul territorio dalle 36 associazioni di pazienti oncologici e oncoematologici del Gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere” che hanno riscontrato ritardi nella vaccinazione delle persone con diagnosi di tumore; alla luce della sospensione precauzionale del vaccino AstraZeneca da parte di AIFA, le associazioni chiedono chiarezza per rassicurare i pazienti.
“Abbiamo raccolto diverse segnalazioni di disorganizzazione e assenza di percorsi preferenziali per quanto riguarda la somministrazione di vaccini anti-Covid ai pazienti oncologici e oncoematologici – commenta Annamaria Mancuso, Presidente Salute Donna Onlus e coordinatrice del Gruppo – pazienti fragili, con difese immunitarie molto basse, che rischiano conseguenze importanti con un eventuale contagio e per i quali la vaccinazione dovrebbe essere prioritaria. La situazione riscontrata in molte regioni è invece di grande confusione, con molti pazienti, anche gravi, ancora non vaccinati e soprattutto con forti disparità tra una regione e l'altra: riteniamo che sia urgente riorganizzare e rafforzare le vaccinazioni per tutti i pazienti con diagnosi di tumore, su tutto il territorio nazionale. Abbiamo fiducia nelle decisioni delle Istituzioni ma chiediamo che si faccia quanto prima chiarezza per rassicurare i pazienti oncologici e oncoematologici sulle vaccinazioni anti-Covid-19, di fondamentale importanza per tutelare la loro salute”.
Il tasso di mortalità per Covid-19 nei pazienti con cancro è estremamente alto, con un rischio ancora più elevato tra i pazienti con neoplasie ematologiche e con tumori del distretto toracico. Secondo lo studio multicentrico internazionale Teravolt, nei pazienti affetti da tumore maligno del distretto toracico l'infezione da SARS-CoV2 comporta un tasso di mortalità del 33%. Nei pazienti anziani, fumatori o in stadi più avanzati, trattati con la chemioterapia, sembrerebbe esserci un rischio di mortalità ancora più elevato, a causa degli effetti immunosoppressivi della chemioterapia stessa.
L’ESMO, società scientifica internazionale che riunisce 25.000 oncologi, ha lanciato una call to action diretta agli Stati membri dell’Unione Europea, affinché accolgano le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e diano priorità nei rispettivi programmi di vaccinazione ai malati oncologici, in particolare ai pazienti con neoplasia toracica.
I contatti stretti di Covid-19 dovrebbero terminare la quarantena di 10-14 giorni, secondo quanto previsto dalle normative ministeriali vigenti, prima di potere essere sottoposti a vaccinazione: è quanto si legge nella pubblicazione redatta dal gruppo di lavoro Istituto superiore di sanità (Iss), Ministero della Salute, Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e Inail.
Per alcune malattie (esempio morbillo), la vaccinazione è efficace nel prevenire l’infezione, se somministrata in tempi rapidi dopo l’esposizione all’agente eziologico. Per Covid-19, attualmente non ci sono dati a supporto per l’uso dei vaccini disponibili con finalità di profilassi post-esposizione. Essendo il periodo di incubazione per Covid-19 in media di circa 5 giorni, è poco probabile che il vaccino possa indurre una risposta immunitaria sufficientemente rapida da impedire l’infezione/malattia.
Di conseguenza, le persone esposte ad un caso noto di Covid-19, identificate come contatti stretti, non devono recarsi presso i centri vaccinali (anche per non rischiare di esporre a Sars-Cov-2 le persone nei mezzi pubblici, il personale sanitario deputato alle vaccinazioni, le altre persone presenti nel centro vaccinale, ecc.) ma devono terminare la quarantena di 10-14 giorni, secondo quanto previsto dalle normative ministeriali vigenti, prima di potere essere vaccinate.
E ancora: se una persona vaccinata con una o due dosi viene identificata come contatto stretto di un caso positivo per Sars-cov-2, secondo le definizioni previste dalle circolari del ministero della Salute, questa deve essere considerata un contatto stretto anche se vaccinata e devono, pertanto, essere adottate tutte le disposizioni prescritte dalle autorità sanitarie. Si mantiene la deroga alla quarantena per il personale sanitario, con il rispetto delle misure di prevenzione e protezione dell’infezione, fino a un’eventuale positività ai test di monitoraggio per Sars-cov-2 o alla comparsa di sintomatologia compatibile con Covid-19, si legge nella pubblicazione.
Per 'contatto stretto' si intende l’esposizione ad alto rischio a un caso probabile o confermato; tale condizione è definita, in linea generale, dalle seguenti situazioni: una persona che vive nella stessa casa di un caso Covid-19, una persona che ha avuto un contatto fisico diretto con un caso Covid-19 (per esempio la stretta di mano), una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso covid-19, a distanza minore di 2 metri e di almeno 15 minuti, una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (esempio aula, sala riunioni, sala d’attesa dell’ospedale) con un caso covid-19 in assenza di Dpi (es. ffp2, ffp3, guanti) e dispositivi medici appropriati (esempio mascherine chirurgiche).
A prescindere dal tipo di vaccino ricevuto, dal numero di dosi e dal tempo intercorso dalla vaccinazione, in generale, la persona vaccinata considerata 'contatto stretto' deve osservare, purché sempre asintomatica, un periodo di quarantena di 10 giorni dall’ultima esposizione con un test antigenico o molecolare negativo effettuato in decima giornata o di 14 giorni dall’ultima esposizione al caso.
Perché la maggior parte dei bambini colpiti da SARS-CoV-2 ha un decorso rapido e con sintomi lievi? E perché alcuni riescono a neutralizzare il virus prima di altri?
La risposta arriva da uno studio dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, che identifica per la prima volta le caratteristiche immunologiche dei bambini, che meglio reagiscono all'infezione da nuovo coronavirus, riuscendo a debellarla già dopo la prima settimana. La ricerca, realizzata insieme all’Università di Padova e all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, è stata pubblicata sulla rivista scientifica Cell Reports.
LO STUDIO
L'indagine del Bambino Gesù ha coinvolto 66 pazienti di età compresa tra 1 e 15 anni ricoverati nel Centro Covid del Bambino Gesù di Palidoro nell’estate del 2020. La ricerca è stata promossa dal gruppo di studio “CACTUS - Immunological studies in children affected by COVID and acute diseases”, creato da medici e ricercatori del Dipartimento Pediatrico Universitario Ospedaliero del Bambino Gesù nel pieno dell’emergenza sanitaria.
La maggior parte dei bambini inseriti nello studio era paucisintomatica a inizio infezione, mentre a una settimana di distanza risultava già asintomatica e clinicamente guarita. Allo studio non hanno preso parte i pazienti che presentavano un quadro severo, come quello della MIS-C.
Le indagini di laboratorio hanno evidenziato come il profilo immunologico dei bambini che già dopo una settimana erano riusciti a neutralizzare il virus, era caratterizzato da una grande quantità di linfociti T e B specifici contro SARS-CoV-2, capaci di riprodursi velocemente una volta entrati in contatto con l’agente patogeno e di produrre un gran numero anticorpi neutralizzanti.
Nei bambini con questo particolare profilo immunologico è stata riscontrata già dopo una settimana una bassissima carica virale (meno di 5 copie virali per microlitro di sangue), tale da annullare di fatto la loro capacità infettiva, dunque la possibilità di contagio, anche in presenza di un tampone ancora positivo.
La presenza di linfociti T e B specifici contro il Coronavirus, inoltre, appare correlata all'esposizione dei bambini ad altri virus stagionali. I pazienti con la maggiore capacità di sconfiggere rapidamente il SARS-CoV-2, infatti, erano quelli già entrati in contatto, nella loro storia clinica, con un numero elevato di altri virus influenzali.
LE PROSPETTIVE
L’identificazione delle caratteristiche immunologiche dei bambini in grado di neutralizzare rapidamente il virus potrà consentire in futuro di adottare migliori strategie terapeutiche, verificare l'efficacia delle vaccinazioni sui bambini e disegnare possibilmente delle misure di quarantena personalizzate.
Qualora infatti si decidesse di testare i bambini sulla base del loro profilo immunologico, oltre che sulla positività al tampone, si potrebbe infatti ipotizzare di personalizzare il periodo di isolamento prima del rientro a scuola, riducendolo potenzialmente ad una settimana.
Il profilo immunologico identificato dallo studio potrà essere utilizzato anche per misurare l’efficacia dei futuri studi sulla vaccinazione in ambito pediatrico. Si tratta infatti dello stesso metodo già utilizzato, per esempio, per verificare l’avvenuta immunizzazione del personale ospedaliero del Bambino Gesù in seguito alla recente campagna vaccinale.
Sul piano delle terapie, infine, conoscere il particolare profilo immunologico del singolo paziente potrebbe consentire, per quelli che presentano sintomi più gravi, di intervenire prima e con farmaci mirati (ad esempio i futuri anticorpi monoclonali), per aiutarli a sconfiggere più facilmente la malattia da SARS-CoV-2.
L’Agenzia Italiana del Farmaco rende disponibile il dettaglio regionale sull’uso dei farmaci durante la pandemia COVID-19 attraverso il quale è possibile analizzare l’andamento dei consumi dei medicinali utilizzati per COVID-19, dei farmaci iniettivi e a uso ospedaliero nonché di quelli acquistati nelle farmacie territoriali.
Tali dati sono riferiti al 2020 e sono confrontabili con l’andamento del 2019. Per gli acquisti da parte delle strutture SSN sono già disponibili i dati relativi ai primi due mesi del 2021.
L’accessibilità di tutti questi dati conferma l’obiettivo dell’AIFA di incoraggiare l’uso appropriato e omogeneo dei farmaci su tutto il territorio nazionale.
Dal monitoraggio mensile e su base regionale emerge che:
Le informazioni rappresentate nei grafici, provenienti dal flusso NSIS della tracciabilità del farmaco, sono espresse in termini di confezioni per 10.000 abitanti die, in modo da permetterne il confronto regionale, nonché il monitoraggio tempestivo e puntuale dell’uso dei farmaci in Italia.
Secondo un nuovo studio dell'Unicef "entro il 2030 potrebbero verificarsi ulteriori 10 milioni di matrimoni precoci, minacciando anni di progressi nella riduzione della pratica".
'COVID-19: A threat to progress against child marriagè - lanciato nella Giornata Internazionale della Donna - ricorda che "la chiusura delle scuole, lo stress economico, l'interruzione dei servizi, gravidanza e morte di genitori a causa della pandemia stanno esponendo maggiormente le ragazze più vulnerabili al rischio di matrimonio precoce. Anche prima della pandemia da COVID-19, 100 milioni di ragazze entro il 2030 erano a rischio di matrimonio precoce, nonostante le significative riduzioni in diversi paesi negli ultimi anni. Negli ultimi 10 anni, la percentuale di giovani donne a livello globale che sono state date in sposa da bambine è diminuita del 15%, da circa 1 su 4 a 1 su 5, l'equivalente di circa 25 milioni di matrimoni evitati, un traguardo ora messo in pericolo".
Il COVID-19 per milioni di ragazze "ha peggiorato una situazione già difficile. Scuole chiuse, isolamento da amici e reti di supporto e crescente povertà hanno aggiunto benzina su un fuoco che il mondo stava cercando di spegnere. Ma noi possiamo e dobbiamo estinguere i matrimoni precoci- ha dichiarato Henrietta Fore, Direttore generale dell'Unicef- La Giornata Internazionale della Donna è un momento importante per ricordarci cosa queste ragazze potrebbero perdere se non agiamo subito: istruzione, salute e futuro". Le ragazze che contraggono matrimonio da bambine affrontano conseguenze nell'immediato e per tutta la vita. Hanno maggiori probabilità di subire violenza domestica e minori probabilità di proseguire gli studi. I matrimoni precoci aumentano il rischio di gravidanze precoci e non pianificate e allo stesso tempo di complicazioni e mortalità materna.
La pratica può anche isolare le ragazze da famiglie e amici ed escluderle dalla partecipazione alla vita delle loro comunità, un grave peso per la loro salute mentale e il loro benessere. Il COVID-19 sta profondamente colpendo le vite delle ragazze. Le restrizioni ai viaggi e il distanziamento sociale, dovuti alla pandemia, rendono difficile per loro accedere ad assistenza sanitaria, servizi sociali e supporto delle comunità, che le proteggono da matrimoni precoci, gravidanze indesiderate e violenza di genere. Con le scuole chiuse, le ragazze hanno maggiori probabilità di lasciare gli studi e non tornare a studiare. La perdita di lavoro e la crescente insicurezza economica potrebbero anche spingere le famiglie a far sposare le loro figlie per alleviare la pressione economica.
Nel mondo, oggi, vivono 650 milioni di donne e ragazze che sono state date in sposa da bambine - circa la metà di questi matrimoni sono avvenuti in Bangladesh, Brasile, Etiopia, India e Nigeria. Per compensare gli impatti del COVID-19 e porre fine alla pratica entro il 2030 - termine degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile - i progressi devono essere significativamente accelerati. "A un anno dalla pandemia, azioni immediate sono necessarie per alleviarne il peso sulle ragazze e sulle loro famiglie- ha aggiunto Fore- Riaprendo le scuole, implementando leggi e politiche efficaci, assicurando accesso a servizi sanitari e sociali - compresi i servizi sulla salute sessuale e riproduttiva - e fornendo misure complete di protezione sociale alle famiglie, possiamo significativamente ridurre il rischio che la loro infanzia venga rubata da un matrimonio precoce".
E’ stato pubblicato il quinto Rapporto prodotto congiuntamente dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) e dall’Istituto Superiore di Sanità (Iss) con l’analisi della mortalità dell’anno 2020 per il complesso dei decessi e per il sottoinsieme dei soggetti positivi al Covid-19 deceduti.
Il documento fa, inoltre, il punto sulle principali caratteristiche dell’epidemia e i loro effetti sulla mortalità totale, distinguendo tra la prima (febbraio-maggio 2020) e la seconda (ottobre-gennaio 2021) ondata epidemica.
Questi i risultati principali dell’indagine
· Tra il mese di febbraio e il 31 dicembre 2020 sono stati registrati 75.891 decessi nel Sistema di Sorveglianza Nazionale integrata Covid-19 dell’ISS.
· Nell’anno 2020 il totale dei decessi per il complesso delle cause è stato il più alto mai registrato nel nostro Paese dal secondo dopoguerra: 746.146 decessi, 100.526 decessi in più rispetto alla media 2015-2019 (15,6% di eccesso). In tale valutazione occorre tener conto che nei mesi di gennaio e febbraio 2020 i decessi per il complesso delle cause sono stati inferiori di circa 7.600 unità a quelli della media dello stesso bimestre del 2015-2019 e che i primi decessi di persone positive al Covid-19 risalgono all’ultima settimana di febbraio. Pertanto, volendo stimare l’impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale, è più appropriato considerare l’eccesso di mortalità verificatosi tra marzo e dicembre 2020. In questo periodo si sono osservati 108.178 decessi in più rispetto alla media dello stesso periodo degli anni 2015-2019 (21% di eccesso).
· Guardando alle classi di età, il contributo più rilevante all’eccesso dei decessi dell’anno 2020, rispetto alla media degli anni 2015-2019, è dovuto all’incremento delle morti della popolazione con 80 anni e più che spiega il 76,3% dell’eccesso di mortalità complessivo; in totale sono decedute nel 2020 486.255 persone di 80 anni e oltre (76.708 in più rispetto al quinquennio precedente). L’incremento della mortalità nella classe di età 65-79 anni spiega un altro 20% dell’eccesso di decessi dell’anno 2020; in termini assoluti l’incremento per questa classe di età, rispetto al dato medio degli anni 2015-2019, è di oltre 20 mila decessi (per un totale di 184.708 morti nel 2020).
· Dall’inizio dell’epidemia e fino al 31 dicembre 2020 il contributo dei decessi Covid-19 alla mortalità per il complesso delle cause è stato, a livello medio nazionale, del 10,2%, con differenze fra le varie ripartizioni geografiche (14,5% del Nord, al 6,8% del Centro e al 5,2% del Mezzogiorno) e fasce di età (4,6% del totale nella classe 0-49 anni, 9,2% in quella 50-64 anni, 12,4% in quella 65-79 anni e 9,6% in quella di ottanta anni o più.
Report_ISS_Istat_2020_5_marzo+%281%29.pdf
È stato pubblicato il Rapporto ISS COVID-19 “Aspetti di etica nella sperimentazione di vaccini anti-COVID-19”, elaborato del Gruppo di Lavoro “Bioetica COVID-19” dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Nel testo si presentano, analizzano e discutono i principali di aspetti di etica riguardanti la sperimentazione clinica di vaccini anti-COVID-19.
La risposta alla pressante richiesta di disponibilità di vaccini su larga scala ha determinato una contrazione dei tempi della sperimentazione di vaccini anti-COVID-19, mantenendo il rispetto dei requisiti previsti per gli studi convenzionali. Ciò è stato possibile grazie all’applicazione di strategie di salvaguardia della sicurezza, che hanno consentito di superare gran parte dei limiti intrinseci dell’accelerazione e supportare l’evidenza scientifica sulla sicurezza. Nel contesto della pandemia occorre evitare ritardi nelle procedure autorizzative, ma è doveroso anche non cedere sul rigore nella metodologia scientifica: è importante arrivare presto, ma è ancor più importante arrivare bene.
Il testo si apre con una panoramica sugli aspetti tecnico-scientifici delle sperimentazioni dei candidati vaccini anti-COVID-19.
Sono poi descritti e analizzati gli aspetti giuridici e regolatori, sia a livello internazionale, sia specifici della nostra nazione, per la sperimentazione di vaccini anti-COVID-19.
Nell’approfondimento sugli aspetti di etica si sottolinea che le sperimentazioni di vaccini anti-COVID-19 devono essere conformi ai criteri di etica che si applicano a qualsiasi sperimentazione clinica. Tuttavia, nelle emergenze pandemiche l’applicazione di alcuni di tali criteri può essere difficoltosa. Occorre particolare attenzione nel bilanciare la necessità di rigore sia nella metodologia scientifica, sia di rispetto dei criteri di etica: non sono ammesse deroghe né nella scientificità, né nell’eticità. Particolarmente critico è l’uso del placebo. Vale la regola generale che non dovrebbe essere ammesso l’uso del placebo quando è disponibile un prodotto efficace. Deroghe a tale regola sono ammissibili solo entro i limiti stabiliti nei documenti di riferimento, tra cui la Dichiarazione di Helsinki.
L’analisi include anche il tema di cosiddetti “challenge studies”, in cui vi è deliberata infezione dei volontari sani partecipanti. Sebbene in alcuni casi eccezionali studi di tale tipo potrebbero essere ammissibili, l’impianto stesso della metodologia suscita perplessità e pare, sotto il profilo etico, non accettabile per la sperimentazione di vaccini anti-COVID-19.
Il Gruppo di Lavoro è coordinato da Carlo Petrini (Direttore dell’Unità di Bioetica e Presidente del Comitato Etico dell’ISS) e include esperti, interni e esterni all’ISS, che coprono molteplici aree disciplinari, oltre la bioetica: sanità pubblica, epidemiologia, medicina clinica, giurisprudenza, biodiritto, scienze infermieristiche, filosofia, pediatria, cure palliative, e altre. Grazie alla molteplicità di competenze, il Gruppo di Lavoro “Bioetica COVID-19” ha prodotto documenti su varie tematiche con implicazioni di etica poste dalla pandemia.
Per la redazione del Rapporto il Gruppo di Lavoro si è avvalso della collaborazione di esperti di varie strutture dell’ISS: il Centro Nazionale per la Ricerca e la Valutazione Preclinica e Clinica dei Farmaci, il Dipartimento di Malattie Infettive, il Servizio di Coordinamento e Supporto alla Ricerca.
L’auspicio è che il Rapporto sia di aiuto a chi programma, valuta, esegue o partecipa a sperimentazioni di vaccini anti-COVID-19.
Si è, però, adottato uno stile semi-divulgativo, con lo scopo di offrire anche ai cittadini non esperti un testo accessibile per approfondire la tematica.
Il Rapporto è pubblicato mentre si affaccia la disponibilità dei primi vaccini sperimentati a partire dai mesi immediatamente successivi all’inizio della pandemia. Ciò, tuttavia, non rende il Rapporto intempestivo: numerose sperimentazioni di vaccini anti-COVID-19 proseguiranno e ne verranno avviate nuove, con lo scopo non solo di rendere disponibili un maggior numero di vaccini, ma anche di affrontare le nuove varianti che nel tempo compaiono e si diffondono.
Alcune varianti genetiche rendono il recettore del testosterone meno funzionante, predisponendo gli individui di sesso maschile a sviluppare una malattia da Covid-19 molto più grave.
Lo dimostra uno studio internazionale coordinato dall'Università di Siena, che ha coinvolto in Italia, tra gli altri centri, anche l'Università "La Sapienza" di Roma.
Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista "EBiomedicine", del gruppo Lancet, e condotto in una casistica di più di 600 maschi infetti dal virus Sars-Cov-2, pone le basi per futuri trials clinici sull'uso del testosterone in pazienti portatori di queste varianti.
"Che il testosterone fosse un importante modulatore del sistema immunitario e potenzialmente implicato nell'associazione tra Covid-19 e diabete, era noto - spiega Andrea Isidori, professore ordinario di Endocrinologia dell’Università Sapienza Roma - ma gli studi precedenti mostravano dati contrastanti".
Il lavoro multicentrico, coordinato dalla professoressa Francesca Mari dell’Università di Siena, spiega che è la funzionalità del recettore androgenico, legata alle sue varianti genetiche, la nuova chiave di lettura per comprendere queste discrepanze e l'evoluzione clinica dell'infezione nel maschio.
"Questi risultati sono stati possibili - spiega la professoressa Alessandra Renieri, docente del dipartimento di Biotecnologie mediche dell'Ateneo senese, responsabile della Uoc Genetica Medica dell'Azienda Ospedaliera Universitaria Senese e coordinatrice del consorzio nazionale Gen-Covid - grazie alla partecipazione di numerosi centri clinici oltre all'Aous, che hanno reclutato pazienti in tutta Italia, e alla collaborazione interdisciplinare del gruppo di Bioingegneria dell'Università di Siena e di esperti di intelligenza artificiale del dipartimento di Ingegneria dell'informazione e Scienze matematiche dell'Ateneo, insieme ai gruppi di Endocrinologia di Siena e della Sapienza, utilizzando la piattaforma di sequenziamento recentemente implementata dal nostro Ateneo".
Il livello di stress psicologico degli italiani torna ai livelli preoccupanti gia' vissuti nelle fasi piu' intense dell'emergenza coronavirus. Secondo quanto emerge dall'ultimo "Stressometro", realizzato ogni settimana dall'Istituto Piepoli per conto del Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi, infatti, il 62% degli intervistati denuncia un elevato livello di stress, il dato piu' alto dall'inizio del nuovo anno, ancor piu' significativo considerando che ben il 39% dichiara un livello "massimo".
L'indicatore, inoltre, evidenzia percentuali uniformi su tutto il territorio nazionale, con picchi nel Sud (67%) e nel Centro Italia (64%), a cui seguono le Isole (61%), il Nord Est (60%) e il Nord Ovest (58%). A preoccupare maggiormente gli italiani sono i fattori sanitari, economici e lavorativi legati alla pandemia: il sopraggiungere nel nostro Paese delle varianti del Covid-19 spaventa non poco l'opinione pubblica, non solo dal punto di vista della salute ma anche da quello della vita quotidiana, con la paura di nuove restrizioni che cresce di settimana in settimana.
"La situazione di grave stress psicologico permane- afferma David Lazzari, presidente del Cnop- ed e' sempre piu' allarmante perche' sta diventando strutturale. Ci vorrebbe una specifica attenzione sul tema, garantendo ai cittadini il necessario supporto. Ma come noto nel SSN gli psicologi sono pochissimi col risultato che a curarsi e' soltanto chi puo' permetterselo. Viene cosi' negato il diritto alla salute. Preoccupa anche il comportamento del Ministero della Salute che sembra disinteressarsi al problema".
La pandemia non ferma la ricerca nel campo delle malattie rare. Negli ultimi due mesi nell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù sono stati identificati 4 nuovi geni malattia, legati ad altrettante patologie fino a quel momento orfane di diagnosi. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica American Journal of Human Genetics.
Nel corso del 2020 i geni malattia identificati sono stati 13. Scoperte che hanno permesso di dare un nome ad altrettante malattie rare sconosciute. Il Bambino Gesù, che gestisce la più ampia casistica nazionale di malati rari in età pediatrica, aderisce alla Giornata Mondiale delle Malattie Rare che verrà celebrata domenica, 28 febbraio, illuminando il Pronto Soccorso della sede del Gianicolo con luci colorate e la scritta “Cu-RARE”.
GLI STUDI
I 4 studi coordinati dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, pubblicati negli ultimi 2 mesi, descrivono nuove patologie dello sviluppo e le rispettive cause genetiche. In particolare, sono state identificate le mutazioni di un gene denominato SCUBE3, che causano una sindrome che colpisce lo sviluppo scheletrico, e le mutazioni di altri 3 geni (CLCN6, SPEN e VPS4A) riconosciute come causa di malattie del neurosviluppo abbinate a quadri clinici complessi, che coinvolgono cioè diversi organi e tessuti del nostro corpo.
Le ricerche sono state effettuate nell’ambito del programma di ricerca dell’Ospedale dedicato ai pazienti affetti da malattie “senza nome”, finanziato dalla Fondazione Bambino Gesù Onlus (“Vite Coraggiose”) e dal Ministero della Salute.
L’IMPORTANZA DELLA DIAGNOSI
Dal 2015 al Bambino Gesù è in corso un progetto di genomica dedicato ai pazienti “orfani” di diagnosi. Lo scopo è quello di trasferire le nuove tecnologie omiche alla pratica clinica, per offrire una diagnosi precoce a quei pazienti che sono privi di un “nome” e di una causa molecolare che identifichi la loro malattia. Le scienze omiche definiscono un gruppo di discipline che utilizzano tecnologie di analisi che consentono di produrre un grande numero di dati, utili a comprendere il sistema biologico studiato. È il caso per esempio della genomica, che studia l’insieme dei geni. Le nuove tecnologie di sequenziamento permettono di analizzare l’intero genoma e di selezionare all'interno della variabilità genetica, grazie al supporto di analisi bioinformatiche complesse, la mutazione che causa la malattia.
«La diagnosi - spiega Marco Tartaglia, responsabile dell’Area di Ricerca Genetica e Malattie Rare e coordinatore di queste ricerche - è il punto di partenza per ogni paziente per una presa in carico specifica, per avviare terapie mirate quando disponibili, per offrire una consulenza genetica adeguata alla famiglia. Avere l’opportunità di offrire un test genetico mirato a bambini affetti da una malattia rara, fino a poco tempo fa non riconoscibile neppure clinicamente, è una grande opportunità per i pazienti e per le loro famiglie. La conoscenza dell’impatto delle mutazioni presenti in nuovi geni e delle loro implicazioni cliniche ci permette oggi di offrire loro uno strumento diagnostico efficace e di avviare percorsi dedicati per raggiungere gli obiettivi della medicina di precisione».
Per ridurre la cosiddetta “odissea diagnostica” a cui sono sottoposte le famiglie e consentire alle informazioni di spostarsi al posto dei pazienti, l’Ospedale ha negli ultimi anni reso disponibile su scala nazionale, attraverso un progetto di tele-consulenze, il suo programma dedicato ai pazienti orfani di diagnosi. Dal 2020 questo modello di diagnosi e ricerca è stato applicato ai centri che aderiscono alla Rete Pediatrica degli IRCCS (Rete IDEA). I centri coinvolti nel progetto si incontrano mediante sistemi di telemedicina due volte al mese per discutere i casi complessi e indirizzare l’approccio molecolare più adatto al singolo paziente. Questo metodo ha permesso di raggiungere una diagnosi nel 58% dei pazienti arruolati nel programma.
IL BAMBINO GESU’ E LE MALATTIE RARE
Nel corso degli ultimi 7 anni, il programma di genomica del Bambino Gesù dedicato ai pazienti affetti da malattie rare e “orfane” di diagnosi, ha permesso di identificare una cinquantina di nuovi geni-malattia e di caratterizzare o riclassificare alcune dozzine di “nuove” malattie.
L’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù gestisce la più ampia casistica nazionale di malati rari in età pediatrica (oltre 15.000 pazienti), ospita la sede italiana di Orphanet, il database internazionale delle malattie rare, e fa parte di 15 reti ERN (European Reference Network) che condividono conoscenze e progetti di ricerca e coordinano la presa in carico dei pazienti rari in Europa. Dal 2016 ha attivato un ambulatorio specifico dedicato ai pazienti rari senza diagnosi. Sul fronte diagnostico assistenziale, nell’ultimo anno sono state effettuate oltre 40.000 analisi genetiche.
Domenica 28 febbraio l'Ospedale parteciperà alla Giornata Mondiale delle Malattie Rare con l’evento "Insieme illuminiamo la rarità”, in linea con l'iniziativa nazionale coordinata da Uniamo - la Federazione che riunisce circa 100 associazioni che si occupano di patologie rare. Il Pronto Soccorso della sede del Gianicolo dell’Ospedale si illuminerà di verde, viola e blu per richiamare l’attenzione sulle necessità sociali e cliniche di questi pazienti e delle loro famiglie. Al centro del gioco di luci, la parola “cu-RARE” che sottolinea l’impegno del Bambino Gesù sul fronte della ricerca e della cura dei malati rari.
Una diagnosi su due persa dall’inizio della pandemia, 36.000 quelle attese per il 2020, con potenziali, gravissime ricadute sull’incremento di nuovi casi in stadi più avanzati della malattia nei prossimi anni.
Ecco il cancro alla prostata al tempo del Covid-19, fotografato oggi, nel corso di una conferenza stampa virtuale, dalla Fondazione PRO. “Si tratta del secondo tumore con maggior incremento annuo (+3.4%), dopo il melanoma (+7.3%) per gli uomini under 50 – riferisce il Prof. Vincenzo Mirone, ordinario di Urologia dell’Università Federico II di Napoli e Presidente di Fondazione PRO -. In Italia sono oltre 564.000 gli uomini che devono convivere con questa patologia, con un’età media di 72 anni al momento della diagnosi. Non possiamo permetterci di abbassare la guardia e dobbiamo mettere i pazienti nelle condizioni di non abbandonare i trattamenti”.
“Il Servizio Sanitario Nazionale – ricorda Mirone – nell’anno appena trascorso è stato sottoposto ad eccezionali pressioni e troppo spesso sull’altare del Covid-19 è stata sacrificata la continuità delle cure. Abbiamo avuto una contrazione di circa il 50% per le nuove diagnosi, ma abbiamo rilevato un crollo su tutti gli accessi: dai percorsi terapeutici, ai follow-up, agli screening. Abbiamo sopportato la riconversione dei reparti nella primavera 2020 per affrontare l’emergenza e contenere i contagi, ma a un anno di distanza, questo approccio non è più tollerabile e, se non corretto, ci porterà a pagare un prezzo altissimo in termini di vite umane, prognosi della malattia, costi diretti e indiretti. Come Fondazione PRO siamo intervenuti su un aspetto importante del fenomeno: la paura del contagio da parte dei pazienti, che per non correre il rischio di trasmissione del Covid-19, hanno rinunciato a curarsi. A loro è rivolta la campagna “Per il cancro non c’è lockdown”, realizzata con il supporto incondizionato di Ipsen S.p.A.
Tra le declinazioni del progetto, uno spot che vede testimonial Massimiliano Allegri e due sondaggi, con medici e pazienti, per comprendere la portata del problema, oltre a numerosi contributi proposti su www.fondazionepro.tv Per oltre il 70% dei 500 pazienti consultati il Covid-19 è fonte di forte preoccupazione e quasi il 40% pensa di essere più esposto al contagio a causa dei trattamenti anti-tumorali. Quattro malati su dieci hanno evitato di andare in ospedale durante la scorsa primavera, rinviando cure e visite e sette su dieci auspicano di poter assumere terapie trimestrali o semestrali, per ridurre al minimo gli accessi alle strutture sanitarie”.
Per il 66% degli oltre 500 uro-oncologi interpellati, il Covid-19 ha indotto a modificare le proprie abitudini prescrittive per il carcinoma della prostata, mentre la metà degli intervistati rileva un peggioramento dell’aderenza terapeutica. “Ci sono due risorse – la cui portata è stata rilevata anche dai pazienti – che possiamo promuovere in questa fase ancora così critica della pandemia e in un momento in cui la fiducia nei percorsi ospedalieri “puliti”, Covid-free, è da ricostruire – spiega il Prof. Giuseppe Procopio, Responsabile Oncologia Medica genitourinaria della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. Da una parte la Telemedicina, uno strumento prezioso che può essere utile in alcune fasi della diagnosi e del follow-up e che va comunque opportunamente modulato, non potendo sempre sostituire il rapporto medico-paziente in presenza. L’altra opportunità, che ha incontrato il favore di 2 medici su 3 e che come clinici stiamo cogliendo, è il ricorso a quei trattamenti, trimestrali e semestrali, che garantiscono la continuità delle cure in totale sicurezza, soprattutto nel caso di carcinoma avanzato. Questo approccio consente a pazienti anziani, spesso affetti da comorbidità croniche come diabete, obesità o ipertensione, di andare in ospedale il minimo indispensabile. Una chiave che potrebbe contribuire a garantire l’aderenza e l’efficacia terapeutica”.
La presa in carico del paziente è centrale per un corretto trattamento e perché le persone affette da cancro alla prostata comprendano l’importanza dell’aderenza terapeutica. “Continuità di cura e sicurezza è quello che cerchiamo come pazienti – afferma Ciro Poziello, testimonial della Fondazione PRO -. Speriamo che il Covid-19 possa essere visto anche come un’opportunità per riorganizzare la nostra assistenza, coniugando la risorsa territoriale con quella ospedaliera. Confidiamo fortemente sulla Telemedicina, dal teleconsulto alla gestione a domicilio. Auspichiamo che goda presto di supporti istituzionali e non sia basata solo sull’iniziativa delle strutture sanitarie più efficienti e innovative”.
“Il nostro appello alle persone colpite da cancro alla prostata – dichiara il Prof. Mirone – è a non abbandonare i trattamenti per nessun motivo, consultando il proprio urologo o oncologo in caso di dubbi o timori. Come Fondazione PRO ci impegniamo a intervenire sul sommerso non diagnosticato con campagne educazionali come “Per il cancro non c’è lockdown” e a presidiare, in questa seconda ondata di contagi, i percorsi diagnostico-terapeutici riservati ai malati di cancro alla prostata”.
“La pandemia da Covid-19 ha portato i pazienti con tumore alla prostata e i clinici a chiedersi quale sia il modo migliore per gestire la patologia – conclude Stéphane Brocker, Presidente e Amministratore Delegato di Ipsen S.p.A. –. Siamo orgogliosi di sostenere il progetto della Fondazione PRO per ricordare a tutti che la diagnosi e le cure non possono aspettare”.
Ad un anno dall'esordio della pandemia il Covid non e' piu' una malattia sconosciuta. Tantissima strada e' stata compiuta dalla ricerca e diversi vaccini sono stati approvati. Non si e' compreso del tutto quali possono essere le ripercussioni dell'infezione nel lungo periodo.
Molti pazienti infatti lamentano una sintomatologia spiccata e soprattutto una fatica cronica anche molti mesi dopo essersi negativizzati con ripercussioni importanti, come si puo' immaginare, sulla vita personale e lavorativa. Per seguire questo tipo di pazienti da aprile dello scorso anno e' stato attivato presso il presidio Columbus della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma un 'Day Hospital Post Covid'.
L'agenzia di stampa Dire per saperne di piu' ha intervistato il responsabile, il dottor Matteo Tosato.
- I pazienti colpiti dal Covid-19 spesso anche una volta 'vinta la malattia' ed essersi negativizzati presentano per mesi una sintomatologia spiccata. Quali sono le problematiche che riscontrate maggiormente e quali sono i numeri del problema che avete potuto registrare?
"Il post Covid deve trovare ancora un nome ed una connaturazione medica precisa. Ma nel nostro Day Hospital abbiamo potuto vedere che una persona guarita non recupera pienamente le sue funzioni in due o tre settimane. I tempi sono ben piu' lunghi. Ad oggi abbiamo seguito piu' di 850 persone ad una distanza media dalla fase acuta della pandemia tra i due e i tre mesi. Abbiamo visto che solo il 20% dei soggetti dopo due mesi ci riferisce di essere totalmente guarito e di aver ripreso le stesse identiche attivita' di prima. Mentre piu' del 50% delle persone lamentano piu' di tre sintomi iniziali. Dunque e' problema c'e' e va ancora inquadrato nella sua reale portata. Esiste per certo questa situazione di 'long covid' che ha un impatto pratico sulla qualita' di vita anche di queste persone sia dal punto di vista anche lavorativo lamentando difficolta' di reinserimento nelle normali attivita' che personale.
I sintomi piu' comuni, che coinvolgono il 60% delle persone da noi seguite sono invece la 'fatigue' ovvero la fatica cronica. I pazienti ci dicono che ora per loro attivita' di ruotine dopo aver contratto il virus diventano faticose da portare a termine. Altro sintomo molto comune e' la dispnea, pari al 50%, cioe' i pazienti si sentono affannati anche dopo la camminata. Anche il dolore ai muscoli e alle articolazioni e' molto frequente. Mentre per fortuna la percentuale di incidenza si abbassa rispetto a dolore toracico, tosse. Voglio sottolineare che questa e' la valutazione di un sintomo riferito dal paziente poi bisogna capire, se dietro quel sintomo c'e' un danno permanente che possa giustificare una permanenza del problema sul lungo periodo. Ed e' questo quello che stiamo cercando di studiare".
Nel Day Hospital 'Post Covid' da lei diretto quali sono gli specialisti coinvolti e in che modo come intervenite sul paziente per mettere a punto un percorso riabilitativo a 360 gradi?
"Non conosciamo tutto della malattia ma abbiamo appurato che c'e' una componente antifiammatoria molto significativa e questi disturbi quindi possono coinvolgere diversi organi. Quando abbiamo attivato il Day Hospital, il 21 aprile 2020, abbiamo cercato di mettere un team multidisciplinare in grado di mettere in luce e analizzare tutte le problematiche relative al recupero post Covid. Le figure in gioco sono: l'infettivologo, lo pneumologo e altri specialisti altrettanto importanti come lo psichiatra, il neurologo, il reumatologo, angiologo e all'otorino per i disturbi di olfatto e gusto che sono piuttosto comuni. Facciamo una valutazione complessiva composta da anamnesi clinica ed una parte strumentale come la tac del torace che serve a fare una fotografia del danno eventuale. E poi c'e' tutta la parte ecografica e doppler dei vasi del collo e degli arti inferiori e se indicato anche l'ecocardiogramma".
Il paziente a casa continua il suo percorso di riabilitazione? E se si in che modo?
"La riabilitazione in contingenza pandemica non e' possibile farla fisicamente ma viene seguita attraverso Skype con i nostri istruttori che portano avanti dei percorsi di riabilitazione non solo muscolare ma anche di un vero e proprio riadattamento al gesto fisico. Questo perche' e' come se il Covid avesse creato un vero e proprio sindrome da disadattamento muscolare. C'e' bisogno di un risveglio totale. E' come se si trattasse di una lunga convalescenza per cui bisogna essere pazienti e senza eccessi".
Sappiamo dai tristi numeri della pandemia che la fascia di popolazione piu' duramente colpita sono gli anziani. Nel loro caso il recupero delle funzioni respiratorie ma anche motorie e' totale oppure no?
"Il problema e' capire le condizioni iniziali del soggetto. Chiaramente un ottantenne porta con se un vissuto che ha portato a delle problematiche che magari prima del Covid erano riuscite a rimanere silenti o subcliniche cioe' non manifeste. Chiaramente potrebbero rimanere delle sequele definitive ma che non sono legate direttamente al Covid ma che il virus ha facilitato a manifestarsi clinicamente".
Stili di vita corretti possono, non dico prevenire certamente ma influire su una migliore 'risposta' del corpo alla stessa malattia?
"Non c'e' dubbio. Gli stili di vita corretti sono la medicina piu' forte che abbiamo a qualunque eta' e rispetto a qualunque tipo di condizione. E' un concetto che passa poco nella popolazione ma gli stili di vita, intesi quindi come esercizio fisico costante e buona alimentazione sono fondamentali al benessere dell'individuo. Non a caso per far recuperare ai nostri pazienti la sensazione di 'fatigue' abbiamo messo in campo dei protocolli che si basano sull'esercizio fisico in mani esperte ma anche un aiuto ad una supplementazione alimentare in termini di sostanze che possano ridurre la componente infiammatoria cosi' pesante in questa malattia. Questo contribuisce ad un migliore microcircolo e aiuta il muscolo a recuperare le energie. Lo stile di vita insomma e' il punto cruciale da cui partire".