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"La decisione del Governo nazionale e regionale della Lombardia di non creare una cosiddetta zona rossa intorno ad Alzano Lombardo e Nembro (bloccando l'ingresso e l'uscita dai due comuni), quando a fine febbraio 2020 è stato scoperto Covid-19 nella popolazione, è ritenuta direttamente responsabile della diffusione dell'infezione ad altri comuni della provincia di Bergamo, in particolare nella Val Seriana, poi in tutta Europa".
E' uno dei passaggi di un'analisi molto dura pubblicata sulla rivista scientifica 'The Lancet' dal titolo 'Riconoscere gli errori dell'Italia nella risposta a Covid-19'.
La domanda che viene posta è: "In che modo una diversa risposta di salute pubblica avrebbe potuto fermare l'epidemia di Covid-19 nella provincia di Bergamo, diventata famosa nella primavera del 2020 per i cadaveri accatastati in ospedali, chiese e cimiteri e trasportati con camion militari ai crematori?". Nell'articolo, pubblicato nella sezione 'Correspondence', si torna a quel febbraio del 2020, quando tutto è cominciato: "La popolazione lombarda è rimasta scioccata dagli eventi e dall'incoerenza di sanità pubblica e autorità governative, accanto a un piano pandemico obsoleto e non attuato", si legge nel testo firmato da Chiara Alfieri, Laboratoire Population, Environnement, Démographie dell'Institut de Recherche pour le Développement, Università di Aix-Marseille, Marsiglia, Francia, insieme ai colleghi Marc Egrot, Alice Desclaux e Kelley Sams, anche di altri atenei francesi, per conto del programma Comescov (Confinement et mesures sanitaires visant à limiter la transmission du Covid-19).
Dalla zona rossa al piano pandemico, vengono elencati tutti i nodi critici della prima drammatica ondata pandemica. "L'Istituto nazionale di statistica" Istat "ha definito gli eventi una terza guerra mondiale", ripercorrono gli autori che ricordano anche l'azione dell'Associazione 'Sereni e sempre uniti' che il 2 novembre 2021 ha manifestato a Roma contro quella che nel testo viene definita "omertà istituzionale (cioè la legge del silenzio)" e per la "restaurazione di una Commissione parlamentare" con il compito di "esaminare la gestione dell'epidemia. Questo evento ha fatto seguito a 520 denunce che erano state presentate dall'associazione 4 mesi prima contro il Governo nazionale, il ministero della Salute e gli amministratori della regione Lombardia".
Per comprendere, prosegue l'analisi pubblicata su Lancet, "è necessario esaminare l'inizio della pandemia in Lombardia. I cittadini lombardi "si sono confrontati con l'orrore: i loro cari che morivano in casa senza cure e soli in ospedale, la scarsità di ossigeno e respiratori, la confusione nell'identificazione dei corpi cremati", elencano gli autori.
"Per reazione - continuano - la società civile bergamasca si è organizzata in un movimento che chiede giustizia. Gli obiettivi dell'Associazione Sereni sono ottenere verità, giustizia, riparazione e dignità e offrire supporto emotivo in risposta al dolore, alla confusione e al risentimento per le famiglie dei defunti e per la comunità più ampia. Molti politici e attivisti cittadini hanno gravitato intorno al movimento".
Gli autori dell'articolo fanno notare come "il contributo degli antropologi alla documentazione e all'analisi degli effetti sociali e politici degli eventi epidemiologici è stato fondamentale per altre malattie infettive (come malattia da virus Ebola e Aids), ad esempio in Africa, dove reti come il Réseau Anthropologie des Épidémies Émergentes (di cui siamo membri)", scrivono i ricercatori che firmano l'analisi, "sono diventate centrali per affrontare questioni come l'esitazione sui vaccini, la disinformazione, e la fiducia. La ricerca transdisciplinare produce evidenze sulle azioni delle associazioni della società civile, come l'Associazione Sereni. Questa evidenza è fondamentale per le istituzioni per identificare e affrontare gli errori nella risposta della salute pubblica - concludono gli esperti - che è necessaria per supportare le comunità a prepararsi per future minacce infettive, come raccomandato dalla Community Preparedness Unit dell'Oms.
La vaccinazione COVID-19 in entrambi i partner non sembra influenzare la fertilità, secondo una nuova ricerca guidata dagli investigatori della Boston University School of Public Health (BUSPH).
Pubblicato sull'American Journal of Epidemiology, lo studio prospettico sulle coppie che cercano di concepire non ha trovato alcuna associazione tra la vaccinazione COVID-19 e la "fecondabilità" - la probabilità di concepimento per ciclo mestruale - nei partner maschili o femminili, che hanno ricevuto Pfizer-BioNTech, Moderna o Vaccini Johnson & Johnson.
Al contrario, i risultati indicano che l'infezione da COVID-19 tra i maschi può ridurre temporaneamente la fertilità, un risultato che potrebbe essere evitato attraverso la vaccinazione.
"Molti individui in età riproduttiva hanno citato le preoccupazioni sulla fertilità come motivo per non essere vaccinati- afferma l'autrice principale dello studio, la dott.ssa Amelia Wesselink, assistente professore di epidemiologia al BUSPH- Il nostro studio mostra per la prima volta che la vaccinazione COVID-19 in entrambi i partner non è correlata alla fertilità tra le coppie, che cercano di concepire attraverso il rapporto sessuale. Il tempo di gravidanza è stato molto simile indipendentemente dallo stato di vaccinazione”.
Wesselink e colleghi hanno analizzato i dati del sondaggio sulla vaccinazione e l'infezione COVID-19 e sulla fecondabilità tra i partecipanti di sesso femminile e maschile al Pregnancy Study Online (PRESTO), basato su BUSPH , uno studio in corso finanziato dai NIH, che arruola donne che cercano di concepire e le segue dal preconcepimento fino a sei mesi dopo il parto. I partecipanti includevano 2.126 donne negli Stati Uniti e in Canada, che hanno fornito informazioni su dati sociodemografici, stile di vita, fattori medici e caratteristiche dei loro partner da dicembre 2020 a settembre 2021 e le partecipanti sono state seguite nello studio fino a novembre 2021.
I ricercatori hanno calcolato la probabilità di concepimento per ciclo mestruale, utilizzando le date auto-riferite dell'ultimo periodo mestruale dei partecipanti, la durata del ciclo mestruale tipico e lo stato di gravidanza. I tassi di fertilità tra le partecipanti di sesso femminile, che hanno ricevuto almeno una dose di vaccino erano quasi identici alle partecipanti di sesso femminile non vaccinate. La fecondabilità era simile anche per i partner maschi, che avevano ricevuto almeno una dose di un vaccino COVID-19 rispetto ai partecipanti maschi non vaccinati. Ulteriori analisi che hanno considerato il numero di dosi di vaccino, la marca del vaccino, la storia di infertilità, l'occupazione e la regione geografica non hanno indicato alcun effetto della vaccinazione sulla fertilità.
Sebbene l'infezione da COVID-19 non fosse fortemente associata alla fertilità, gli uomini risultati positivi al COVID-19 entro 60 giorni da un determinato ciclo avevano una fertilità ridotta rispetto agli uomini che non erano mai risultati positivi o agli uomini che erano risultati positivi almeno 60 giorni prima. Questi dati supportano la ricerca precedente, che ha collegato l'infezione da COVID-19 negli uomini con una scarsa qualità dello sperma e altre disfunzioni riproduttive.
"Questi dati forniscono prove rassicuranti che la vaccinazione COVID in entrambi i partner non influisce sulla fertilità tra le coppie che cercano di concepire- sostiene l'autore senior dello studio, la dott.ssa Lauren Wise , professore di epidemiologia al BUSPH- Il disegno dello studio prospettico, l'ampia dimensione del campione e la popolazione dello studio geograficamente eterogenea sono punti di forza dello studio, così come il nostro controllo per molte variabili come l'età, lo stato socioeconomico, le condizioni di salute preesistenti, l'occupazione e i livelli di stress".
I nuovi dati aiutano anche a reprimere le preoccupazioni sui vaccini COVID-19 e sulla fertilità derivanti da segnalazioni aneddotiche di donne che hanno subito cambiamenti del ciclo mestruale dopo la vaccinazione.
American Journal of Epidemiology: "A prospective cohort study of COVID-19 vaccination, SARS-CoV-2 infection, and fertility".
DOI: http://doi.org/10.1093/aje/kwac011
Antonio Caperna
L’onda lunga della pandemia da COVID ha prodotto notevoli ricadute sulla salute mentale. In questi lunghi mesi, centinaia di indagini sono state condotte a livello internazionale per quantificare gli effetti negativi che il COVID-19 sta avendo sul benessere psicologico.
Numerosi sono i sintomi comportamentali descritti, sia in chi è stato contagiato dal virus, sia in chi, invece, è stato vittima di fattori indiretti come: lunghi periodi di quarantena, perdita del sostegno sociale e sovraesposizione a fenomeni di infodemia. Tutte le ricerche scientifiche svolte nell’ultimo anno sono concordi nell’indicare che la pandemia e le misure di quarantena stanno seriamente impattando la salute mentale. Questo ha sopraffatto i sistemi sanitari di molti paesi e, naturalmente, ha colpito gli operatori sanitari che combattono in prima linea.
“Quando COVID-19 ha colpito per la prima volta, i professionisti della salute come psicologi e psicoterapeuti non erano considerati "servizi essenziali". Questo significava che gli psicologi non erano autorizzati a vedere i clienti faccia a faccia, e tutte le sessioni dovevano essere spostate su piattaforme di telemedicina. D'altra parte, l’aumento dei problemi di salute mentale durante l'epidemia di COVID-19 ha ulteriormente rafforzato il bisogno generale di assistenza. In questo contesto, si è entrati, forzatamente e velocemente, in una nuova era di telepsicologia, senza però avere dati scientifici e una reale guida metodologica su come traslare gli interventi di persona in interventi online”, afferma Antonio Cerasa, neuroscienziato del l’Istituto per la ricerca e l'innovazione biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina (Cnr-Irib).
Per rispondere al bisogno di conoscere in dettaglio come la pandemia ha cambiato il lavoro di psicologi e psicoterapeuti, il Cnr-Irib, in collaborazione con l’Università della Calabria e Università Magna Graecia di Catanzaro, ha intervistato, tramite un questionario online, oltre 200 psicologi per comprendere come questa pandemia abbia influito sulla loro attività clinica. Lo studio è stato pubblicato su Journal of Affective Disorders Report. Durante i vari lockdown, gli psicologi italiani hanno ammesso che la pandemia ha fortemente influito sulla loro pratica clinica (60%) e per questo che la maggior parte (85%) ha utilizzato le varie forme di modalità online per continuare il lavoro terapeutico sui pazienti.
Il 65% degli intervistati ha rilevato di non aver avuto particolari problemi nella traslazione alla telepsicologia, così come la maggior parte dei loro pazienti ha riportato un feeling positivo con questa nuova modalità di rapporto clinico. Quasi il 60% degli psicologi ha rilevato un aumento nel numero di nuovi pazienti, i quali, per la maggior parte non erano stati mai infettati dal virus. Questa nuova ondata di pazienti è stata caratterizzata prevalentemente dalla presenza di sintomi specifici quali: ansia, depressione e disturbi del sonno. Anche nei pazienti già in trattamento si è notata una recrudescenza di sintomatologie pregresse durante la pandemia sempre relativamente a queste tre tipologie di sintomi.
Infine, un altro dato interessante che gli psicologi hanno rilevato durante il sondaggio riguarda la tipologia di pazienti che faceva ricorso a nuove cure post-pandemia. Il profilo più vulnerabile alle nuove forme di disturbi psicologi sono le donne, impiegate, con bassa scolarità, di età tra i 26 e i 45 anni, non sposate. I risultati di questo studio possono fornire strumenti ai decisori politici per orientare al meglio gli interventi a sostegno della salute mentale.
http://salutedomani.com/ results/coronavirus
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Un singolo campione di sangue di un paziente affetto da COVID-19 in condizioni critiche può essere analizzato da un modello di apprendimento automatico, che utilizza le proteine ??del plasma sanguigno per predire la sopravvivenza, settimane prima della morte, secondo un nuovo studio pubblicato questa settimana da Florian Kurth e Markus Ralser della Charité – Universitätsmedizin Berlin, Germania, e colleghi sulla rivista PLOS Digital Salute
I sistemi sanitari di tutto il mondo stanno lottando, per accogliere un numero elevato di pazienti gravemente malati di COVID-19, che necessitano di cure mediche speciali, soprattutto se identificati come ad alto rischio. Le valutazioni del rischio clinicamente stabilite nella medicina intensiva, come SOFA o APACHE II, mostrano solo un'affidabilità limitata nel predire gli esiti futuri della malattia per COVID-19.
Nel nuovo studio, i ricercatori hanno studiato i livelli di 321 proteine ??in campioni di sangue prelevati a 349 punti temporali da 50 pazienti affetti da COVID-19 in condizioni critiche in cura in due centri sanitari indipendenti in Germania e Austria. È stato utilizzato un approccio di apprendimento automatico, per trovare associazioni tra le proteine ??misurate e la sopravvivenza del paziente.
15 dei pazienti della coorte sono morti; il tempo medio dal ricovero al decesso è stato di 28 giorni. Per i pazienti sopravvissuti, il tempo mediano di ricovero è stato di 63 giorni. I ricercatori hanno individuato 14 proteine ??che, nel tempo, sono cambiate in direzioni opposte per i pazienti che sopravvivono rispetto ai pazienti che non sopravvivono in terapia intensiva. Il team ha quindi sviluppato un modello di apprendimento automatico per predire la sopravvivenza basato su una singola misurazione del punto temporale delle proteine ??rilevanti e ha testato il modello su una coorte di convalida indipendente di 24 pazienti affetti da COVID-10 in condizioni critiche. Il modello ha dimostrato un elevato potere predittivo su questa coorte, predicendo correttamente l'esito per 18 dei 19 pazienti sopravvissuti e 5 su 5 pazienti che sono morti (AUROC = 1,0, P = 0,000047).
I ricercatori concludono che i test delle proteine ??del sangue, se convalidati in coorti più ampie, possono essere utili sia per identificare i pazienti con il più alto rischio di mortalità, sia per testare se un determinato trattamento cambia la traiettoria prevista di un singolo paziente.
PLOS Digital Health : "A proteomic survival predictor for COVID-19 patients in intensive care"
DOI: 10.1371/journal.pdig.0000007
"Il virus non è diventato più 'cattivo' nei confronti dei bambini ma ci troviamo di fronte a una variante, la Omicron, che si trasmette molto più facilmente e dunque si diffonde, in particolare, tra coloro che non sono vaccinati come la fascia di popolazione pediatrica.
E aumentando il numero di bambini infetti, aumenta anche la quota di quelli che finiscono in terapia intensiva. Adesso in ospedale vediamo tanti piccoli sotto ai 5 anni, per questo mi auguro che presto il vaccino sia disponibile anche per loro, così come mi auguro che siano sempre di più i bambini vaccinati nella fascia d'età 5-11 anni".
A sottolinearlo è Guido Castelli Gattinara, componente del Tavolo tecnico Vaccinazioni e Malattie infettive della Società italiana di pediatria (Sip), che insieme alla collega Susanna Esposito, ha risposto ai dubbi dei genitori sul vaccino pediatrico anti Covid-19 nel corso di una diretta sulla pagina facebook della Società scientifica. Davanti a una diffusibilità del virus così elevata una delle domande più frequenti dei genitori è proprio come comportarsi prima di fare il vaccino.
"Fare un test degli anticorpi per togliersi un dubbio e vedere se magari un bambino ha avuto l'infezione in maniera asintomatica non ha senso- spiega Castelli Gattinara- non è un'informazione che è importante avere per decidere se fare il vaccino o meno, perché anche in questo caso la vaccinazione non sarebbe un problema. Col vaccino eventualmete ristimoliamo il sistema immunitario del bambino e lo proteggiamo. I pericoli vengono dalla malattia, non dai vaccini", ribadisce il pediatra. Per chi, invece, sa di aver avuto la malattia allora le tempistiche per fare il vaccino cambiano a seconda se siano trascorsi tra i 3 e i 12 mesi dall'infezione, o più di 12 mesi, o se l'infezione si è contratta tra la prima e la seconda dose di vaccino, secondo il vigente schema vaccinale.
"Ma il vaccino possono farlo tutti?", un'altra domanda ricorrente dei genitori. Anche su questo il medico è chiaro: "Tutti i bambini possono e devono essere vaccinati a meno di condizioni particolari". Castelli Gattinara continua spiegando che le controindicazioni reali al vaccino anti-Covid possono essere "uno shock anafilattico ad un precedente vaccino o l''anafilassi 'vera' a uno dei componenti che sono all'interno del vaccino". Poi "ci sono delle condizioni particolari- precisa il pediatra- come quelle dei pazienti che hanno una malattia acuta grave in atto, pazienti che hanno un tumore o sono in terapia per un tumore, pazienti che hanno delle immunocompromissioni profonde sia per deficit proprio, ma soprattutto per terapia immunosoppressive importanti.
In questi casi la vaccinazione non viene suggerita perché il vaccino non fa niente, non stimola un sistema immunitario paralizzato dalla malattia o dall'immunosoppressione. In questi pazienti quindi la vaccinazione non è controindicata ma non conviene che venga fatta", spiega Castelli Gattinara. Tra le domande rivolte dai genitori agli esperti Sip ci sono anche quelle riguardanti la MIS-C (sindrome infiammatoria multisistemica) e il cosiddetto 'long Covid'. "Il vaccino protegge anche da questo?", si chiedono le famiglie.
"La MIS-C è una tempesta citochimica, quindi una reazione dell'organismo estremamente violenta contro degli antigeni, che colpisce prevalentemente i giovani adolescenti. Si tratta di un'enorme infiammazione a carico degli organi che può danneggiarli anche in maniera mortale. La MIS-C è una malattia mortale- spiega Castelli Gattinara- In Italia oggi abbiamo vaccinato quasi tutti gli adolescenti e la MIS-C non si vede più, è quasi scomparsa- dunque dice- anche questo è un effetto positivo del vaccino che protegge nei confronti delle forme più gravi della malattia". Così come essere protetti dal vaccino "riduce anche la probabilità che si possa sviluppare il 'long Covid', ossia quelle manifestazioni cliniche, neurologiche e sistemiche che compaiono e persistono anche per molti mesi dopo aver avuto il Covid, pure in forma asintomatica, e sono dunque invalidanti".
In chiusura della diretta Castelli Gattinara lancia un appello ai suoi colleghi pediatri: "Credete nelle vaccinazioni e dimostrate alle famiglie che è la scelta migliore, senza aver paura. E' la verità".
Durante una pandemia come quella causata dal SARS-CoV-2, è impossibile vaccinare rapidamente l'intera popolazione. Quali individui dovrebbero essere vaccinati per primi? I più fragili per ridurre il rischio di ammalarsi? Gli individui più giovani e più attivi per limitare la progressione epidemica?
La decisione è ulteriormente complicata, se adottiamo un punto di vista evolutivo: la vaccinazione induce una pressione selettiva, che può favorire alcuni ceppi del virus, o varianti, resistenti ai vaccini. 1È possibile scegliere strategie vaccinali, che possano rallentare questa evoluzione? Questa domanda è tanto più cruciale dato che la copertura vaccinale contro il Covid-19 rimane bassa in alcuni paesi. Il 18 gennaio 2022, gli scienziati del Centre d'Ecologie Fonctionnelle et Evolutive (CNRS/Université de Montpellier/EPHE-PSL/IRD) hanno pubblicato un quadro teorico in PNAS che valuta l'impatto di varie strategie di vaccinazione sul tasso di emergenza per le nuove varianti.
Ad esempio, nel caso di SARS-CoV-2, la strategia di vaccinare prioritariamente gli anziani sembra altamente efficace, poiché riduce al minimo sia la selezione per una variante resistente che la mortalità complessiva. Questo studio sottolinea l'importanza di prendere in considerazione le dinamiche evolutive del virus come complemento a un focus esclusivo sulla dinamica dell'epidemia. 2
1 Simile a come l'uso irragionevole di antibiotici può favorire la resistenza agli antibiotici tra i batteri.
2 Ad esempio, il solo monitoraggio dei dati relativi al numero di casi, pazienti ospedalizzati e decessi, oltre a tassi positivi, R0, ecc.
Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS): "Targeted vaccination and the speed of SARS-CoV-2 adaptation"
Antonio Caperna
Quarta dose di vaccino, serve o no contro la variante Omicron? L'Agenzia europea del farmaco Ema mette in guardia sui booster, somministrati a intervalli molto brevi: potrebbero avere l'effetto contrario rispetto a quello desiderato e ridurre il livello di anticorpi, invece, che aumentarli.
Una posizione non completamente condivisa da Israele che va avanti con la quarta dose. Alcune persone con la quarta dose di vaccino, rivela il direttore generale del ministero della Salute israeliano Nachman Ash, sono state contagiate dalla variante Omicron. La protezione dalla malattia grave, aggiunge, "soprattutto per gli anziani e la popolazione a rischio funziona con la quarta dose, per cui invito comunque a venire a farsi vaccinare".
In Israele, la quarta dose viene somministrata al personale medico, a soggetti fragili e a over 60. Il 'booster bis' non pare fornire molta protezione ulteriore contro il contagio da variante Omicron rispetto alla terza dose.
"La crescita dei livelli di anticorpi che vediamo con Moderna e Pfizer è leggermente superiore a quella che abbiamo visto dopo la terza dose di vaccino", dice Gili Regev-Yochay, direttore dell'Unità di Malattie infettive dello Sheba Medical Center di Tel Aviv, che ha condotto una ricerca in materia.
"Malgrado la crescita del livello di anticorpi, la quarta dose offre soltanto una difesa parziale contro il virus - spiega la professoressa - Abbiamo visto molte persone infettate con Omicron dopo la quarta dose. Un po' meno che nel gruppo di controllo, ma sempre tante".
La docente ha sottolineato che lo studio è ancora allo stadio preliminare e per questo non sono stati diffusi tutti i dati. La ricerca è stata condotta su 150 persone che hanno ricevuto una quarta dose di Pfizer 2 settimane fa. Altre 120, che avevano fatto tre dosi Pfizer, hanno ricevuto una settimana fa una quarta dose con Moderna.
Si tratta della prima ricerca sulla quarta dose, condotta anche con la combinazione di vaccini diversi, ma i risultati dei due gruppi dopo una settimana appaiono molto simili.
L'Ema "non ha ancora visionato i dati sulla quarta dose" del vaccino anti-covid. "Attualmente, non ci sono prove della necessità di una quarta dose nella popolazione generale" precisa Marco Cavaleri, responsabile per i vaccini dell'Agenzia europea del farmaco Ema. "Nelle persone con sistema immunitario gravemente indebolito e che hanno ricevuto già tre dosi, sarebbe ragionevole che le autorità sanitarie prendessero in considerazione la somministrazione di una quarta dose" consiglia Cavaleri.
Qual è stata la frequenza degli eventi avversi (AE) nei gruppi placebo degli studi sul vaccino COVID-19? E' la domanda che si sono posti i ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center (BIDMC), Harvard Medical School di Boston in collaborazione con l’Endicott College, Beverly in Massachusetts, il Weill Cornell Medical College a New York e la Philipps University Marburg in Germania.
"In questa revisione sistematica e meta-analisi di 12 articoli, inclusi i rapporti sugli eventi avversi per 45.380 partecipanti allo studio, gli eventi avversi sistemici sono stati riscontrati dal 35% dei soggetti, che hanno ricevuto il placebo dopo la prima dose e dal 32% dopo la seconda. Significativamente più eventi avversi sono stati segnalati nei gruppi vaccinati, ma gli eventi avversi nei bracci placebo ("risposte nocibo") hanno rappresentato il 76% degli eventi avversi sistemici dopo la prima dose di vaccino COVID-19 e il 52% dopo la seconda dose- scrivono gli autori su Jama Network Open -Questo studio ha rilevato che il tasso di risposte nocebo nei bracci placebo degli studi sul vaccino COVID-19 era sostanziale; questo risultato dovrebbe essere considerato nei programmi di vaccinazione pubblici".
Sono stati analizzati dodici articoli con report AE per 45.380 partecipanti (22.578 riceventi placebo e 22.802 riceventi vaccino).
Rispetto alla prima dose, dopo la seconda dose è stata riscontrata una differenza maggiore nei tassi di AE tra i gruppi placebo e i gruppi vaccinati. Tuttavia, i rapporti tra le proporzioni degli eventi avversi nei gruppi placebo e vaccino hanno indicato che le risposte nocebo rappresentavano il 51,8% degli eventi avversi sistemici e il 16,2% degli eventi avversi locali dopo la seconda dose. Gli eventi avversi più comunemente riportati nei gruppi placebo sono stati mal di testa (prima dose: 19,3%; seconda dose: 16,2%) e affaticamento (prima dose: 16,7%; seconda dose: 14,9%.
"potizziamo che la seconda dose dei vaccini possa aver prodotto sia una risposta immunitaria più robusta che un insieme di eventi avversi corrispondentemente più robusto e che i partecipanti ai bracci vaccinali, dopo aver sperimentato più eventi avversi dopo la prima dose rispetto a i partecipanti ai gruppi di controllo avevano aspettative più elevate per gli eventi avversi dopo la seconda dose rispetto ai partecipanti ai bracci del placebo", concludono gli autori.
Variante Omicron, i primi dati sul vaccino Moderna contro la nuova mutazione potrebbero arrivare già a marzo. Ad annunciarlo, spiega la Cnn, il Ceo dell'azienda Séphane Bancel in un collegamento con un evento collegato al World Economic Forum di Davos.
Intorno a marzo, ha spiegato il Ceo, "dovremmo essere in grado di avere dati da condividere con le autorità per capire il prossimo passo avanti".
Per Bancel "c'è sempre stata una grande collaborazione tra gli esperti di salute pubblica, le autorità che definiscono le regole e i produttori di vaccini per capire quale sia la strada migliore" e "per due anni abbiamo lavorato tutti letteralmente insieme sette giorni alla settimana per capire come combattere questo nemico comune che è il virus. Il nemico - ha poi sottolineato il Ceo Moderna - non è un'altra compagnia o un altro gruppo. Il nemico è stato e rimarrà sempre e solo il virus".
Un vaccino combinato per Covid-19 e influenza di Moderna, ha aggiunto inoltre il Ceo, potrebbe essere disponibile in alcuni Paesi non prima dell'autunno 2023. Questa data per Bancel sarebbe infatti lo "scenario migliore". Obiettivo dell'azienda, un solo richiamo annuale del vaccino per superare la diffidenza dei pazienti nei confronti di diverse somministrazioni ogni inverno.
Primi dati sulla pillola antivirale di Pfizer contro la variante Omicron di Sars-CoV-2. Secondo quanto comunicato dall'azienda oggi "i risultati di numerosi studi dimostrano che l'efficacia in vitro di nirmatrelvir", il principale inibitore della proteasi del farmaco anti-Covid Paxlovid*, "viene mantenuta contro Omicron".
Nel loro insieme, questi studi in vitro suggeriscono che l'antivirale orale "ha il potenziale di mantenere concentrazioni plasmatiche molte volte superiori alla quantità necessaria per impedire la replicazione di Omicron nelle cellule".
"Siamo incoraggiati da questi risultati iniziali di laboratorio" afferma Mikael Dolsten, Chief Scientific Officer e presidente Worldwide Research, Development and Medical di Pfizer. "Abbiamo progettato specificamente Paxlovid per mantenere la sua attività" trasversalmente "fra i coronavirus, così come per le attuali varianti di preoccupazione con mutazioni prevalentemente sulla proteina Spike", aggiunge l'esperto ricordando i dati clinici che hanno mostrato una riduzione del "rischio di ospedalizzazione o morte di quasi il 90% rispetto al placebo per i pazienti ad alto rischio se trattati entro 5 giorni dall'esordio dei sintomi".
Si dice "incoraggiato" anche il Ceo di Pfizer Albert Bourla, che commenta via Twitter i primi dati sulla pillola anti-Covid e Omicron. Dati che, continua Dolsten, "suggeriscono che questa terapia orale può essere uno strumento importante ed efficace nella nostra continua battaglia contro questo virus e le attuali varianti, incluso l'altamente trasmissibile Omicron. I risultati in vitro continueranno a essere convalidati".
La quarta dose di vaccino Pfizer o Moderna contro il covid non fornisce molta protezione ulteriore contro il contagio della variante Omicron. E' quanto emerge da uno studio condotto in Israele, dove viene somministrata la quarta dose al personale medico, oltre che a persone fragili e sopra i 60 anni.
"La crescita dei livelli di anticorpi che vediamo con Moderna e Pfizer è leggermente superiore a quella che abbiamo visto dopo la terza dose di vaccino", dice Gili Regev-Yochay, direttore dell'unità malattie infettive dello Sheba Medical Center di Tel Aviv, che ha condotto la ricerca. "Malgrado la crescita del livello di anticorpi, la quarta dose offre soltanto una difesa parziale contro il virus" - spiega la professoressa- "abbiamo visto molte persone infettate con Omicron dopo la quarta dose. Un po' meno che nel gruppo di controllo, ma sempre tante". Secondo Regev-Yochay, "il vaccino è eccellente contro le varianti alfa e delta, ma non abbastanza per omicron".
La professoressa ha sottolineato che lo studio è ancora allo stadio preliminare e per questo non sono stati diffusi tutti i dati. La ricerca è stata condotta su 150 persone che hanno ricevuto una quarta dose di Pfizer due settimane fa. Altre 120, che avevano fatto tre dosi Pfizer, hanno ricevuto una settimana fa una quarta dose con Moderna. Si tratta della prima ricerca sulla quarta dose condotta anche con la combinazione di vaccini diversi, ma i risultati dei due gruppi dopo una settimana appaiono molto simili.
I risultati aprono una riflessione sulla strategia della quarta dose, adottata in Israele. Secondo Regev-Yochay è probabilmente una buona idea dare la quarta dose ai gruppi ad alto rischio. Tuttavia l'attuale strategia potrebbe essere corretta rivolgendosi solo alle persone più anziane.
L'occupazione dei posti letto nelle aree mediche Covid in Italia è cresciuta al 29%, con un incremento pari a un punto percentuale rispetto alla precedente rilevazione. Dunque una leggera salita, ieri, rispetto al 28% di venerdì e sabato e al 27% di giovedì. E' quanto emerge dall'ultimo monitoraggio dell'Agenas, l'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali.
La Liguria (38%, stabile), la Lombardia (34%, un punto percentuale in più), la Sicilia (35%, stabile) e la Valle d'Aosta (69%, +1) superano la soglia del 30%; la Calabria arriva al 41% (+1). L'Abruzzo sale al 29% (+1); la Basilicata al 26% (+1); la Campania al 29% (+2); l'Emilia Romagna al 27% (+1). Il Friuli Venezia Giulia è stabile al 29%. Stabili anche Lazio (27%), Molise (13%), Pa Trento (25%) e Pa Bolzano (18%). Le Marche salgono al 27% (+1), il Piemonte al 30% (+1), la Puglia al 21% (+1), la Sardegna al 15% (+1) e la Toscana al 25% (+1). Scendono l'Umbria, al 33% (-1), e Veneto, al 25% (-1).
Rimane stabile invece l'occupazione dei posti letto Covid in terapia intensiva, al 18%. Un dato rimasto sempre uguale da martedì 11 gennaio. I dati sono relativi a ieri. Sono 8 le regioni che superano la soglia del 20%: Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Marche, Trento, Toscana, Piemonte e la Valle d'Aosta.
"Il Covid ha creato le premesse perché sui pronto soccorso del Lazio si abbattesse una tempesta perfetta". Lo hanno sottolineato oggi Giulio Maria Ricciuti, presidente Simeu Lazio e coordinatore consiglio dei direttori di struttura complessa Meu Lazio, insieme a Elio Rosati, segretario regionale Cittadinanzattiva Lazio, durante l'audizione congiunta con la VII commissione Sanità della Regione Lazio.
Secondo le associazioni "i pazienti che stazionano nei pronto soccorso per oltre 48 ore sono raddoppiati negli ultimi due anni; i posti letto a 12 ore dalla permanenza in pronto soccorso sono introvabili, con una media di stazionamento tra le 15 e le 20 ore; accessi e trasporto in ambulanza sono aumentati del 15-20% rispetto all'anno scorso, oltre alla mortalità dei pazienti no covid che è aumentata del doppio negli ultimi due anni per l'incuria pandemica territoriale". I fattori scatenanti sono tanti. Si va dall'ormai storica sofferenza numerica degli organici, mancano circa 400 medici, che si riflette non solo sulla qualità del servizio, ma anche sulla qualità di vita dei medici di emergenza e urgenza. Una mancanza strutturale che rischia di aggravarsi visto che "la perdità di dignità lavorativa e professionale incentiva la fuga" ha sottolineato Ricciuti.
I dati raccontano di come l'impegno lavorativo cumulativo sia aumentato del 30% con organici che però sono ridotti del 30%, senza che si possa far ricorso a neolaureati o dei medici entrati in specializzazione. Nel mirino anche il sistema di controllo e vigilanza che secondo Ricciuti "non mettono in campo azioni di prevenzione e repressione della continue aggressioni" ai medici che lavorano nei pronto soccorso. A questo si è aggiunto il Covid "con contagi che sono 5 volte superiori, la metà dei posti letto attivi rispetto a un anno fa e una gestione interna agli ospedali incomprensibile e anarchica che alla fine va a pesare sempre sul pronto soccorso" ha ricordato Ricciuti.
Il presidente di Simeu Lazio ha voluto anche sottolineare l'aumento "degli accessi e delle permanenze dei pazienti nei pronto soccorsi sempre più schiacciati fra il blocco delle ambulanze e il fenomeno del boarding, ossia la permanenza dei pazienti da ricoverare in pronto soccorso". Infine, anche se in maniera ridotta, continua "l'accesso di codici minori in pronto soccorso". Su questo punto Elio Rosati ha ricordato come nel "Rapporto del 2019 fatto, da Cittadinanzattiva insieme a Simeu, analizzando gli accessi di 24 pronto soccorso emergeva la prevalenza di codici verdi e bianchi; questo deve far riflettere sulla medicina territoriale. Cinque anni fa i medici di medicina generale nel Lazio erano 4.400, oltre il 70% erano over 70 anni.
I cittadini del Lazio guardano al pronto soccorso come l'unico luogo sempre accessibile e aperto e non trovando rispondenza della medicina territoriale si rivolgono al pronto soccorso. Fenomeno che avevamo già presente da anni che il covid ha esacerbato". Le soluzioni, sia a breve che a medio termine, ci sarebbero. Nel breve termine Ricciuti ha evidenziato come si potrebbe iniziare dando "il boarding agli specialisti fuori dall'area del pronto soccorso", che potrebbe togliere un 30% del lavoro al team del pronto soccorso. Poi si potrebbero "affidare i codici minori agli specializzandi dei primi anni" oltre all'attivazione "di tutti i posti letto possibili covid e no covid".
A medio termine "la formazione deve essere fornita dall'azienda- ha concluso Ricciuti- ai medici del pronto soccorso e certificata, gli specializzandi Meu ed equipollenti a partire dal terzo anno potrebbero essere sfruttati con protocolli di intesa con le università, un aumento significativo del gettone di presenza con assegnazione fondi di disagio in esclusiva al Dea e un'assunzione specialisti equipollenti anticipata su fabbisogni con obbligo di rotazione quota parte orario nei pronto soccorso secondo le competenze".
Mantenere in vigore misure in grado di limitare realmente l'impatto sulla salute della popolazione e sul sistema sanitario della diffusione di Covid-19; non imporre ai cittadini limitazioni non più giustificate dalle attuali conoscenze scientifiche sulla variante di Sars-CoV-2 prevalente in questa fase.
È parte del contenuto della proposta di modifica avanzata in un lungo post su Facebook dal direttore dell'Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani, Francesco Vaia, in merito alle norme in materia di quarantena e isolamento contenute nella circolare del ministero della Salute n. 60136 del 30.12.2021, dal titolo 'Aggiornamento sulle misure di quarantena e isolamento in seguito alla diffusione a livello globale della nuova variante Voc Sars-CoV-2 Omicron (B.1.1.529)'.
Tra gli obiettivi della revisione delle raccomandazioni, Vaia propone, inoltre, di raccomandare interventi sostenibili dai sistemi sanitari regionali, per garantire una applicazione sistematica di questi interventi senza generare disuguaglianze sociali o territoriali e di non determinare conseguenze negative sociali o economiche nella popolazione che non siano controbilanciate da una attesa di significativi benefici di salute. Il direttore dell'ospedale romano scrive poi che "le caratteristiche della pandemia Covid-19 nella fase attuale appaiono profondamente mutate, in relazione alla diffusione della variante omicron di Sars-CoV-2 ma anche alla alta percentuale delle persone vaccinate nella popolazione".
Francesco Vaia aggiunge che "la variante omicron ha una contagiosità più elevata delle precedenti, e questo spiega il rapido aumento del numero dei casi, un'incubazione generalmente più breve ed una gravità clinica ridotta, in particolare nelle persone vaccinate. La vaccinazione, seppure abbia un'efficacia ridotta nel prevenire il contagio da omicron, conserva se completata da meno di quattro mesi o integrata con una dose booster, una elevata capacità di ridurre la gravità clinica dell'infezione".
Nella parte finale del documento trovano spazio "le politiche di mitigazione dell'impatto della pandemia, che oggi devono tenere conto di questo scenario mutato, che tra l'altro ha determinato una pressione estremamente elevata sulle attività lavorative e produttive e sui servizi territoriali deputati agli interventi di controllo, ed ha indotto agenzie come l'Ecdc e i Cdc statunitensi a rivedere le indicazioni di quarantena ed isolamento".
All'argomento 'quarantena' è riservata la parte finale del post. Nei non vaccinati e nei vaccinati da oltre 120 giorni (che non hanno ricevuto la terza dose) il team tecnico scientifico per Covid-19 dell'Istituto Inmi Spallanzani propone la riduzione della durata a 5 giorni, con la possibilità di interromperla, in assenza di sintomi, anche senza eseguire un test; nei vaccinati con terza dose o a meno di 120 giorni dalla seconda dose, si confermano le misure di autosorveglianza e uso delle mascherine. Infine, per quanto riguarda l'isolamento, si suggerisce la riduzione della durata a 5 giorni sia per le persone vaccinate che non vaccinate, con possibilità di terminarlo anche in assenza di test. Misure parzialmente diverse potranno essere indicate per i contesti ad alto rischio.
In questi giorni tutto il Paese sta affrontando una nuova ondata della pandemia da Sars-CoV-2.
L'impatto pandemico oggi più che nel passato mette sotto pressione non solo i processi vaccinali, ma anche una serie di scelte territoriali, protocolli e situazioni organizzative su cui Siaarti intende richiamare l'attenzione delle istituzioni sanitarie. "Registriamo tre fenomeni che destano la nostra preoccupazione- dichiara Antonino Giarratano, presidente Siaarti- Il primo è naturalmente legato alle necessità dirette legate alla pandemia Covid.19, quelle delle sepsi e delle insufficienze respiratorie gravi che assorbono centinaia di posti letto e numerosissime risorse umane, tra cui in primo luogo quelle degli Anestesisti Rianimatori.
Il secondo: la sanità non-Covid.19 in molte regioni è travolta dalle esigenze della pandemia e forse anche - in alcune situazioni - dalle necessità di riservare posti letto per poter rimanere nei colori 'piu'chiari e meno-emergenziali'. Sappiamo che questa criticità genera ritardi preoccupanti, ribaditi in particolare dal mondo della chirurgia e già presentati anche con un'interrogazione alla XII Commissione della Camera. E poi c'è il terzo fenomeno trascurato: la sanità per pazienti Covid.19 asintomatici non critici. Si tratta di centinaia di pazienti che vengono rilevati come positivi e che dovranno essere operati, trapiantati, ed assistiti nel postoperatorio intensivo. Occorre programmare oggi ciò che fra poche settimane - finita l'ultima ondata dell'emergenza pandemica - diventerà con ogni probabilità una nuova emergenza sanitaria". Il messaggio Siaarti si basa sulle esperienze concrete dei coordinatori delle varie aree scientifiche della società.
Come osserva Nicola Latronico (responsabile Siaarti rianimazione e terapia intensiva): "Le Terapie Intensive Covid.19 stanno viaggiando verso la saturazione, con la necessità molto prossima di aprire altri posti sottratti alle TI non-Covid.19. Queste ultime, ridotte nella loro capacità di letti e personale, sono sotto pressione per far fronte alle patologie tempo-dipendenti (traumi, stroke), a patologie acute non-Covid.19 (sepsi, insufficienza respiratoria acuta) e per prendere in carico pazienti post-operatori complessi e gravi".
Angelo Gratarola (responsabile Siaarti anestesia e medicina perioperatoria) sottolinea anche altri problemi: "Viviamo una sorta di daltonismo delle fasce di rischio, si rischia infatti l'arancione territoriale per pazienti ricoverati non a causa del Covid.19, ma per le sole positività incidentali scoperte al Pronto soccorso. Questo rappresenta un problema concreto: il ministero dovrebbe infatti - sentite le società scientifiche, in primis Siaarti - offrire indicazioni e linee operative per poter sottoporre ad intervento chirurgico pazienti semplicemente positivi al virus". Analisi confermata da Roberto Balagna (responsabile Siaarti medicina critica dell'emergenza), che sottolinea che "ogni giorno siamo costretti a non operare pazienti che avrebbero necessità di interventi chirurgici di una certa importanza e necessità, ad esempio i pazienti oncologici. Mi riferisco ad una popolazione, sempre più numerosa, di pazienti vaccinati, spesso con tre dosi, asintomatici e che risultano positivi al tampone eseguito al momento del prericovero. Questa popolazione sta diventando sempre più numerosa sia nel contesto dell'emergenza urgenza che per quanto riguarda pazienti che necessitano di trapianti salvavita.
La gestione clinico, logistico ed organizzativa dei percorsi sta diventando sempre più critica. Se non si troveranno presto soluzioni dinamiche, rivedendo le attuali procedure- conclude Balagna- presto l'intero sistema chirurgico sarà nel caos". Nell'ambito dell'area ostetricia, Maria Grazia Frigo (responsabile Siaarti cure materno-infantili) offre una precisazione inedita: "La popolazione ostetrica è ancora troppo esposta al contagio perché ancora in gran parte non vaccinata verso la Sars.CoV.2, nonostante le raccomandazioni del Iss e delle principali società scientifiche del settore. L'evento travaglio di parto o in generale l'urgenza ostetrica non è procrastinabile e questo comporta una pressione sulle strutture che può compromettere la sicurezza del percorso nascita se non è realizzato in forma sicura e con il massimo della prudenza organizzativa".
Pressioni estreme su terapie intensive ed anestesia, percorsi chirurgici a rischio di continuo rimando, pazienti asintomatici, garanzia di parti sicuri, carenza di protocolli chiari in situazioni che non erano preventivabili solamente due o tre mesi fa: Siaarti chiede che questi ambiti non siano sottaciuti o sottovalutati a causa dell'attuale pressione globale. Alla luce di questi dati e considerazioni, Antonino Giarratano, a nome di tutta Siaarti, invita il ministero della Salute e le Regioni a "porre l'attenzione su queste criticità e a pianificare azioni e metodi di intervento, affinché il Ssn, impegnato oggi su due fronti così scottanti (lotta al Covid.19 e programmazione degli interventi previsti nel Pnrr) sappia imprimere un indirizzo chiaro sulla gestione di queste problematiche per evitare il collasso del Sistema Sanitario nei prossimi mesi".
"Le case farmaceutiche Moderna e Pfizer hanno sperimentazioni cliniche in fase avanzata per il vaccino per la fascia d'età 6 mesi-5 anni. Il completamento dei trial clinici è previsto per ottobre 2023 per Pfizer e giugno 2023 per Moderna. Nel frattempo gli arruolamenti stanno andando avanti e quindi sta proseguendo anche la raccolta dati relativa, quando questa sarà completata i dati potranno essere utilizzati per la sottomissione ad Ema ed Aifa".
A illustrare le prossime tappe delle sperimentazioni cliniche per i vaccini contro il Covid per la fascia d'età pediatrica 6 mesi-5 anni è Paolo Palma, responsabile uoc Immunologia pediatrica e Vaccinologia dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. L'immunologo tiene a sottolineare che "questa ondata di contagi legati alla variante Omicron costituisce un razionale forte alla vaccinazione. Il movimento pro vaccino- ribadisce lo specialista- è sicuramente più forte rispetto a quello contrario, anche in virtù dell'esperienza clinica di molte famiglie".
Quanto alle possibili reinfezioni di pazienti pediatrici che abbiano fatto due dosi di vaccino, quindi compresi tra i 12 e i 16 anni al momento, Palma chiarisce che "i dati sulle reinfezioni sono ancora pochi. Confrontandoci con i colleghi di altri Paesi, l'impressione è che il tasso di reinfezione della fascia 12-16 anni sia sovrapponibile a quello delle fasce adulte. Questo anche perché molti di loro hanno fatto la seconda dose, ma non ancora la terza. Quello che abbiamo capito è che la variante Omicron ha sicuramente una maggiore capacità infettiva rispetto alla Delta e dove trova terreno fertile è laddove non c'è un livello anticorpale alto, indipendentemente dall'età".
L'immunologo del Bambin Gesù prende poi posizione riguardo alle ultime affermazioni di Andrea Crisanti secondo il quale è necessaria, per il futuro, una strategia vaccinale di più lungo respiro, superando la logica dei richiami ogni 3/4 mesi: "Come afferma il professor Crisanti, l'optimum sarebbe un vaccino che consenta di non contrarre l'infezione. La vaccinazione contro il Covid attualmente disponibile, infatti, ci permette di limitare il più possibile le conseguenze gravi della malattia, ma per quanto riguarda l'infezione e la trasmissione del virus i vaccini attuali non sono l'optimum per quanto abbiano permesso di ridurre la mortalità. Affermare quindi, che sarebbe ideale arrivare ad avere un vaccino che prevenga l'infezione con una somministrazione unica nella vita rappresenta un desiderio di tutta la comunità scientifica. L'auspicio espresso dal professor Crisanti è condivisibile- ribadisce l'immunologo- Ma non dobbiamo dimenticare che al momento bisogna evitare di diffondere messaggi che possano far emergere dubbi riguardo al fatto che troppe dosi di vaccino possano fare male. La ricerca sta lavorando proprio su questo, un vaccino che induca una forte immunità mucosale, dato che il nostro primo incontro col virus avviene a livello delle mucose del naso e della bocca per prevenire l'infezione del virus", conclude.
Fino al 12 gennaio 2022 sono state esaminate 11467 notifiche di sospette reazioni avverse da medicamenti in correlazione temporale con una vaccinazione anti-Covid-19. La maggior parte delle notifiche, ossia 7190 (62,7 %), è stata classificata come non seria, mentre 4276 (37,3 %) sono state le notifiche di casi seri
Circa la metà delle notifiche è stata inoltrata da operatori sanitari, 5797 (50,5 %) notifiche sono state inviate direttamente dalle persone colpite o dai pazienti. Le persone colpite avevano in media 52 anni, di questi 12,9% aveva un’età pari o superiore ai 75 anni. Nei casi classificati come seri l’età media era di 54,3 anni, mentre nei casi notificati in relazione temporale con i decessi era di 79,6 anni. In 192 casi gravi le persone sono decedute a differenti intervalli di tempo dalla vaccinazione. Nonostante un’associazione temporale con la vaccinazione, non vi sono in nessun caso indizi concreti che la causa del decesso sia stata la vaccinazione.
Le notifiche riguardavano in gran parte le donne e in alcune notifiche non è stato indicato il genere. 7789 (68 %) notifiche si riferiscono al vaccino anti-COVID-19 Spikevax® di Moderna (il vaccino impiegato per circa il 63% delle dosi somministrate e il più utilizzato in Svizzera) e 3354 (29,3 %) al Comirnaty® di Pfizer/BioNTech (utilizzato per circa il 36% delle dosi somministrate). Le notifiche di effetti indesiderati finora ricevute e analizzate non incidono sul profilo rischi-benefici positivo dei vaccini anti-COVID-19 utilizzati in Svizzera. Gli effetti collaterali noti dei vaccini anti-COVID-19 sono elencati nelle informazioni sul medicamento e vengono costantemente aggiornati e pubblicati sul sito www.swissmedicinfo.ch.
"Sull'impatto della vaccinazione nel prevenire nuove infezioni, ricoveri e decessi, l'efficacia del vaccino (riduzione del rischio rispetto ai non vaccinati) nel prevenire la diagnosi di infezione SARS-CoV-2 è pari a 71% entro 90 giorni dal completamento del ciclo vaccinale, 57% tra i 91 e 120 giorni, e 34% oltre 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale".
Lo rende noto il report esteso dell'Istituto superiore di Sanità (Iss). "Rimane elevata l'efficacia vaccinale nel prevenire casi di malattia severa: 95% nei vaccinati con ciclo completo da meno di 90 giorni, 93% nei vaccinati con ciclo completo da 91 e 120 giorni e 89% nei vaccinati che hanno completato il ciclo vaccinale da oltre 120 giorni. Nei soggetti vaccinati con dose aggiuntiva/booster- conclude il report- l'efficacia nel prevenire la diagnosi e i casi di malattia severa è pari rispettivamente al 68,8% e al 98%".
"Dispiace che Cts e ministero della Salute non abbiano voluto recepire alcuni consigli che venivano dal campo", da alcuni dei medici in prima linea nella lotta al Covid-19.
Dalla riunione di ieri del Comitato tecnico scientifico per l'emergenza coronavirus si aspettava "novità diverse" Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive all'ospedale San Martino di Genova, ospite di 'Buongiorno Benessere' su Rai1, programma ideato e condotto da Vira Carbone. "In realtà rimane tutto esattamente com'era", osserva.
"Non si ascolta quello che arriva dai medici sul campo - sottolinea l'esperto - ovvero" in particolare il consiglio "di cercare di cambiare la conta delle persone che sono in ospedale". Oggi infatti "vengono conteggiati tutti come ricoverati Covid. Anche se io entro in ospedale per la dialisi o con un braccio rotto e risulto positivo, mi contano come fossi uno con la polmonite in rianimazione. Non è stato minimamente preso in considerazione ciò che i medici che sono sul campo avevano chiesto".
"Il secondo punto - aggiunge Bassetti - è che continueremo ad avere questo bollettino giornaliero che non serve a nessuno. Non perché io non volessi il bollettino giornaliero - precisa - ma perché si voleva fare un bollettino più ordinato. Un bollettino estremamente disordinato è inutile perché c'è dentro un po' di tutto: si parla di contagi, senza in realtà parlare di pazienti. Io credo che in questa fase sia importante parlare non di quanti tamponi sono positivi, ma di quante persone nuove al giorno sono positive, quante di loro hanno sintomi e quante non ce li hanno".
Il Tar del Lazio, Sezione Terza Quater, ha accolto il ricorso presentato contro il ministero della Salute per l'annullamento, previa sospensiva, della circolare del ministero della Salute "recante 'Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-Cov-2' aggiornata al 26 aprile 2021, nella parte in cui, nei primi giorni di malattia da Sars-Cov-2, prevede unicamente una 'vigilante attesa' e somministrazione di fans e paracetamolo e nella parte in cui pone indicazioni di non utilizzo di tutti i farmaci generalmente utilizzati dai medici di medicina generale per i pazienti affetti da covid".
"Le censurate linee guida, come peraltro ammesso dalla stessa resistente, costituiscono mere esimenti in caso di eventi sfavorevoli - osserva il Tar - In disparte la validità giuridica di tali prescrizioni, è onere imprescindibile di ogni sanitario di agire secondo scienza e coscienza, assumendosi la responsabilità circa l’esito della terapia prescritta quale conseguenza della professionalità e del titolo specialistico acquisito. La prescrizione dell’Aifa, come mutuata dal ministero della Salute, contrasta, pertanto, con la richiesta professionalità del medico e con la sua deontologia professione, imponendo, anzi impedendo l’utilizzo di terapie da questi ultimi eventualmente ritenute idonee ed efficaci al contrasto con la malattia Covid 19 come avviene per ogni attività terapeutica".
Secondo il Tar del Lazio il "contenuto della nota ministeriale, imponendo ai medici puntuali e vincolanti scelte terapeutiche, si pone in contrasto con l’attività professionale così come demandata al medico nei termini indicata dalla scienza e dalla deontologia professionale. Per tali ragioni il ricorso deve essere accolto".
In Italia il 3 gennaio scorso la variante Omicron" del Covid "era predominante, con una prevalenza stimata all'81%, con una variabilità regionale tra il 33% e il 100%". Sono questi i risultati definitivi dell'indagine rapida condotta dall'Istituto superiore di sanità e dal ministero della Salute insieme ai laboratori regionali e alla Fondazione Bruno Kessler. "Mentre la Delta era al 19% del campione esaminato", aggiungono.
Per l'indagine - spiega una nota Iss - è stato chiesto ai laboratori delle Regioni e Province autonome di selezionare dei sottocampioni di casi positivi e di sequenziare il genoma del virus. Il campione richiesto è stato scelto dalle Regioni e Province autonome in maniera casuale fra i campioni positivi garantendo una certa rappresentatività geografica e, se possibile, per fasce di età diverse. In totale, hanno partecipato all'indagine tutte le Regioni e Province autonome e complessivamente 120 laboratori regionali e il Laboratorio di Sanità militare e sono stati sequenziati 2.632 campioni.
Variante Omicron regione per regione
Ormai in Basilicata sul fronte Covid circola solo lei, la variante Omicron di Sars-CoV-2. Delta azzerata. Il mutante segnalato per la prima volta dal Sudafrica si prende la scena. Delta non si è arresa soltanto in Valle d'Aosta, dove mantiene una prevalenza del 66,7% e Omicron è ferma al 33,3%. E il suo declino appare più lento nella Provincia autonoma di Bolzano, dove il sorpasso c'è stato (Omicron è al 54,2%), ma Delta si tiene una fetta del 41,7%. Avanzata di Omicron meno rapida che altrove anche in Friuli Venezia Giulia (64,6%, Delta 35,4%) e in Veneto, dove la nuova variante è al 66,1% e Delta al 33,9%.
Nel resto d'Italia lo scenario è quello di una salita netta e decisa, a velocità diverse ma ormai una realtà consolidata. Se su 535 campioni lucani positivi, ne sono stati sequenziati 11 e tutti erano Omicron. Delta è già sotto il 10% in 4 Regioni: oltre alla Basilicata, succede in Molise dove Omicron è al 97,8% e Delta al 2,2%, in Umbria dove è scesa al 6,7% e Omicron è a quota 93,3%, in Puglia dove Omicron è al 91,9% e Delta all'8,1%. Vicine al 90% di Omicron ci sono anche la Toscana (89,2%), e la Lombardia (88,7%). Il Lazio vede Omicron all'85,4% e Delta ormai minoritaria al 14,6%. Nelle Marche Omicron è all'82%, in Sardegna all'83,3%. Restano sotto l'80%, ma non troppo lontane, Emilia Romagna (79,4%), Sicilia (78,8%), Abruzzo (77,8%), Piemonte (76,8%), Liguria (76,7%), Provincia autonoma di Trento (76%), Calabria (71,4%) e Campania (70,9%) .
"Invocare lockdown nel 2022 è insensato". Parola del virologo Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta, che spiega perché nella fase attuale dell'epidemia di Covid-19 le chiusure sono "insostenibili", mentre la strada giusta è quella di spingere ancora di più sulle vaccinazioni.
"In una popolazione non infinita - scrive su Twitter il fondatore della pagina social 'Pillole di ottimismo' - un virus che si diffonde a grande velocità tende ad esaurire rapidamente i soggetti suscettibili da infettare. E' il motivo per cui i lockdown, oltre che insostenibili, non hanno exit-strategy, in quanto il pool di suscettibili resta intatto. In realtà i lockdown hanno avuto senso in queste tre condizioni: emergenza iniziale; speranza di arrivare a Covid-zero; assenza di alternative (vaccini). Questa era la situazione a marzo 2020", profondamente diversa da quella attuale.
"I vaccini invece sono una soluzione non solo sostenibile, ma efficace a lungo termine - sottolinea lo scienziato - in quanto riducono direttamente il pool di suscettibili all'infezione e comunque, nel caso peggiore, riducono in modo netto il pool di suscettibili a sviluppare malattia severa. Quanto sarebbe bello - auspica Silvestri - se, invece di fare polemiche stupide ed inutili, potessimo tutti quanti internalizzare questi semplici concetti e lavorare insieme per: aumentare le coperture vaccinali nella popolazione; dissuadere i politici da ogni tentazione chiusurista".
Test Covid, "i tamponi antigenici più efficaci ad oggi sono quelli di terza generazione, che hanno una lettura ottica e non visiva, ad esempio i test 'a fluorescenza' immunoenzimatici, che quantificano in maniera più precisa la positività della banda. Ma va sempre ricordato che non esiste un test al 100% sicuro sulla positività e possiamo avere comunque dei falsi negativi".
Lo sottolinea all'Adnkronos Salute Massimo Andreoni, primario di infettivologia al Policlinico Tor Vergata di Roma e direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit).
"Il problema poi è che con Omicron la situazione si complica perché molti test hanno una minore sensibilità per questa variante", ricorda Andreoni.
Quanto alla vaccinazione, "in passato si facevano alcuni vaccini a scuola, era un'abitudine. Poi sono state create le strutture nella Asl e si è smesso. Ma in un sistema che deve rendere più facili le immunizzazioni anti-Covid nella fascia pediatrica, è corretto puntare al ritorno delle vaccinazioni a scuola. Credo che sia una scelta valida e da promuovere a livello nazionale" dice il primario di infettivologia, commentando la possibilità che venga introdotta la vaccinazione anti-Covid a scuola. Ipotesi avanzata anche dal ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi.
"L'azitromicina, e nessun antibiotico in generale, è approvato, né tantomeno raccomandato, per il trattamento di Covid-19". Lo precisa l'Agenzia italiana del farmaco Aifa, "in alle recenti notizie di stampa relative alla carenza dell'azitromicina", nome commerciale Zitromax* nella versione originator, "anche a seguito del suo utilizzo eccessivo e improprio per Covid-19".
L'Aifa puntualizza che "dalle effettuate, la insufficiente attuale non verifiche derivate da o altre anomalie distributive, ma dalla prescrizione del farmaco al di fuori delle indicazioni previste".
PFIZER - "La carenza" dell'antibiotico Zitromax* a base di azitromicina "è ad una richiesta elevata, superiore alle previsioni e alla domanda. Il medicinale disponibile alla fine del mese di febbraio" precisa Pfizer, sottolineando di aver "già provveduto a comunicare all'Aifa, in data 3 gennaio 2022 e 12 novembre 2021, rispettivamente l'indisponibilità della formulazione in compress da 500mg e della polvere per sospensione orale da 200mg/5ml".
AIFA - "Fin dall'inizio della pandemia - ricorda l'ente regolatorio sottolinea il nazionale - Aifa ha scoraggiato fortemente l'uso dell'azitromicina per Covid. Come ampiamente dimostrato da numerose pubblicazioni e ben condotti studi clinici sulle migliori riviste internazionali", infatti l'agenzia, "non vi è alcuna evidenza che l'utilizzo dell'azitromicina abbia un effetto protettivo sulla evoluzione di Covid-19, né in termini di riduzione della trasmissione, né dei tempi di guarigione, o della mortalità. Esistono evidenze chiare e inequivocabili per non utilizzare più in alcun modo azitromicina o altri antibiotici nel trattamento di Covid-19, come chiaramente indicato da tutte le linee-guida internazionali per il trattamento dell'infezione da Sars-CoV-2".
L' Aifa rammenta più in generale che "gli antibiotici non sono efficaci per il trattamento di nessuna infezione virale, inclusa l'influenza stagionale" e che "l'uso indiscriminato dell'azitromicina o di ogni altro antibiotico, oltre a non avere alcun fondamento scientifico, espone al duplice rischio di condizioni di utilizzo di antibiotici per i soggetti che ne hanno bisogno di batteri per lo sviluppo batteriche, creare e di aumentare il rischio di e di aumentare gli antibiotici".
A due anni dall’inizio della pandemia da Covid-19 di nuovo i reparti e gli ambulatori di reumatologia risultano in estrema sofferenza. “Per assicurare l’assistenza ai pazienti con Coronavirus i malati cronici con patologie reumatologie, più o meno gravi, rischiano di essere abbandonati a loro stessi. Riceviamo quotidianamente segnalazioni da parte di pazienti e caregiver di casi in cui stanno saltando visite di controllo e la somministrazione di terapie”. E’ quanto denuncia l’ANMAR (Associazione Nazionale Malati Reumatici) per voce della sua presidente nazionale Silvia Tonolo.
“Siamo in piena quarta ondata come purtroppo dimostrano tutti gli ultimi dati epidemiologici disponibili – afferma Tonolo -. Come un anno fa siamo di nuovo a chiedere alle istituzioni sanitarie, locali e nazionali, uno sforzo maggiore per non interrompere l’assistenza ai milioni di uomini e donne, residenti nel nostro Paese, con una patologia reumatologica. Siamo pienamente consapevoli del momento estremamente difficile che sta vivendo l’intero sistema sanitario nazionale. Al tempo stesso però il diritto alla salute va garantito per tutte quelle persone che sono già alla prese con malattie croniche e che possono essere molto pericolose. Soprattutto è necessario assicurare sempre un monitoraggio costante e un intervento terapeutico tempestivo. Il rischio concreto è che nei prossimi mesi potremmo assistere ad un aumento delle remissioni delle forme più gravi di artriti o altre malattie”.
Un esempio positivo si segnala nella Regione Campania, che con una recente delibera ha stabilito la “non sospensione dei ricoveri e attività specialistiche per i pazienti affetti da malattie rare e patologie immunologiche, per i pazienti trapiantanti e per i pazienti cronici e fragili”. La decisione è stata presa in seguito ad una sollecitazione delle sezioni campane del CReI (Collegio reumatologi Italiani), della SIR (Società Italiana di Reumatologia) e del Coordinamento delle Associazioni di pazienti con patologie reumatologiche, immunologiche e rare.
“E’ una buona notizia e speriamo che le Regioni, in cui ci sono problemi simili, prendano il buon esempio – conclude Tonolo -. Come Associazione di pazienti siamo pronti a collaborare con le istituzioni ed ad assicurare il nostro sostegno Le malattie reumatologiche non possono essere sottovalutate e vanno sempre contrastate nonostante la terribile tempesta, chiamata Covid-19, contro la quale stiamo tutti lottando da ormai due anni”.