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Covid in Italia, al via da venerdì 1 aprile un graduale allentamento di misure e regole anti-covid. Con la fine dello stato d'emergenza (31 marzo), dove sarà quindi necessario esibire il Super green pass? E dove basterà invece il Green pass base? Premesso che l'uso della mascherina (anche chirurgica in alcuni casi) resta obbligatorio fino al 30 aprile, ecco cosa cambia per uffici pubblici, palestre negozi.
Uffici pubblici
Dall'1 aprile non sarà più necessario il Green pass, né quello super né quello base, per accedere in banca, alle poste o negli uffici pubblici.
Negozi
Stessa cosa in negozi e centri commerciali, dove non servirà più la certificazione verde. Sia nei negozi che negli uffici pubblici basterà indossare la mascherina chirurgica.
Bar e ristoranti
Per consumare al chiuso, al banco o seduti al tavolino, dall'1 aprile in bar e ristoranti sarà sufficiente esibire il Green pass base (quello che si ottiene cioè con un tampone e che dura 48 ore). Green pass base necessario anche per accedere alle mense. Via il Green pass, anche quello base, invece, se ci si siede ai tavolini all'aperto di bar e ristoranti.
Hotel
Da aprile nessun obbligo di presentare il Green pass in alberghi e altre strutture ricettive.
Cinema, teatri, concerti
Per assistere a uno spettacolo o vedere un film al chiuso, dall'1 aprile fino al 30 dello stesso mese sarà ancora obbligatorio indossare la Ffp2 e esibire il Super green pass (da guarigione o vaccinazione). E' invece sufficiente quello base se il concerto, il film o lo spettacolo si svolge all'aperto. Resta l'obbligo di Super green pass anche per andare in discoteca, dove sarà sufficiente la mascherina chirurgica, da togliere mentre si balla. Le discoteche torneranno a capienza piena.
Piscine e palestre
Fino al 30 aprile per accedere a piscine e palestre occorre ancora essere in possesso del Super green pass.
Per andare allo stadio sarà necessario il Green pass base. Negli impianti sportivi, in caso di eventi al chiuso, resta invece l’obbligo di Super green pass. E' inoltre necessario, in quest'ultimo caso, indossare la mascherina Ffp2. Dall'1 aprile la capienza di stadi e impianti sportivi torna al 100%, sia al chiuso che all'aperto.
Mezzi di trasporto
Già dal 1° aprile il Green pass non servirà più per spostarsi su mezzi pubblici del trasporto locale. Fino alla fine del prossimo mese non si potrà però dire addio alle mascherine FFp2 per salire su bus, tram e metropolitane. Per quanto riguarda i mezzi a lunga percorrenza - treni, navi, aerei - sarà richiesto il Green pass base, con obbligo di indossare la Ffp2.
Over 50: vaccino e lavoro
Gli over 50 non dovranno più avere il cosiddetto Green pass rafforzato sul lavoro, ma sarà sufficiente fino al 30 aprile il Green pass base, quindi non ci sarà più la sospensione dal lavoro in assenza di super Green pass. Resta però l'obbligo vaccinale fino al 15 giugno. La sospensione in assenza di vaccinazione Covid-19 resterà solo per il personale sanitario, i lavoratori delle strutture ospedaliere e i lavoratori delle Rsa. Solo per loro, e non più quindi per i lavoratori di scuola, comparto sicurezza e forze dell'ordine, c'è un prolungamento dell'obbligo" di vaccino al 31 di dicembre. Per docenti come per i lavoratori di polizia, difesa, soccorso pubblico, polizia locale, università resta l'obbligo vaccinale fino al 15 giugno 2022.
Feste private
Per festeggiare matrimoni, lauree, compleanni, comunioni, tutti i partecipanti devono avere il Super green pass.
La combinazione di anticorpi a lunga durata d’azione tixagevimab e cilgavimab ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio nell’Unione Europea (UE) per la profilassi del COVID-19 negli adulti e adolescenti dai 12 anni in su con un peso di almeno 40 kg che non hanno ottenuto un’adeguata protezione dal vaccino COVID-19.
Questa popolazione comprende circa tre milioni di persone nell’UE che sono immunocompromesse o in trattamento con farmaci immunosoppressori1.
L’approvazione da parte della Commissione Europea si è basata sui risultati del programma di sviluppo clinico di tixagevimab e cilgavimab, compresi i dati dello studio di profilassi pre-esposizione di Fase III PROVENT che ha dimostrato una riduzione del 77% del rischio di sviluppare COVID-19 sintomatico rispetto al placebo all’analisi primaria e una riduzione dell’83% all’analisi mediana di sei mesi, con una protezione dal virus che dura almeno sei mesi2-4. La combinazione di anticorpi è stata generalmente ben tollerata nello studio2-4.
Il Prof. Giovanni Di Perri, Professore Ordinario di Malattie Infettive all’Università di Torino e Responsabile della Divisione Universitaria di Malattie Infettive all’Ospedale Amedeo di Savoia di Torino ha commentato: “L’aumento dei casi di COVID-19, guidati dalla nuova variante BA.2, e la revoca di diverse misure di contenimento del COVID-19 rendono importante proteggere le popolazioni vulnerabili, come gli immunocompromessi, dall’infezione da SARS-CoV-2. L’autorizzazione di questa combinazione di anticorpi permetterà alle autorità sanitarie di proteggere quelle persone che hanno bisogno di una protezione aggiuntiva al vaccino”.
La combinazione di anticorpi era già stata autorizzata in Italia il 26 gennaio scorso per l’uso di emergenza per la profilassi pre-esposizione al SARS-CoV-2.
Una ricerca internazionale che ha coinvolto l’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iom), l’Istituto Laue Langevin (ILL) di Grenoble, l'Università di Cambridge e l'Australian National Deuteration Facility, ha rivelato il funzionamento del meccanismo critico di fusione con cui SARS-CoV-2 entra in contatto e infetta le cellule umane.
In particolare, SARS-CoV-2, appartiene a una famiglia di virus a RNA conosciuti e chiamati β-coronavirus, che possono causare malattie respiratorie anche gravi e che sono altamente contagiosi.
“Nonostante faccia parte di una famiglia già nota di virus, però, non si era ancora compreso il meccanismo con cui SARS-CoV-2 infetta le cellule umane”, spiega Daniela Russo del Cnr-Iom. “In questo studio, pubblicato in copertina su Jacs, siamo stati in grado di riprodurre alcuni aspetti importanti per studiare il meccanismo di infezione, semplificando il sistema fino ai suoi elementi principali, che possono essere analizzati mediante la spettroscopia di diffusione di neutroni (scattering). Usando le possibilità offerte da questa metodica, si è potuto studiare nel dettaglio le interazioni tra la proteina virale e la membrana cellulare, analizzando gli effetti sulla struttura della membrana e la dinamica a scala molecolare di questa interazione a temperatura ambiente”.
La ricerca si è concentrata sulla proteina Spike virale, che svolge un ruolo importante nell'infettività: in particolare, si è identificata la sequenza proteica precisa coinvolta nel processo di fusione (peptidi di fusione), cioè quella responsabile del processo con cui il virus riesce a penetrare e infettare l’organismo. “La proteina Spike può mediare l'ingresso cellulare tramite fusione diretta sulla membrana plasmatica dove i livelli di calcio sono alti, o sulla membrana endosomiale, dove i livelli di calcio sono inferiori”, prosegue Russo.
I ricercatori del Cnr-Iom hanno potuto utilizzare le strutture dell’ILL di Grenoble, dove sono insediati presso un’unità di ricerca, e compiere gli esperimenti in stretta collaborazione, ottenendo informazioni cruciali e uniche al fine di determinare i meccanismi molecolari dell’infettività. “Assieme ai ricercatori dell’ILL abbiamo prodotto i campioni e pianificato gli esperimenti”, aggiunge Francesca Natali del Cnr-Iom. “Grazie all’impiego di un approccio multi-metodo e alle competenze dei diversi gruppi di ricerca che lavorano nel sito di Grenoble si è effettivamente compreso che i diversi segmenti del peptide di fusione della SARS-COV-2 Spike assumono diverse funzioni nelle fasi di fusione e infezione”.
Emerge però anche il ruolo fondamentale del calcio. “In presenza di calcio, la regione di fusione N-terminale si arpiona attraverso il doppio strato lipidico. La membrana viene destabilizzata e resa più fluida, avviando la fusione in cui i lipidi della membrana virale e della membrana ospite iniziano a mescolarsi. Rimuovendo il calcio, il peptide di fusione N-terminale cambia posizione e si colloca meno in profondità nella membrana, dove funziona in modo molto più simile agli altri peptidi di fusione studiati, fungendo cioè da ponte tra l'ospite e la membrana virale”, conclude Russo.
“Secondo questi risultati i livelli di calcio intracellulare possono quindi fornire un'indicazione di dove e come le membrane virali e dell'ospite si fondono durante l'infezione da SARS-CoV-2. Questi dati, oltre a essere interessanti nel contesto dell’attuale pandemia di Covid-19, forniscono un quadro interdisciplinare per future indagini sui meccanismi di fusione eucariotica e virale”.
Una delle conseguenze da COVID-19, riscontrate a medio e lungo termine è quella che viene chiamata “nebbia cognitiva”, una sorta di rallentamento e stanchezza mentale, che colpisce le persone guarite che provano fatica nel fare le azioni del quotidiano come lavorare, guidare la macchina o fare la spesa. Questo il risultato di una ricerca appena pubblicata su European Journal of Neurology
Lo studio, coordinato da Roberta Ferrucci, ha visto la collaborazione del Centro “Aldo Ravelli” del dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Milano, dell’ASST Santi Paolo e Carlo e dell’istituto Auxologico Italiano IRCCS. E’ stato condotto su un gruppo di 76 pazienti ricoverati presso l’ASST-Santi Paolo e Carlo e sottoposti a diverse terapie con ossigeno in base alla gravità e ha evidenziato che il 63% dei pazienti ha manifestato un disturbo/deficit cognitivo 5 mesi dopo le dimissioni ospedaliere e che il disturbo persisteva anche dopo 12 mesi nel 50% dei pazienti.
“Il nostro studio conferma e amplia i risultati di studi precedenti, dimostrando che i deficit cognitivi come il rallentamento mentale e le difficoltà di memoria possono essere osservati anche dopo un anno dal contagio e potrebbero interferire con il lavoro e la vita quotidiana”, spiega Roberta Ferrucci, docente di Psicobiologia e Psicologia fisiologica alla Statale di Milano.
Alberto Priori, direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Milano presso il Polo Universitario Ospedale San Paolo, afferma che “il dato che emerge dal nostro studio mette in evidenza la necessità di valutare attentamente la progressione a lungo termine sia dei disturbi fisici che cognitivi nei pazienti post COVID-19, per questo presso l’Ospedale San Paolo è stato attivato un ambulatorio specialistico/specifico per il Long Covid”.
Vincenzo Silani, direttore del Dipartimento di Neurologia dell’Università degli Studi di Milano presso l’Istituto Auxologico Italiano IRCCS sottolinea “la necessità di continuare lo studio del Long Covid per l’imprevedibile possibile impatto anche sul disegno di nuove strategie terapeutiche per questi pazienti”.
Allo stesso tempo, Roberta Ferrucci conferma la necessità di “interventi di riabilitazione, in particolare sui pazienti più giovani che potrebbero avere implicazioni sociali e lavorative significative, e sperimentare un aumento dell’affaticamento mentale e dello stress”.
Quarantena dei positivi al Covid, non cambiano le regole in Italia anche dopo il primo aprile con l'entrata in vigore del nuovo decreto alla scadenza dello stato d'emergenza, che finisce il 31 marzo. I positivi dovranno aspettare 7 giorni o 10 se non vaccinati prima di fare un tampone che dovrà essere negativo per poter porre fine all'isolamento. E' quanto chiariscono fonti del ministero della Salute.
Il decreto Covid del 25 marzo prevede che "a decorrere dal 1 aprile 2022 è fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura dell'isolamento per provvedimento dell'autorità sanitaria in quanto risultate positive al Sars-CoV-2, fino all'accertamento della guarigione". Qui non si fa riferimento temporale che invece viene implicitamente richiamato dal comma 3 dello stesso articolo: "con circolare del ministero della Salute sono definite le modalità attuative dei commi 1 e 2".
Si tratta della circolare firmata dal direttore generale della Prevenzione Gianni Rezza del 4 febbraio scorso, che precisa come "per i non vaccinati o i vaccinati che hanno completato il ciclo vaccinale da più di 120 giorni e per i guariti da più di 120 giorni l'isolamento dura 10 giorni con un test antigenico o molecolare negativo alla fine del periodo", mentre "per i vaccinati con 3 dose booster o che hanno completato il ciclo vaccinale da meno di 120 giorni e per guariti da meno di 120 giorni l'isolamento dura 7 giorni con un test antigenico o molecolare negativo alla fine del periodo".
Ciò che cambia dal primo aprile sarà il regime per i contatti stretti di positivi: tutti, vaccinati e non, saranno tenuti non più alla quarantena ma all'autosorveglianza, e cioè "l'obbligo di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2, al chiuso o in presenza di assembramenti", fino al decimo giorno successivo "alla data dell'ultimo contatto stretto con soggetti confermati positivi al Sars-CoV-2 e di effettuare un test antigenico rapido o molecolare per la rilevazione di Sars-CoV-2, anche presso centri privati a ciò abilitati, alla prima comparsa dei sintomi e, se ancora sintomatici, al quinto giorno successivo alla data dell'ultimo contatto".
Da lunedì 28 marzo 2022 tutte le regioni saranno in zona bianca. Anche la Sardegna dunque passa nella fascia di minor rischio. Intanto, mentre si avvicina la fine dello stato d'emergenza con il Paese che si prepara a una nuova fase con nuove misure e regole, nell'ultimo bollettino segnala 29 ricoverati in più con sintomi e +5 in terapia intensiva con 45 ingressi del giorno.
Sono stati 73.357 i nuovi contagi da Coronavirus ieri in Italia, secondo i dati e i numeri Covid del bollettino della Protezione Civile e del ministero della Salute. Sono stati registrati inoltre altri 118 morti. Nelle ultime 24 ore sono stati processati 504.185 tamponi con un tasso di positività al 14,5%.
La variante Omicron 2 è diventata ormai dominante in Italia. Sintomi, durata, incubazione: tutto quello che c'è da sapere Secondo il quadro delineato dall'Oms è diventata la 'regina' di Sars-CoV-2 a livello globale. "Negli ultimi 30 giorni il sottolignaggio BA.2" di Omicron "è diventato predominante, con 251.645 sequenze (85,96%)" caricate sulla piattaforma Gisaid. Lo scrive l'Organizzazione mondiale della sanità nel suo ultimo report settimanale sulla pandemia di Covid-19.
Ma quali sono i sintomi? E quanto dura l'incubazione? La sottovariante BA.2 di Omicron sembra essere più trasmissibile rispetto ad altre varianti di Sars-CoV-2", ha affermato Marco Cavaleri, responsabile Vaccini e Prodotti terapeutici Covid-19 dell'Agenzia europea del farmaco Ema. Più contagiosa quindi, ma con sintomi lievi in generale. La variante Omicron 2 non sembra infatti provocare effetti più gravi rispetto alla 'versione base' di Omicron. Naso che cola, mal di testa, stanchezza con dolori muscolari, starnuti e mal di gola sono stati i sintomi più segnalati. Segnalati anche casi di nausea e diarrea. Rispetto alla versione 'tradizionale' del covid, associato in particolare alla variante Delta, appaiono meno frequenti le segnalazioni alla perdita di olfatto e gusto, sintomi 'spia' della malattia nelle precedenti ondate.
I sintomi più lievi rischiano di essere confusi con sindromi da raffreddamento, quindi, molto comuni nei mesi invernali e decisamente diffusi tra i bambini. E ora con la primavera è importante anche non confonderla con allergie e riniti di stagione.
Uno studio preliminare che sarà presentato al Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive (ECCMID) di quest'anno a Lisbona, in Portogallo (23-26 aprile), suggerisce che le persone affette da HIV che sono in trattamento antiretrovirale (ART) con inibitori della proteasi (PI) ), possono avere un minor rischio di infezione da COVID-19. Lo studio è del dottor Steve Nguala del Centro ospedaliero intercomunale di Villeneuve-Saint-Georges e del General Hospital di Melun in Francia e colleghi.
Nonostante questi importanti risultati, gli autori sottolineano che si tratta di un piccolo studio osservazionale precoce e non dovrebbe essere considerato una prova conclusiva del fatto che l'uso a lungo termine degli inibitori della proteasi proteggerà le persone che vivono con l'HIV da COVID-19.
Le persone che vivono con l'HIV sono a maggior rischio di infezioni comunitarie o opportunistiche, ma non sembrano essere a maggior rischio di COVID-19 grave, probabilmente a causa del loro uso di ART. La terapia antiretrovirale è stata proposta come fattore protettivo contro la sindrome respiratoria acuta grave (SARS) nel 2003, ma il piccolo numero di casi non ha permesso di trarre conclusioni [1].
Gli inibitori della proteasi, una classe di farmaci antivirali usati per trattare l'HIV, agiscono bloccando un enzima critico (chiamato proteasi) di cui i virus hanno bisogno per replicarsi e infettare più cellule. Sebbene non sia stato dimostrato che curino le infezioni da COVID-19 nella popolazione generale, la loro efficacia nel prevenire il COVID-19 è sconosciuta.
Per esplorare ulteriormente questo aspetto, Nguala e colleghi hanno condotto uno studio di coorte multicentrico in sei ospedali dell'Ile-de-France per valutare l'impatto dell'uso a lungo termine di PI nei pazienti con HIV sull'incidenza di COVID-19. Tra il 1 maggio 2020 e il 31 maggio 2021, hanno arruolato 169 persone con HIV che sono state trattate con ART con PI e 338 pazienti con HIV che hanno assunto ART senza PI . A nessuno dei partecipanti era stato precedentemente diagnosticato il COVID-19, l'età media era di 50 anni (48% femmine; 52% maschi).
Tra i partecipanti in trattamento con PI, oltre i tre quarti stavano assumendo darunavir/ritonavir (131/169; 77%), circa l'8% stava assumendo atazanavir/ritonavir (14/169) e il resto è stato trattato con altri PI (24/ 169;14%). In media, assumevano PI da almeno un anno.
Tutti i pazienti sono stati sottoposti a regolari valutazioni cliniche e screening per COVID-19 durante il consueto follow-up dell'HIV (ogni 6 mesi). La modellazione è stata eseguita per identificare potenziali fattori di rischio associati a COVID-19.
In un anno di follow-up (con alcuni pazienti persi al follow-up in entrambi i gruppi) il 12% (18/153) dei partecipanti che assumevano PI e il 22% (61/283) di quelli nel gruppo non PI ha contratto COVID- 19 accertato da sierologia SARS-COV-2 positiva a fine studio; e quattro pazienti nel gruppo non PI sono stati ricoverati in ospedale con COVID-19.
Dopo aver aggiustato i fattori legati all'aumento del rischio di COVID-19 tra cui sesso, età, numero di cellule CD4, numero di persone che vivono nella famiglia, contatto con un caso positivo di COVID-19, i ricercatori hanno scoperto che i pazienti nel gruppo degli inibitori della proteasi avevano il 70% in meno di probabilità di essere infettati da COVID-19 rispetto a quelli del gruppo non PI.
I pazienti di entrambi i gruppi che erano stati in contatto con COVID-19 nei 14 giorni precedenti la loro consultazione avevano il doppio delle probabilità di risultare positivi al COVID-19; mentre quelli che vivevano nella stessa famiglia con almeno altre tre persone avevano tre volte più probabilità di risultare positivi; e coloro che avevano perso il senso del gusto avevano sei volte più probabilità di essere diagnosticati con COVID-19 (vedi tabella nelle note ai redattori).
“I farmaci inibitori della proteasi hanno una lunga storia di utilizzo, un buon profilo di sicurezza e sono generalmente ben tollerati. Attaccando il virus prima che abbia la possibilità di moltiplicarsi, offrono potenzialmente un'opportunità per prevenire la diffusione di infezioni e la mutazione di future varianti- afferma il dottor Nguala- La minore incidenza di COVID-19 tra i pazienti trattati con un regime a base di inibitori della proteasi solleva la questione di un effetto preventivo che dovrebbe essere ulteriormente studiato. Per confermare questi risultati preliminari sono necessari ulteriori studi con un numero maggiore di pazienti e in studi randomizzati su persone senza HIV. La sfida sarà produrre dati solidi in un periodo limitato che possano ispirare nuove strategie di prevenzione o terapeutiche”.
Antonio Caperna
Il vaccino Novavax come possibile booster eterologo. E' stato inserito in due studi che ne valutano l'impiego come dose da somministrare dopo un ciclo primario effettuato con altri prodotti-scudo contro Sars-CoV-2.
Lo annuncia la società americana che ha messo a punto il vaccino proteico NVX-CoV2373 (il Nuvaxovid*), spiegando che i due trial valuteranno la sicurezza, l'immunogenicità e la reattogenicità del prodotto come richiamo dopo vaccini Covid-19 diversi.
"Ulteriori studi sulla dose booster sono importanti per supportare la scelta del vaccino tra i cittadini, gli operatori sanitari e le autorità sanitarie pubbliche", dichiara Filip Dubovsky, Chief Medical Officer di Novavax. "Non vediamo l'ora di aggiungere queste nuove evidenze per supportare l'uso ampliato del nostro vaccino proteico", aggiunge.
Il primo studio - dettaglia la compagnia - è un trial di fase 1/2 sostenuto dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid) statunitense, che valuterà NVX-CoV2373 in adulti sani over 18 dopo almeno 12 settimane da un ciclo primario con uno dei 3 prodotti autorizzati dall'Agenzia americana del farmaco Fda (Pfizer/BioNTech, Moderna e Janssen-J&J).
I partecipanti saranno seguiti per 12 mesi. I primi dati sono attesi entro fine anno e i risultati completi nel 2023. Il secondo studio è un trial di fase 3 condotto negli Emirati Arabi Uniti, su over 18 immunizzati con il vaccino anti-Covid inattivato della cinese Sinopharm. I partecipanti saranno seguiti per 6 mesi e i risultati completi sono attesi nel quarto trimestre del 2022.
Un mix di fattori, che vanno dall'età alla presenza di particolari parametri del sangue, crea la 'tempesta perfetta', che aumenta il rischio di trombosi nei pazienti Covid. Trombosi che rappresenta una delle principali cause di mortalità dell'infezione da Sars-CoV-2.
A scoprirlo sono due studi italiani, condotti da un gruppo di ricercatori della Sapienza Università di Roma, coordinato Francesco Violi del Dipartimento di Medicina interna e Specialità mediche. Due ricerche che aprono alla possibilità di riconoscere i malati di Covid-19 a maggior rischio di trombosi e avere indicazioni più precise per ottimizzare la terapia anticoagulante. Uno dei due lavori è pubblicato su 'Thrombosis and Haemostasis', l'altro è in pubblicazione su 'Haematologica'.
L'elevato rischio di trombosi - ricorda una nota della Sapienza - può presentarsi, nelle persone ricoverate per l'infezione da Sars-CoV-2, sia nel distretto venoso in forma di trombosi venosa profonda o embolia polmonare, sia in quello arterioso in forma di infarto del miocardio o ictus. Circa il 20% dei pazienti Covid può andare incontro a queste gravi complicanze durante il ricovero. Le ricerche del gruppo romano permettono di fare un passo in avanti.
In particolare, il primo lavoro è stato uno studio multicentrico che ha incluso 674 pazienti Covid-19, nel quale la combinazione di tre semplici variabili quali età, albumina serica e livelli di D-dimero, uno dei frammenti proteici della fibrina, responsabile della formazione di coaguli (trombi) nei vasi sanguigni, ha permesso di identificare i pazienti con maggior rischio di trombosi. E' stato visto che coloro che avevano una combinazione di età elevata (più di 70 anni), bassa albumina e D-dimero elevato avevano una maggiore probabilità di trombosi, rispetto a pazienti di età inferiore e con valori normali di albumina e D-dimero. "Avendo a disposizione questo semplice punteggio, chiamato Ada score - spiega Violi - è adesso possibile stabilire chi è a maggiore rischio di trombosi e che ha necessità di un trattamento anticoagulante".
Il secondo lavoro - prosegue la nota - risponde a una problematica ancora dibattuta dopo 2 anni dall'inizio della pandemia, ovvero se la prevenzione di questi eventi trombotici vada fatta con una terapia anticoagulante standard o con dosi profilattiche, cioè basse. Un aspetto rilevante in quanto le basse dosi di anticoagulante, che tutt'oggi sono la terapia più usata, potrebbero essere insufficienti a ridurre il rischio di trombosi.
Il team di ricercatori ha effettuato una meta-analisi degli studi che hanno confrontato i due tipi di trattamento, dimostrando che le dosi standard di anticoagulanti sono più adatte delle dosi profilattiche nel ridurre gli eventi trombotici senza aumentare il rischio di emorragie serie.
"La metanalisi, che ha incluso circa 4.500 pazienti Covid-19 - conclude Violi - dimostra come questa terapia rappresenterebbe un utile supporto non solo per ridurre gli eventi trombotici, ma anche a mortalità, che purtroppo rimane ancora elevata fra questi soggetti".
"Come per tutte le malattie infettive, anche per il Covid-19 la predisposizione a contrarre l'infezione in forma più o meno grave è determinata da un insieme di fattori che sono in parte di natura genetica ed in parte di natura ambientale.
I fattori genetici sicuramente influiscono nel determinare un'aumentata suscettibilità all'infezione oppure, al contrario, possono contribuire a rendere un soggetto resistente o, se vogliamo, immunotollerante rispetto ad un determinato agente infettivo. Il nostro obiettivo è scoprire anche per il Covid chi sono questi soggetti". Giuseppe Novelli, responsabile della Genetica medica al Policlinico Tor Vergata di Roma, autore di uno studio sull'immunità naturale al Covid-19, all'agenzia Dire ha spiegato quali meccanismi sono alla base di questa 'risposta innata di alcune persone' e ha inoltre affrontato il rapporto tra vaccino e genoma.
"Prendiamo l'Hiv per esempio: il virus- ha chiarito l'esperto- utilizza dei recettori di parete come porta di ingresso all'interno della cellula, tra cui CCR5, espresso sulla superficie dei linfociti. Ci sono persone che presentano una mutazione inattivante a livello di questo recettore, che pertanto non funziona. Dunque, questi soggetti diventano resistenti ai ceppi di Hiv, che hanno bisogno di legarsi a CCR5 per infettare la cellula". Una sorta di trincea naturale: "La difesa immunitaria, semplificando, è composta principalmente da tre ordini di difesa: una barriera fisica, una difesa chimica, ed una risposta biologica. L'immunità innata- ha sottolineato Novelli- rappresenta la prima linea di difesa, messa in atto dal nostro corpo nei confronti di un agente esterno. È definita innata, perché aspecifica, uguale per tutti gli agenti patogeni e soprattutto non selettiva. Ovviamente, deficit a carico del sistema immunitario innato comportano una condizione, che facilita enormemente l'ingresso del patogeno all'interno dell'organismo, ma non sempre un'aumentata risposta comporta un sistema difensivo maggiore. Sappiamo ormai tutti che esistono le cosiddette patologie autoimmuni. Anche nel Covid-19, in molti pazienti, soprattutto i più giovani, gli esiti della malattia sono causati da un'eccessiva attivazione del sistema immunitario. Una sorta di iperinfiammazione.
Diversa, invece, è l'immunità adattativa o specifica. In questo caso, l'organismo ha avuto modo di 'conoscere' il patogeno, di studiarlo. Ciò permette alle nostre cellule di rispondere in maniera efficace e specifica, attraverso la produzione sia di anticorpi, e da qui anche l'importanza della terapia con gli anticorpi monoclonali, sia di cellule di memoria. Anche in questo caso, una maggiore risposta non è sinonimo di una maggiore immunità. L'immunità innata e quella specifica non devono essere considerati due step consecutivi, ma agiscono sinergicamente- ha sottolineato- e sono in equilibrio dinamico fra di loro". E il rapporto tra questi nuovi vaccini e il genoma? "I vaccini ad mRNA non hanno alcun impatto sul genoma del ricevente. E' stato di recente dimostrato- ha detto il genetista- soltanto per il vaccino Pfizer, di alcune reazioni avverse lievi come brividi, febbre, affaticamento e malessere più presenti nei soggetti con alcune caratteristiche genetiche: presenza del marcatore HLA A*03:01, ma questo è piuttosto comune per molti farmaci".
Novelli ha risposto anche sulla questione dell'opportunità di una campagna vaccinale di massa. "La Covid-19 è una malattia complessa e multifattoriale e il virus è solo il trigger (l'innesco). In ogni pandemia- ha ricordato- i fattori principali in gioco sono tre: il patogeno, l'ospite, e l'ambiente. Il patogeno è importante perché muta e varia; l'ospite perché altrimenti non avremmo asintomatici, moderati, e malati gravi e questo dipende almeno nel 1% dei casi dai geni che producono interferone. E poi l'ambiente inteso come stile di vita, patologie associate etc... Il rischio dei vaccini è minimo in confronto al rischio di malattia, che è molto più grave. Ormai abbiamo numeri incredibili che dimostrano questo senza ombra di dubbio".
Un principio che secondo Novelli vale quindi per tutti anche per chi, per stato di salute, incorrerebbe in minor pericolo in caso di Covid-19. E per le persone che hanno mutazioni patogenetiche, come il BRCA? "A mia conoscenza- ha chiarito Novelli- la materia non è oggetto di studio. Non vedo il razionale e senza razionale non si fa ricerca". E ha aggiunto: "Non vi è alcuna correlazione con questo gene o altri geni di rischio oncologico".
I pazienti oncologici in trattamento sono più vulnerabili alla disinformazione sul Covid-19 molto diffusa on line, soprattutto nei social network. Al contrario, le persone colpite dal cancro, ma che hanno terminato le cure, sono meno esposte al rischio di incorrere in fake news.
Lo evidenzia uno studio su quasi 900 pazienti (“Endorsement of COVID-19 Related Misinformation Among Cancer Survivors”), pubblicato recentemente su “Patient Education and Counseling”. Dall’altro lato, i clinici sembrano non cogliere il bisogno di fonti certificate. Infatti un’altra indagine su più di 500 persone colpite da tumore ha evidenziato che internet è un punto di riferimento per 3 pazienti su 4, ma appena il 5% ha ricevuto dal proprio oncologo un consiglio su dove approfondire tematiche legate alla propria salute. E uno studio, condotto dall’Università Politecnica delle Marche su 75 operatori sanitari, ha mostrato come la metà non abbia ricevuto una specifica formazione in ambito comunicativo ma il 93,4% voglia acquisire o migliorare le proprie capacità in questo settore.
Proprio ad Ancona, all’Università Politecnica delle Marche, il 16 giugno partirà il primo corso di perfezionamento universitario in “Comunicare il cancro, la medicina e la salute”. Sono disponibili 50 posti, si svolgerà online con cadenza settimanale, avrà durata semestrale e la scadenza per la presentazione delle domande di partecipazione è il 19 aprile. I contenuti sono presentati oggi in una conferenza stampa virtuale.
“Per sconfiggere il cancro abbiamo bisogno di molte armi, non solo quelle fondamentali e insostituibili della medicina e della ricerca scientifica – afferma Rossana Berardi, Ordinario di Oncologia Medica all’Università Politecnica delle Marche, Direttore della Clinica Oncologica Ospedali Riuniti di Ancona e membro del Direttivo Nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) -. È anche indispensabile fornire corrette informazioni e non cadere nelle trappole della disinformazione. In ambito oncologico, soprattutto in questo periodo di pandemia da Covid-19, la cattiva informazione è più deleteria che in altri campi, perché impatta sulla salute e, potenzialmente, sui pazienti, che possono essere indotti ad assumere decisioni sbagliate per il loro percorso di cura. Il corso di perfezionamento, attraverso una formazione accademica, vuole formare operatori sanitari e divulgatori trasmettendo le regole fondamentali per comunicare non solo il cancro, che rappresenta il paradigma delle malattie anche per il suo grande impatto emotivo, ma più in generale la medicina e la salute”.
Il corso è promosso dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche, in collaborazione con WHIN (Web Health Information Network, Associazione informazione medico-sanitaria web). I requisiti di accesso sono rappresentati dal diploma di laurea triennale o magistrale o da un titolo di studio equiparabile conseguito all’estero. Sono previste circa 160 ore di lezione e oltre 35 di tirocinio. Il corso di perfezionamento è parte di un progetto più ampio, ‘comunicareilcancro’, che prevede un portale dedicato (www.comunicareilcancro.it) e profili sui principali social.
“Il nostro obiettivo è fornire gli strumenti per divulgare informazioni corrette in ambito oncologico e non solo, partendo dall’utilizzo di fonti sicure ed efficaci – sottolinea Mauro Boldrini, Direttore Comunicazione AIOM -. Ad esempio, non va più utilizzata l’equazione ‘tumore uguale male incurabile’. Oggi, nel nostro Paese, il 65% delle donne e il 59% degli uomini sono vivi a 5 anni dalla diagnosi. E sempre più persone possono affermare di avere superato la malattia. Una comunicazione efficace sui social media può contribuire anche ad arginare il fenomeno preoccupante delle fake news. Troppo spesso internet e, in particolare, i social network sono regno di cattiva informazione per quanto riguarda i tumori e, più in generale, la salute. Si pensi alle vaccinazioni: tutto il pensiero ‘contro’ viaggia proprio sui social, che vengono utilizzati come veicolo per teorie prive di basi scientifiche da tanti ‘no vax’”.
Tra i principali insegnamenti del corso di perfezionamento, rientrano l’Oncologia Clinica, l’Igiene Generale ed Applicata, la Neurologia, la Medicina Narrativa, l’Organizzazione aziendale in ambito sanitario, la Storia della Comunicazione in Medicina, la Medicina Legale, il Team working e la comunicazione delle vittorie e delle sconfitte, fino alla comunicazione efficace in radio, in TV, sui giornali online e cartacei e alle regole per gestire la notizia e realizzare un’intervista.
“L’Università ha il compito di formare i professionisti sanitari e la comunicazione della salute deve rientrare nel percorso di studio degli operatori – spiega Mauro Silvestrini, Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche -. Il corso di perfezionamento intende fornire strumenti a 360 gradi. I media, in particolare i social network, offrono un’opportunità importante per porre i pazienti al centro del sistema salute: consentono infatti di recuperare la fiducia dei cittadini, di interagire e utilizzare strumenti, come lo storytelling, per generare un dialogo”.
“I social media possono avere un impatto importante nella gestione di malattie croniche come i tumori – continua la prof.ssa Berardi -. I pazienti oncologici utilizzano i social network per far parte di una comunità, per sentirsi meno soli e per cercare informazioni. Il confronto con chi si trova in condizioni simili genera aspettative positive e può favorire i comportamenti corretti degli altri pazienti. Anche gli operatori sanitari devono conoscere le regole di questi strumenti per utilizzarli in modo appropriato. Inoltre, i social media possono contribuire a modificare gli stili di vita, abbandonando abitudini pericolose per la salute come il fumo di sigaretta, la sedentarietà e la dieta scorretta. Un esempio è quello della Mayo Clinic, l’organizzazione americana che gestisce circa 70 ospedali negli Stati Uniti ed è al top a livello mondiale per gli standard medici. Questa istituzione promuove, attraverso piattaforme social, attività di sensibilizzazione e prevenzione. Sempre a livello internazionale, anche il National Cancer Institute è un ottimo esempio di come si possano utilizzare gli strumenti digitali per fare prevenzione. Il corso di perfezionamento si ispira a questi esempi virtuosi”.
“Il potere della comunicazione e, più in generale, della parola è assolutamente sottovalutato – conclude Marcello D’Errico, Ordinario di Igiene all’Università Politecnica delle Marche -. Studi di neurofisiologia dimostrano come alcune parole piuttosto che altre sono in grado di attivare specifiche aree del cervello alla stessa stregua dei farmaci. Gli operatori sanitari spesso sottovalutano il potere della comunicazione, come strumento irrinunciabile nel guidare le decisioni e scelte terapeutiche dei pazienti, che non solo non hanno gli strumenti culturali per decidere da soli, ma che peraltro sono gravati dal peso emotivo della malattia che li mette in una condizione di ulteriore fragilità. La corretta informazione va considerata un vero e proprio dovere degli operatori sanitari, a cui si somma la dimensione etica: è infatti fondamentale per il progredire della conoscenza e può svolgere un’importante funzione educativa. Più prevenzione si traduce infatti in meno casi di cancro e in un maggior numero di diagnosi precoci. In questo scenario, l’attivazione del corso di perfezionamento, che insegna a ‘scegliere con cura le parole da non dire’ come diceva Alda Merini, ha un valore aggiunto in una società che per definizione è basata sulla comunicazione, in tutte le sue forme”.
Quando nel 2020 l'onda del primo tsunami di malati gravi di Covid si è ritirata, erano in molti a sperimentare la totale assenza di olfatto per lunghi mesi.
Poi sono arrivate le varianti di Sars-CoV-2 e qualcosa è cambiato. Con l'Alfa molti meno parlavano di questo sintomo così caratteristico del nuovo coronavirus, e molti di più condividevano invece l'esperienza di dolori, nebbia mentale, ansia e depressione. E così via, a ogni variante il suo Long Covid: a suggerirlo è uno studio italiano che mostra anche come a essere più colpite da sindromi post infezione sono le donne, quasi il doppio degli uomini. Mentre a sorpresa le persone con diabete di tipo 2, fra le più duramente colpite dal virus, sembrano meno a rischio di lunghe sequele.
La nuova ricerca sarà presentata al Congresso europeo di microbiologia clinica e malattie infettive (Eccmid), in programma ad aprile a Lisbona, in Portogallo. Michele Spinicci e colleghi dell'università degli Studi di Firenze e dell'Azienda ospedaliero universitaria Careggi suggeriscono che i sintomi legati al Long Covid potrebbero essere dunque diversi nelle persone che sono contagiate con diverse varianti. Le stime indicano che oltre la metà dei sopravvissuti all'infezione da Sars-CoV-2 sperimenta sequele nella fase post acuta di Covid. La condizione di Long Covid può colpire chiunque: anziani e giovani, sani e con malattie preesistenti. E' stata osservata in persone ricoverate in ospedale e in quelle con sintomi lievi.
Nonostante cresca la letteratura sulla malattia, il Long Covid rimane poco compreso, riflettono gli autori. Il lavoro condotto è uno studio osservazionale retrospettivo che ha coinvolto 428 pazienti - 254 (59%) uomini e 174 (41%) donne - trattati nell'ambulatorio post-Covid del Careggi tra giugno 2020 e giugno 2021, quando il virus originario e la variante Alfa stavano circolando nella popolazione. I pazienti presi in esame erano stati dimessi dall'ospedale 4-12 settimane prima di presentarsi al servizio ambulatoriale per la visita e di completare un questionario sui sintomi persistenti (mediana di 53 giorni dopo le dimissioni). Inoltre, dalle cartelle cliniche elettroniche sono stati ottenuti dati sull'anamnesi, sul decorso microbiologico e clinico di Covid e sui dati demografici dei pazienti.
Circa tre quarti, il 76% (cioè 325 su 428), hanno riportato almeno un sintomo persistente. I sintomi più comuni riportati sono stati mancanza di respiro (37%) e affaticamento cronico (36%) seguiti da problemi di sonno (16%), problemi visivi (13%) e nebbia cerebrale (13%). Le analisi suggeriscono che le persone con forme più gravi, che hanno richiesto l'uso di farmaci immunosoppressori come tocilizumab, avevano 6 volte più probabilità di riportare sintomi di Long Covid. Chi ha ricevuto un supporto di ossigeno ad alto flusso aveva il 40% in più di probabilità di avere problemi di lungo corso. Le donne avevano quasi il doppio delle probabilità di riferire sintomi di Long Covid rispetto agli uomini. I pazienti con diabete di tipo 2 sembravano avere un rischio inferiore. Gli autori precisano che sono necessari ulteriori studi per comprendere meglio questa scoperta inaspettata.
Nell'ambito della ricerca è stata eseguita una valutazione più dettagliata, confrontando i sintomi segnalati dai pazienti infetti tra marzo e dicembre 2020 (quando era dominante il virus originale) con quelli segnalati dai pazienti infetti tra gennaio e aprile 2021 (quando l'Alfa era la variante dominante), ed è così che si è scoperto un cambiamento sostanziale nel modello dei problemi neurologici e cognitivi/emotivi sperimentati nel post Covid. I ricercatori hanno rilevato che, quando a dominare era Alfa, la prevalenza di mialgia (dolori muscolari), insonnia, nebbia cerebrale e ansia/depressione aumentava significativamente, mentre l'anosmia (perdita dell'olfatto) e disgeusia (difficoltà a deglutire), così come i problemi di udito erano meno comuni.
"Molti dei sintomi riportati in questo studio sono stati misurati, ma questa è la prima volta che sono stati collegati a diverse varianti", fa notare Spinicci. Gli autori riconoscono che lo studio è stato osservazionale e non dimostra causa ed effetto, ma accende i fari su un problema non di poco conto. "La lunga durata e l'ampia gamma di sintomi - conclude Spinicci - ci ricordano che il problema non sta scomparendo e che dobbiamo fare di più per supportare e proteggere questi pazienti a lungo termine. La ricerca futura dovrebbe concentrarsi sui potenziali impatti delle varianti preoccupanti e sullo stato della vaccinazione sui sintomi in corso".
Via libera dell'Agenzia europea del farmaco Ema alla combinazione di anticorpi monoclonali Evusheld*, sviluppata dall'anglo-svedese AstraZeneca per la prevenzione di Covid-19 negli adulti e negli adolescenti dai 12 anni d'età (che pesano almeno 40 kg).
Il farmaco è pensato per essere somministrato prima della potenziale esposizione al virus Sars-CoV-2. A dare notizia del verdetto positivo è stato l'ente regolatorio Ue.
Il Comitato per i medicinali a uso umano Chmp dell'Ema si è espresso oggi raccomandando di concedere l'autorizzazione all'immissione in commercio del mix di monoclonali tixagevimab e cilgavimab, progettati per legarsi alla proteina Spike di Sars-CoV-2 in due diversi siti. Quando lo fanno, il virus non può entrare nelle cellule per moltiplicarsi e non è in grado di causare l'infezione.
"I risultati di uno studio pubblicato sul 'New England Journal of Medicine' non depongono a favore della somministrazione di una quarta dose in soggetti giovani e sani a causa di una bassa efficacia nei confronti delle infezioni sintomatiche.
Per la popolazione over 60 sono disponibili dati pre-print di uno studio israeliano: l’effetto protettivo della quarta dose sembra manifestarsi soprattutto nelle persone più anziane, in particolare over 80, mentre appare modesto nella fascia 70-79 anni ed esiguo in quella 60-69", afferma la Fondazione Gimbe nel suo ultimo monitoraggio.
Vaccino anti Covid, "al 23 marzo sono state somministrate 47.794 quarte dosi. In base alla platea ufficiale (791.376), aggiornata al 9 marzo, il tasso di copertura nazionale per le quarte dosi è del 6% con nette differenze regionali: dallo 0,5% della Calabria al 30,4% della Piemonte.
La campagna vaccinale è al palo e serve una forte spinta per non compromettere roadmap riaperture". E' l'allarme che lancia la Fondazione Gimbe nel suo ultimo monitoraggio. "Delle 7.338.927 persone che non hanno ancora ricevuto la dose booster, 2,53 milioni potrebbero riceverla subito, mentre gli oltre 4,8 milioni di guariti da meno di 120 giorni non sono candidati a riceverla nell’immediato", ricorda il report.
Al 23 marzo "sono ancora 6,96 milioni le persone che non hanno ricevuto nemmeno una dose di vaccino, di cui 2,45 milioni temporaneamente protette in quanto guarite da Covid-19 da meno di 180 giorni. Di conseguenza - avverte Gimbe - le persone attualmente vaccinabili sono circa 4,51 milioni, un dato che non tiene conto delle esenzioni di cui non si conosce il numero esatto".
"Tutti i dati dimostrano che la campagna vaccinale è ormai in una fase di stallo – sottolinea Nino Cartabellotta, presidente Fondazione Gimbe - nonostante vi siano attualmente oltre 4,5 milioni di persone vaccinabili con prima dose e 2,5 milioni con dose booster. I tassi di copertura vaccinali, infatti, nell’ultimo mese hanno registrato incrementi davvero esigui".
Risale, dopo sette settimane di costante discesa, la curva dei ricoveri ordinari di pazienti Covid.
Nell'ultima settimana il numero dei ricoverati in aree Covid è cresciuto del 10,7%. L'incidenza maggiore con un +15% la fanno segnare sud e isole. Registra invece un calo del 20,7% il numero dei pazienti Covid nelle terapie intensive.
È quanto emerge dalla rilevazione negli ospedali sentinella della Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere del 22 marzo. I ricoveri, in discesa dal 1° febbraio, avevano registrato la scorsa settimana ancora un complessivo calo del 5,2%.
Negli ospedali il numero dei ricoverati "Con Covid" nei reparti ordinari, supera il numero dei pazienti arrivati in ospedale con sindrome respiratoria, quindi dei pazienti ricoverati "Per Covid". Il 54% degli attuali ricoverati nei reparti ordinari in area medica è arrivato in ospedale "Con Covid", ovvero per curare altre patologie ma è stato trovato incidentalmente positivo al virus grazie al tampone pre-ricovero.
Rispetto al 46% dei ricoveri "Per Covid", strettamente legati agli effetti della malattia da Coronavirus, che comunque registrano una crescita nell'ultima settimana del 11%.
"Si riflettono sulle ospedalizzazioni gli effetti della risalita della curva dei contagi. L'aumento dei ricoverati Con Covid, pazienti in cura per altre patologie ma positivi al virus, è indice dell'intensa circolazione del virus nella popolazione.
Gli ospedali tuttavia ormai da tempo hanno organizzato reparti multidisciplinari per poter assistere questo tipo di pazienti complessi che richiedono un'assistenza specialistica e percorsi definiti per la minimizzazione del rischio infettivo. Occorre ancora prestare la massima attenzione soprattutto nei luoghi chiusi, indossare la mascherina e non confondere la fine dello stato di emergenza con la fine della pandemia", dichiara il presidente di Fiaso, Giovanni Migliore.
In terapia intensiva la riduzione in una settimana è stata del -20,3%. Dei pazienti in rianimazione il 72% non è vaccinato o non ha completato il ciclo vaccinale. L'età media dei non vaccinati rimane più bassa rispetto ai vaccinati. L'età minima dei ricoverati tra i vaccinati è di 50 anni, tra i non vaccinati il paziente più giovane ha 36 anni. "Questa costante diminuzione- aggiunge il presidente Fiaso- è una conferma di come la vaccinazione protegga dalle forme gravi del Covid. È importante anche sottolineare che il 70% dei pazienti in rianimazione presenta altre gravi patologie pregresse. Per questi pazienti con fragilità è quanto mai necessario completare il ciclo di vaccinazione o sottoporsi se indicato alla quarta dose".
Torna a flettersi la curva dei ricoveri pediatrici registrando un -6% nell'ultima settimana, dopo l'impennata registrata tra gli under18 nella settimana 8-15 marzo che aveva fatto segnare un +48%. Dei piccoli pazienti ricoverati nei 4 ospedali pediatrici e nei reparti di pediatria degli ospedali sentinella che aderiscono alla rete Fiaso nessuno è in terapia intensiva.
La classe di età più colpita come sempre è quella fra 0 e 4 anni (54%). Circa la metà dei bambini fra 0 e 6 mesi hanno entrambi i genitori non vaccinati o la madre non vaccinata. E anche nei bambini di età superiore a 12 anni in ospedale, il 50% risulta non vaccinato.
"Desta ancora preoccupazione il dato sulle vaccinazioni pediatriche. La circolazione intensa della variante Omicron 2 che colpisce proprio i soggetti meno vaccinati espone i più piccoli a rischi di contagio importanti. Per questo motivo invito i pediatri a continuare l'opera di sensibilizzazione alla vaccinazione, anche dei genitori. È l'unica forma di protezione possibile per i più piccoli", conclude il presidente Fiaso, Giovanni Migliore.
Neonati e bambini, che hanno sperimentato l'infezione da Sars-CoV-2, "hanno livelli significativamente più alti di anticorpi" contro il virus rispetto agli adulti. E' quanto emerge da uno studio condotto da scienziati della Johns Hopkins University Bloomberg School of Public Health, in collaborazione con gli statunitensi Cdc (Centers for Disease Control and Prevention).
I risultati della nuova ricerca, pubblicati online sulla rivista 'Jci Insight', differiscono da precedenti rilevazioni che invece segnalavano basse risposte nei bimbi esposti a Covid. Il lavoro in questione suggerisce al contrario che i piccoli tendono ad avere "forti risposte anticorpali" dopo essersi infettati con il coronavirus pandemico.
L'analisi si basa su campioni prelevati da 682 bambini e adulti di 175 famiglie del Maryland, che hanno partecipato a uno studio di sorveglianza sul contagio in ambienti domestici e che non avevano in quel momento ancora ricevuto un vaccino anti-Covid. I partecipanti avevano un'età compresa tra 0 e 62 anni e i campioni sono stati raccolti tra novembre 2020 e marzo 2021. I ricercatori hanno trovato prove di anticorpi anti-Sars-CoV-2, che indicano una precedente infezione con il virus, in 56 persone provenienti da 22 famiglie. Di queste, 15 erano bambini di età compresa tra 0 e 4 anni, e il più piccolo un bebè di appena 3 mesi. Altri 13 erano bambini e ragazzi di età compresa tra 5 e 17 anni, e 28 erano adulti over 18.
Gli anticorpi verso un sito chiave della proteina spike del virus, il 'dominio di legame del recettore' (Rbd), erano presenti a livelli molto più elevati nei bambini rispetto agli adulti: più di 13 volte più alti nei bambini di età compresa tra 0 e 4 anni e quasi 9 volte superiore nei 5-17enni. E i livelli di anticorpi neutralizzanti Sars-CoV-2, che possono aiutare a prevedere la protezione contro Covid grave, erano quasi il doppio nei bambini di 0-4 anni rispetto agli adulti. Nella maggior parte dei nuclei in cui sia i piccoli che i grandi avevano anticorpi, i 0-4 anni avevano i livelli più alti di anticorpi diretti contro Rbd di Sars-CoV-2 e di anticorpi neutralizzanti fra tutti i membri della famiglia.
"Questo studio dimostra che anche i bambini nei primi anni di vita hanno la capacità di sviluppare forti risposte anticorpali" a questa infezione, risposte che "in alcuni casi superano le risposte degli adulti", afferma Ruth Karron, ricercatrice principale e direttore della Johns Hopkins Vaccine Initiative presso la Bloomberg School.
Karron e colleghi hanno istituito il loro studio prospettico di sorveglianza domestica (Search-Sars-CoV-2 Epidemiology And Response in Children) per saperne di più sull'infezione negli under 5, popolazione relativamente poco studiata. Nessuna delle persone oggetto dell'analisi è stata ricoverata per Covid. "Questi risultati - conclude Karron - dovrebbero fornire una certa rassicurazione sul fatto che con le dosi di vaccino appropriate possiamo immunizzare efficacemente i bambini molto piccoli contro Sars-CoV-2".
Karron e colleghi stanno continuando ad analizzare i campioni di follow-up dei protagonisti dell'analisi e di chi si è infettato durante lo studio Search, per capire di più sulla qualità delle risposte anticorpali e per vedere quanto sono durature nel tempo. Lo studio è stato finanziato dai Cdc.
Con la massima portata di ricambio dell'aria (impianti più potenti che garantiscono sei o più ricambi-ora) gli impianti di ventilazione meccanica controllata installati in un ambiente chiuso abbattono più dell'80% il rischio di infezione da Covid-19.
Lo certifica uno studio condotto dalla Fondazione David Hume in collaborazione con la Regione Marche i cui risultati sono stati presentati oggi, dal professor Luca Ricolfi, presidente della Fondazione Hume e docente di Analisi dei dati all'Università di Torino e dal professor Giorgio Buonanno, docente di Fisica tecnica ambientale all'Università di Cassino e alla Queensland University, nel corso di una conferenza stampa a cui hanno presto parte tra gli altri il governatore Francesco Acquaroli e gli assessori regionali Francesco Baldelli, Giorgia Latini e Filippo Saltamartini.
Uniche in Italia le Marche fin dal gennaio 2021 hanno investito risorse proprie (9 milioni di euro) per installare impianti di ventilazione meccanica controllata nelle scuole ed hanno destinato ulteriori fondi (3 milioni) per attrezzare le aule con sanificatori. L'indagine, svolta dal 13 settembre 2021 al 31 gennaio 2022, ha coinvolto 10.441 classi marchigiane, di cui 10.125 senza impianto e 316 con impianto. "Lo studio ha evidenziato che l'impatto della ventilazione meccanica controllata nell'abbattere la carica virale nell'aria, è molto forte e statisticamente significativo- dice il professore Ricolfi-. Ma il risultato più significativo registrato è quello dell'impatto della Vcm: maggiore è il ricambio dei volumi dell'all'aria, maggiori sono i risultati della riduzione della contaminazione. Non basta mettere un apparecchio Vcm ma occorre collocarne un numero di portata massima adeguata. Si è visto poi che le classi più numerose hanno un rischio individuale più alto del 30-40% di contaminazione rispetto a quelle piccole".
Le domande presentate per l'installazione di impianti di ventilazione meccanica nelle Marche sono state 187 per un totale di 3.027 aule distribuite in 323 scuole marchigiane di ogni ordine e grado. La Regione intende soddisfare tutte le domande pervenute. Con le risorse attualmente stanziate installerà gli impianti in oltre 2.200 aule (20% del totale). "Il fattore di abbattimento assicurato dalla Vcm è paragonabile a quello del vaccino- conclude Ricolfi- molto efficace e insostituibile come protezione dalla malattia ma meno dal punto di vista della trasmissione. In sostanza la Vcm ben fatta, ha una capacità di contenimento della circolazione del virus doppia rispetto al vaccino". Secondo il professor Buonanno infine "quella portata avanti dalla Regione Marche è un'iniziativa virtuosa a livello nazionale".
"Non è che con la fine dello stato di emergenza il nostro Paese è fuori dalla pandemia". E' il monito lanciato dal sottosegretario alla Salute Andrea Costa, intervenuto a 'Sky Tg24', invitando a fare attenzione e lanciando ancora una volta "l'appello a continuare a vaccinarsi e a ricevere i richiami".
Per Costa si deve guardare alle prossime settimane con "prudenza, senso di responsabilità ma anche con un sentimento di fiducia". Ma il sottosegretario tiene a ribadire che la pandemia non è finita. Anche per quanto riguarda la struttura commissariale, aggiunge, "non vi è più il commissario Figliuolo alla guida, ma la struttura rimane. Tutta la rete e la logistica, che è stata importante in questi anni, rimane ed è a disposizione del Paese, pronta a intervenire qualora fosse necessario. Non è che smantelliamo tutto e con la fine dell'emergenza siamo fuori dalla pandemia. I numeri ci dicono che siamo ancora in pandemia".
"C'è un incremento dei contagi" in Italia, "ma fortunatamente non vi è un aumento per quanto riguarda la pressione sui nostri ospedali- sottolinea - Questo è il dato che dobbiamo osservare con maggiore attenzione e dobbiamo completare una fase che è determinante e decisiva: cioè completare la somministrazione della dose booster per circa 7 milioni di italiani ancora. Anche perché le evidenze scientifiche ci dicono come sia proprio la terza dose che ci protegge di più dalle conseguenze gravi della malattia".
"Diventa fondamentale completare le vaccinazioni e anche l'allentamento delle misure è un segnale che viene dato soprattutto per chi non si è vaccinato - continua Costa - Perché per tutti quelli che si sono vaccinati non vi è ormai più nessuna restrizione da tempo nel nostro Paese. E se oggi" l'Italia "torna alla normalità, dobbiamo dire grazie alla maggioranza dei cittadini che si sono vaccinati. Ha prevalso il senso di responsabilità".
"Dobbiamo guardare alle prossime settimane con prudenza, senso di responsabilità ma anche con un sentimento di fiducia - ha aggiunto - oggi il 92% della popolazione è vaccinata e questo ci permette di affrontare il futuro con maggiore serenità".
"Io non credo che siamo di fronte a una quinta ondata di Covid in Italia, almeno per come abbiamo vissuto le ondate precedenti. Siamo di fronte ad una prima ondata di una infezione completamente diversa, di un virus 2.0 rispetto a quello che abbiamo visto nelle ondate precedenti".
Lo scrive su Facebook il direttore della clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, Matteo Bassetti. "È la prima ondata di un virus depotenziato per le sue conseguenze cliniche perché non è paragonabile alle precedenti quattro ondate e perché i nostri ospedali hanno pressione zero. Ovvero, questo aumento dei contagi non porta a una malattia grave", aggiunge l'infettivologo. Secondo Bassetti, infatti, "se vediamo i numeri, l'incremento dei nuovi casi è ormai costante da 10-15 giorni e, quindi, avremmo già dovuto vedere un aumento sui ricoveri e sulle terapie intensive, se avesse portato a una malattia grave. Dobbiamo monitorare, fare attenzione, ma i vaccini funzionano eccome".
È stato dimostrato che le vescicole extracellulari (esosomi) contribuiscono alla diffusione delle infezioni virali ma ancora poco si conosce sul loro ruolo nella patologia da Covid-19.
In un recente studio svolto dai ricercatori Elisa Pesce, Nicola Manfrini e Chiara Cordiglieri dell’Istituto nazionale genetica molecolare (Ingm) di Milano sotto la guida scientifica di Renata Grifantini, in collaborazione con Spartaco Santi dell’Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Igm) di Bologna e pubblicato su Frontiers In Immunology, sono stati mostrati dati comparativi sugli esosomi recuperati dal plasma di pazienti con forma moderata o severa di Covid -19.
“Solo gli esosomi provenienti da pazienti con forma moderata sono in grado di regolare in modo efficiente le risposte dei linfociti T CD4, con un conseguente corretto funzionamento del sistema immunitario, mentre quelli dei pazienti con forma severa della malattia sono associati ad un importante infiammazione acuta e cronica”, spiega Spartaco Santi del Cnr-Igm.
Utilizzando in parallelo la microscopia elettronica e la microscopia a super-risoluzione (Sted e Storm: due tecniche che sono state recentemente sviluppate per superare il limite di diffrazione della microscopia ottica e per aumentare di conseguenza il potere di risoluzione), è stato scoperto che gli esosomi, ricavati da pazienti con forma moderata di Covid -19, presentano numerosi frammenti della proteina SARS-CoV-2-Spike sulla loro intera superficie. Questi frammenti potrebbero derivare da un'attività fagocitaria attiva o da un'infezione virale transitoria.
"Gli esosomi sono quindi da considerare indicatori peculiari dello stato funzionale delle cellule immunitarie dei pazienti, che generalmente risultano essere più performanti negli individui con sintomi lievi”, concludono gli scienziati Ingm. “Queste osservazioni forniscono la base per ulteriori approfondimenti sul coinvolgimento degli esosomi, con un approccio di tipo preventivo, per il trattamento dell'infezione da SARS-CoV-2”.
Variante covid Omicron 2 sempre più diffusa in Italia. Sintomi, incubazione, durata, cura: cosa c'è da sapere. I contagi stanno aumentando e questo andamento "sembra apparentemente essere guidato dalla crescente circolazione della sottovariante BA.2 di Omicron", nota come Omicron 2, "che sembra essere più trasmissibile rispetto ad altre varianti di Sars-CoV-2".
E' il quadro tracciato da Marco Cavaleri, responsabile Vaccini e Prodotti terapeutici Covid-19 dell'Agenzia europea del farmaco Ema.
Più contagiosa quindi, ma con sintomi lievi in generale. La variante Omicron 2 non sembra infatti provocare effetti più gravi rispetto alla 'versione base' di Omicron. Naso che cola, mal di testa, stanchezza con dolori muscolari, starnuti e mal di gola sono stati i sintomi più segnalati. Segnalati anche casi di nausea e diarrea. Rispetto alla versione 'tradizionale' del covid, associato in particolare alla variante Delta, appaiono meno frequenti le segnalazioni alla perdita di olfatto e gusto, sintomi 'spia' della malattia nelle precedenti ondate.
I sintomi più lievi rischiano di essere confusi con sindromi da raffreddamento, quindi, molto comuni nei mesi invernali e decisamente diffusi tra i bambini.
La durata media della malattia è di 5-7 giorni con una incubazione di 3 giorni in media.
"Nessun Paese, a livello mondiale, sta immaginando, in questo momento, una quarta dose" di vaccino anti Covid "per tutti. Siamo partiti con gli immunocompromessi, il pezzo più fragile della nostra società. E, in queste ore, stiamo valutando anche un'ipotesi di estensione della quarta dose per le fasce generazionali più avanzate. Comunque dentro una fascia di fragilità". Lo ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, in conferenza stampa dopo il Cdm.
Speranza ha aggiunto che si tratta di una "riflessione che richiederà ancora un approfondimento. Ma è una cosa a cui ci stiamo preparando. In ogni caso, sulla base dell'evidenza scientifica, noi saremo pronti. Le dosi sono già a nostra disposizione. In un confronto con il generale Figliuolo, abbiamo verificato: non avremmo problemi a fare una quarta dose a tutti ma dobbiamo aspettare il maturarsi di un'evidenza scientifica che in questo momento non è ancora data".
Super green pass, green pass base, ma anche quarantena, zone e colori: importanti novità in arrivo per il mese di aprile con la prospettiva di dire addio al green pass da maggio.
Tra le misure che cambiano in modo sostanziale, l'addio all'obbligo di certificato 'rafforzato' per i lavoratori over 50. Restano invece in vigore, almeno fino al prossimo 30 aprile, regole più stringenti per i luoghi al chiuso. Ristoranti e palestre compresi. Ecco cosa ha detto il ministro Roberto Speranza dopo la cabina di regia e il Cdm sulle riaperture e il ritorno alla normalità.
"Le persone sopra i 50 anni non dovranno più avere il cosiddetto Green pass rafforzato, ma sarà sufficiente per loro fino al 30 aprile il green pass base, quindi non ci sarà più la sospensione dal lavoro" in assenza di super Green pass. Lo ha sottolineato il ministro della Salute Roberto Speranza, in conferenza stampa post Cdm. "E' una scelta che abbiamo fatto", è "un cambiamento molto significativo", ha rimarcato. "Uscendo dallo stato d'emergenza - ha spiegato - riteniamo consono il superamento di quella misura che era una misura molto forte, e che ha avuto l'effetto di stimolare enormemente la vaccinazione in quella fascia d'età. Ma la scelta del Governo in questa nuova fase che vogliamo aprire è di superare questo vincolo".
"La sospensione dal lavoro" in assenza di vaccinazione Covid-19, ha aggiunto Speranza, "resterà solo per una fascia che noi riteniamo essere quella più a rischio, più sensibile, perché è quella che ha più a che fare con le fragilità, ovvero il personale sanitario, i lavoratori delle strutture ospedaliere e i lavoratori delle Rsa". Solo per loro, e non più quindi per i lavoratori di scuola, comparto sicurezza e forze dell'ordine, "c'è un prolungamento dell'obbligo" di vaccino anti-Covid "al 31 di dicembre e le norme restano esattamente come sono oggi. Quindi, per questa peculiare categoria - ha chiarito il ministro - resta ancora anche la sospensione dal lavoro in caso non vaccinazione".
"Resterà vigente il super green pass, fino al 30 aprile, nei servizi di ristorazione, svolti al banco, al tavolo, al chiuso, di qualsiasi servizio" compresi "piscine, centri natatori, palestre, sport di squadra e di contatto, centri benessere", ha precisato il ministro.
Necessario il super green pass fino al 30 aprile anche per "convegni e congressi, centri culturali, centri sociali, ricreativi, feste, attività di sale gioco, sale scommesse, sale Bingo e casinò. Attività che abbiano luogo in sale da ballo discoteche e locali assimilati e partecipazione del pubblico agli spettacoli aperti, nonché agli eventi e alle competizioni sportive che si svolgono al chiuso".
Si tratta di una disciplina che, "con gradualità ci porterà, al primo maggio al superamento del green pass", ha detto Speranza.
"Con questo provvedimento superiamo le quarantene per contatto" con un positivo a Covid-19. "Le quarantene per contatto erano già state superate per la popolazione vaccinata", ora "con questo provvedimento le superiamo per tutti gli italiani. Resterà esclusivamente in isolamento chi è positivo al virus", ha detto ancora Speranza.
"Questa scelta che noi facciamo ha un impatto significativo in modo particolare nelle scuole", ha precisato: "Dal primo aprile andrà a casa soltanto chi è positivo, mentre tutti gli altri potranno tranquillamente continuare a stare in classe e seguire le lezioni".
E ancora: "Superiamo definitivamente il sistema a colori. Un sistema che ci ha accompagnato per molti mesi. E che serviva ad adattare il quadro epidemiologico ad ogni realtà territoriale".
"Come sapete ogni venerdì, per molte settimane, ho firmato le ordinanze, sulla base del quadro epidemiologico, monitorato dall'Istituto superiore di Sanità insieme alla cabina di Regia di cui fanno parte le Regioni. Continueremo questo monitoraggio - ha assicurato il ministro - perché è fondamentale. E sarà fondamentale continuare a leggere l'evoluzione epidemiologica. Questo monitoraggio non sarà più connesso alle ordinanze", ha concluso Speranza.
Al palo la campagna vaccinale contro il Covid in Italia. L'andamento risulta ormai in forte calo: da inizio marzo le vaccinazioni sono sotto la soglia delle 100.000 somministrazioni giornaliere, un andamento paragonabile a gennaio 2021, primo mese di campagna vaccinale. Lo evidenzia l'89esima puntata dell'Instant Report Covid-19 dell'Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell'Università Cattolica.
La Regione con la copertura più alta è la Toscana (81,7%) mentre la Provincia autonoma di Bolzano è in coda, con la percentuale di individui che hanno completato il ciclo vaccinale più bassa (70,6%). In Italia il 77,6% della popolazione risulta totalmente immunizzata.
"Dall'inizio della campagna vaccinale gli italiani hanno risposto bene alle vaccinazioni - commenta il professor Americo Cicchetti, direttore di Altems - ma abbiamo ancora qualche margine di miglioramento per gli ultimi cittadini esitanti, soprattutto nella fascia di età 50-59, dove gli immunizzati con doppia dose si attestano a circa il 90%, e nella fascia di 40-49 dove sono circa l'86%. Ottime le linee di indirizzo rilasciate dal ministero della Salute - conclude - per l'immunizzazione della popolazione ucraina, che stiamo accogliendo in Italia".
"Se qualcuno non ne fosse convinto zero Covid è impossibile, questo virus avrà sempre a disposizione ospiti sufficiente e non vi sono vincoli alla sua patogenicità". Lo sottolinea il biologo Enrico Bucci, professore a contratto della Temple University di Philadelphia, chiamando in causa i rischi legati alle infezioni da coronavirus negli animali, le possibili mutazioni e il ritorno poi sull'uomo.
"Cercopiteco verde; lontra asiatica senza unghie; arvicola rossastra; castoro; binturong; lince canadese; gatto; coatimundi; uistitì dai pennacchi bianchi; puma; macaco cinomolgo; cane; peromisco maculato; puzzola; gatto pesca; volpi volanti; criceto dorato; gorilla ; babbuino; ippopotamo; iena maculata; leone; tigre; visone; tupaia; lepre; canna procione; macaco reso; leopardo delle nevi; pangolino asiatico; cervo dalla coda bianca", elencando Bucci che aggiunge come questa lista "degli animali dimostratamente in grado di essere infettati da Sars-CoV-2 è probabilmente ancora parziale. Ma in alcuni di essi è stata dimostrata l'evoluzione di mutazioni e in molti lo sviluppo di malattia sintomatica".
"Per il visone, il criceto e il cervo dalla coda bianca si è dimostrato che il virus, una volta infettata una popolazione, muta, ed è in grado poi di reinfettare essere umani", avverte il biologo.
Bucci fa alcune considerazioni: "All'inizio della pandemia, i componenti asiatici della lista, tra cui alcuni venduti al mercato di Wuhan, possono aver tranquillamente funzionato da ospiti intermedi, "La smettiamo di allevare animali da pelliccia?".