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"A settembre un richiamo" anti-Covid "per tutti con il vaccino attuale non ha senso. Ci sono tanti fattori per un no a questa scelta: 17 milioni di italiani hanno contratto la malattia con una velocità incrementale di 10 milioni negli ultimi 6 mesi; una quarta dose di vaccino ad una persona normale non crea sostanzialmente una maggiore difesa dall'infezione e dalla malattia siamo sufficientemente protetti. Una quarta dose con un vaccino aggiornato diventa invece interessante".
Lo sottolinea Guido Rasi, professore di Microbiologia dell’Università Tor Vergata di Roma e direttore scientifico Consulcesi, ex consulente del Commissario all’emergenza Covid-19 il generale Francesco Figliuolo, ospite di Adnkronos Live.
Rasi avverte però: "Non aspettiamoci che questi vaccini 'rivisti' diano una protezione dal contagio tanto superiore a quella vista fino ad oggi, per alcuni - visto che ci sono ancora 70-80 morti al giorno - sarà però fondamentale farla. Direi dunque di programmare una quarta dose a settembre per categorie".
E alla domanda sulla proroga fino a settembre dell'obbligo della mascherina in alcuni luoghi, come ospedali, Rsa e mezzi di trasporto, il professore risponde: "La mascherina la guardo con odio ma serve.Va usata, abbiamo imparato come e sappiamo quando metterla. La marcia indietro del governo è stata assolutamente opportuna".
Quanto alle cure, Rasi osserva che "per qualcosa di sostanzialmente diverso e risolutivo" come terapie contro Covid-19 "dovremo aspettare ancora un po'. Arriveranno, ma non è imminente. Il bagaglio degli antivirali anti-Covid è abbastanza modesto, sono una aggiunta importante, ma quel poco che abbiamo non lo usiamo. E' il caso dell'antivirale in pillola Paxlovid: abbiamo 600mila dosi in frigo che scadranno a dicembre perché ne abbiamo comprato un numero che aveva una sua logica, ma non avevamo un piano per usarlo e soprattutto non abbiamo formato gli operatori".
"L'approccio standard per curare il Covid è cambiato ogni 2-3 mesi - aggiunge - e non si è stati capaci, una volta scoperto il miglior approccio, di comunicarlo e formare gli operatori. C'è stata una mancanza di processi standardizzati, un vulnus enorme. Significa avere un sistema di formazione capillare e in pillole, fatto bene e che chiede 8-10 minuti di aggiornamento con alla fine una certificazione". Secondo Rasi, però, "in Italia ci sono medici che sanno usare bene gli antivirali contro il Covid, trattare i pazienti. I centri di eccellenza si vedono subito, quello deve essere lo standard immediato per le cure".
L'ipotesi di eliminare l'obbligo di isolamento domiciliare dei positivi a Covid "penso che sia un passaggio fondamentale per ritorno alla completa normalità e convivenza con il virus che è molto diverso a quello del 2020 e 2021, quando mettevamo in isolamento le persone positive perché non erano vaccinate e rappresentavano un pericolo per gli altri.
Oggi la situazione è cambiata. Se si farà questo passaggio, spero il prima possibile, sarà quello decisivo per la vera convivenza con il Sars-CoV-2". Così all'Adnkronos Salute Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, commentando quanto affermato dal sottosegretario alla Salute Andrea Costa: "Siamo molto vicini al traguardo" di poter eliminare l'obbligo della quarantena per i positivi al Covid.
"E' giusto togliere l'isolamento per i positivi - sottolinea l'infettivologo - lasciando la libera circolazione delle persone che dovrebbero aver imparato che, se ci sono i sintomi di una infezione respiratoria, devono tutelarsi: o stando casa o indossando la mascherina".
"I sottosegretari alla Salute, Pierpaolo Sileri e Andrea Costa, hanno quasi sempre ottime idee, che trovano d'accordo anche i medici. Ma poi decidono altri - chiosa il medico -. Purtroppo negli ultimi tempi sono poco ascoltati".
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A due anni e mezzo dal primo focolaio di infezione causato dal virus SARS-CoV-2 in nord Italia, quattro pesanti “ondate” pandemiche, lockdown, quarantene, mascherine e una lunga, ma non troppo, sequenza di varianti virali, ultima in ordine cronologico BA5, sub-variante di Omicron, la più contagiosa in assoluto fino ad oggi, virologi ed epidemiologi di tutto il mondo prospettano in un futuro non troppo lontano il passaggio dalla pandemia all’endemia, una condizione in cui il virus SARS-CoV-2 e le sue contagiose varianti saranno stabilmente presenti e circoleranno nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato ma uniformemente distribuito nel tempo.
Insomma, seppur con ciclicità stagionali e riuscendo a tenerlo sotto controllo in termini di ricadute sul sistema sanitario, il COVID-19 imparerà a convivere con noi e noi con lui, come ha spiegato in un ampio articolo apparso di recente sulla rivista scientifica Science la scienziata americana Jennie Lavine.
A che punto è la pandemia? Cos’è successo in questi ultimi due anni e mezzo e cosa ci prospetta il futuro? È presto per parlare di evoluzione della pandemia in endemia? E qual è lo stato dell’arte delle terapie farmacologiche e vaccini?
Virologi, epidemiologi e infettivologi italiani presenti al 14° ICAR – Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, fanno il punto sullo stato dell’arte del COVID-19, con alcune previsioni.
«La circolazione del virus SARS-CoV-2 nella popolazione oggi presenta uno scenario del tutto differente da quello dello scorso anno e ancora diverso rispetto a quello di due anni fa – dichiara Pier Luigi Lopalco, Professore Ordinario di Igiene, Università del Salento – la pandemia si è evoluta ed è cambiata: nella prima fase abbiamo avuto ondate pandemiche massicce, ricoveri in rianimazione, un altissimo numero di infetti e di decessi, riguardanti persone più spesso anziane e fragili, il tutto arginato con mascherine, distanziamento, quarantena, lockdown. Lo spartiacque è stato l’arrivo dei vaccini che hanno aumentato l’immunità di comunità, ridotto gradualmente il numero degli infetti e dei casi di malattia grave. Il virus ha continuato a circolare e a cambiare nelle sue varianti, alcune più contagiose di altre come Omicron. Poi sono arrivati gli anticorpi monoclonali e gli antivirali orali che permettono di curare precocemente l’infezione lieve-moderata. Ci aspettiamo che il virus continui a circolare e adattarsi, ma nel tempo vedremo picchi epidemici di malattia meno numerosi e meno gravi che, grazie a vaccini e farmaci, potremo controllare e non metteranno più in ginocchio il sistema sanitario. Insomma, passeremo gradualmente dall’emergenza alla gestione ordinaria di questa infezione».
La variante in assoluto più contagiosa fino ad oggi è Omicron, la quale da tempo ha iniziato a cambiare dando origine a sub-varianti più o meno contagiose, l’ultima BA5 che sta producendo significativi picchi di infezione in Portogallo e Germania e alcuni casi anche in Italia.
«I dati accumulati tendono a ipotizzare di essere vicini al virus “optimo”; non va infatti dimenticato che un virus quando cambia troppo perde la sua capacità infettante – spiega Carlo Federico Perno, Professore Ordinario di Microbiologia UniCamillus e Direttore di Microbiologia e Diagnostica di Immunologia, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma – il virus infatti cambia per riuscire a selezionare il ceppo perfetto, quello che replica al meglio, ma per ottenere ciò deve fare miliardi di tentativi di cui solo uno funziona. Esempio è la variante Omicron, tutti gli altri virus variati sono scomparsi. Dunque, è ragionevole pensare che questo virus continuerà a cambiare un po' ma potrebbe non avere più bisogno di cambiare troppo. Questa esigenza del virus di cambiare “il giusto” è il principio su cui fonda la sua azione il molnupiravir: tale farmaco ha la peculiarità di “forzare” il virus a continuare a cambiare immotivatamente; in tal modo si producono ceppi altissimamente variati che, in quanto tali, hanno perso la capacità infettante, e sono divenuti innocui. Questo meccanismo di azione di molnupiravir mima ciò che accade già in natura: gli enormi cambiamenti del virus non necessariamente portano a un guadagno, anzi, nella stragrande maggioranza dei casi il ceppo mutato non è infettante e quindi sparisce».
L’introduzione degli antivirali orali, in particolare di molnupiravir, il più prescritto in Italia, nell’ultimo anno stanno cambiando le prospettive di malattia nei soggetti più anziani e fragili che presentano malattia da lieve a moderata. Si accumula da mesi una cospicua esperienza e una mole di dati in real life che dimostra ancor più di quanto dimostrato dagli studi clinici l’efficacia e la maneggevolezza di questo farmaco, di cui si avverte la necessità di aumentare l’utilizzo.
«I dati che abbiamo a disposizione ci dicono che lo studio registrativo, pubblicato su New England Journal of Medicine, ha dimostrato di ridurre nei pazienti che assumono molnupiravir del 50% sia i ricoveri ospedalieri sia l’evento morte – dice Matteo Bassetti, Direttore Clinica Malattie Infettive Ospedale Policlinico San Martino di Genova – lo studio MOVe-OUT, appena pubblicato sulla rivista scientifica Annals of Internal Medicine in questi giorni, dice che molnupiravir non solo riduce le ospedalizzazioni, non solo riduce la morte ma ha anche altri due effetti importanti: in quei pochi pazienti che vengono ricoverati la durata del ricovero è di 3 giorni inferiore rispetto a chi fa placebo; inoltre, riduce in maniera significativa le visite al pronto soccorso e le visite specifiche ambulatoriali. Al San Martino abbiamo trattato fino ad oggi più di 400 pazienti con molnupiravir e i risultati sono molto buoni. Abbiamo visto una riduzione significativa degli accessi in ospedale, ci ha consentito di gestire più persone a casa, che è sicuramente un vantaggio per il paziente e per il sistema sanitario. La Liguria è una delle regioni in cui si prescrivono di più gli antivirali orali. Il modello Liguria per la prescrizione di questi farmaci evidentemente è esportabile».
Oltre la Liguria, un’altra regione virtuosa è il Lazio, al secondo posto dopo il Veneto per prescrizioni di antivirali orali ed esperienza dell’utilizzo di molnupiravir.
«Sicuramente avere la possibilità di utilizzare farmaci antivirali che riescono a bloccare l’evoluzione della malattia da COVID-19 in pazienti fragili ad alto rischio di progressione e ridurre le ospedalizzazioni è un’arma fondamentale nel contrasto al virus – sottolinea Massimo Andreoni, Professore Ordinario di Malattie Infettive Università Tor Vergata di Roma e Direttore Scientifico SIMIT – la nostra esperienza è assolutamente positiva. Abbiamo indicato per il trattamento con molnupiravir 278 pazienti al 7 giugno e il 55% di essi è giunto al nostro ambulatorio inviato dal medico di medicina generale. In tal senso siamo riusciti a creare un buon rapporto tra la medicina di base territoriale e il Policlinico di Tor Vergata. Il 90% dei pazienti ha beneficiato della somministrazione del farmaco. Molnupiravir è stato di gran lunga l’antivirale più prescritto sino ad oggi perché è un farmaco facile da prescrivere, non ha interazioni farmacologiche e quindi i pazienti molto fragili che spesso utilizzano già diverse terapie hanno avuto la possibilità di avere un farmaco che è ben tollerato e non interagisce con altri medicinali. Molnupiravir si è dimostrato estremamente efficace, pochissimi sono stati i pazienti che hanno avuto bisogno del ricovero dopo il trattamento, quasi nulli gli effetti collaterali. Riteniamo che molnupiravir sia un’arma importante capace di bloccare l’evoluzione di malattia, considerato che il coronavirus non è affatto debellato. Dobbiamo imparare ad usarlo molto più spesso e in maniera disinvolta».
"Cosa accadrà in autunno? Questa pandemia ci ha abituati ad una visione di sistema. Serve una risposta di sistema. Questa è una malattia a carattere prevalentemente respiratorio.
Quando il tempo peggiorerà e le malattie respiratorie diventano predominanti, potremmo avere un aumento anche di questo virus, che ormai è un virus che quasi tutti consideriamo endemico. Bisogna fare un'azione di sanità pubblica che probabilmente sarà il richiamo di un vaccino, come accade per l'influenza. Potremmo avere l'esigenza di vaccinare determinati tipi di persone. Vediamo come arriveremo all'autunno. Dovremo fare un vaccino di richiamo, forse. Ma questo vaccino deve avere due capacità. Quella di rispondere alle varianti e se possibile, e questo è un invito alle aziende, il vaccino deve avere capacità universale, ed essere in grado di prevedere anche l'influenza. Servirebbe un vaccino in grado di prevedere sia il covid che l'influenza. E poi dovremmo intervenire nei luoghi della socialità. Nei trasporti, nelle scuole, con gli impianti di ventilazione meccanica. La ventilazione meccanica giusta e corretta protegge tre volte più delle mascherina. Non ce la faccio più a vedere i bambini nelle scuole con la mascherina. Investiamo nella ventilazione meccanica".
Il prof. Francesco Vaia, direttore generale dello Spallanzani, è intervenuto questa notte ai microfoni di Rai Radio2 nel corso de "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai2.
Sulle varianti: "Ogni variante che arriva sostituisce le altre. Adesso vediamo numeri contenuti. L'ultima variante è più contagiosa ma meno patogenica. Le varianti non ci devono spaventare. Vanno studiate e isolate per adeguare alle varianti vaccino e terapie. Le aziende che si occupano di questo devono andare avanti rapidamente. Ormai in questa pandemia siamo al di là del tunnel. Se è finita? Se vogliamo dire che il virus è scomparso, diciamo ad oggi una cosa non vera. Il virus non è scomparso. E' scomparsa però la malattia grave. Le persone nella stragrande maggioranza hanno poca sintomatologia. E quando c'è la sintomatologia siamo in grado di affrontarla con terapie adeguate. Quarta dose in autunno? Io immagino, poi vedremo la lettura epidemiologica, che si dovrà partire dai fragile. Poi dopo vedremo. Mi auguro che tutto ciò che abbiamo fatto fino ad oggi ci porterà ad avere una soglia di protezione talmente alta che potremmo probabilmente fare a meno di vaccinare tutta la popolazione. Il mio è un auspicio, io immagino che quello che abbiamo fatto ad oggi ci metterà in una rete di protezione".
Sul vaiolo delle scimmie: "Diciamo subito che non ci dobbiamo allarmare. Tenere l'attenzione alta ma senza allarmismi. Non ci dobbiamo spaventare, un migliaio nel mondo, una ventina in Italia, e a livello sintomatologico niente affatto grave. E' una malattia che non dobbiamo sottovalutare ma non ci dobbiamo allarmare. Il contagio avviene con contatti molto stretti. La malattia si manifesta con astenia, un po' di cefalea, qualche volta la febbre, e queste macchie che diventano papule, che passano in due o tre settimane. Devono fare attenzione i soggetti che sono in contatto con persone che possono essere contagianti. Bisogna stare attenti ai contatti molto stretti, anche quelli sessuali. La fase dell'incubazione dura in media dieci-dodici giorni e la malattia dura due o tre settimane. Spesso guarisce da sola, senza bisogno di terapie imponenti", ha dichiarato su Radio2.
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I mesi estivi stanno portando un costante abbassamento dei casi di contagio e a un’abolizione quasi completa delle misure di contenimento della pandemia. Segno di un passaggio alla convivenza con il virus, ma non della sua scomparsa.
Una sua possibile recrudescenza nel prossimo autunno rende fondamentale avere degli strumenti terapeutici efficaci da poter utilizzare per prevenire nei soggetti fragili un peggior decorso dell’infezione da SARS- CoV-2. Proprio per questo diventa necessario affrontare gli aggiornamenti di anticorpi monoclonali e antivirali diretti oggi disponibili. Questi alcuni spunti del Congresso ICAR - Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, a Bergamo dal 14 al 16 giugno. Mille specialisti presenti per affrontare le più recenti novità in tema di HIV e Covid, oltre che le principali emergenze dell’infettivologia.
ANTICORPI MONOCLONALI: INDIVIDUATE LE PARTI STABILI DELLA PROTEINA SPIKE
Gli anticorpi monoclonali sono molecole prodotte in laboratorio modificando gli anticorpi prodotti in riposta all’infezione naturale. La selezione avviene sulla base dell’affinità di legame fra l’anticorpo e la proteina spike che il virus utilizza come chiave per entrare nelle cellule. L’anticorpo blocca l’ingresso del virus, impedendone la moltiplicazione. Dalla comparsa di Omicron, l’efficacia di alcuni anticorpi monoclonali è stata messa in discussione. I recenti sviluppi hanno permesso degli aggiornamenti che permettono di guardare con fiducia al futuro. “Le aziende produttrici hanno delle vere e proprie librerie di monoclonali e possono produrne di nuovi in tempi relativamente brevi a fronte di nuove varianti con una proteina spike diversa – sottolinea il Prof. Maurizio Zazzi, co- Presidente di ICAR – Con i frequenti cambiamenti del virus, si sono avute molte evidenze di variazione di attività dei monoclonali. La buona notizia è che si inizia a capire meglio quali parti della proteina spike tendono a rimanere stabili nel tempo e questo aiuta molto nei criteri di selezione dei monoclonali meno soggetti alla perdita di attività con l’evoluzione del virus. Possiamo quindi rassicurare che abbiamo buoni anticorpi monoclonali anche per trattare le varianti più recenti come Omicron BA.4 e BA.5, le quali potrebbero essere protagoniste di una nuova ondata autunnale. In occasione del Congresso ICAR saranno presentati diversi studi italiani di valore volti a dimostrare l’efficacia dell’impiego di monoclonali nella pratica clinica, contesto meno pulito rispetto al trial clinico, ma di indubbio valore quando interpretato correttamente”.
L’UNIVERSALITÀ DEGLI ANTIVIRALI DIRETTI
Gli antivirali diretti rispondono senza distinzioni alle varianti sin qui emerse. “Gli antivirali diretti sono composti chimici di sintesi, sviluppati per bloccare specifiche funzioni nel ciclo di replica virale – spiega il Prof. Maurizio Zazzi – Attualmente ne abbiamo tre a disposizione. A differenza dei monoclonali, che bloccano l’ingresso del virus nella cellula, gli antivirali fermano il virus all’interno della cellula stessa. Le funzioni colpite dagli antivirali non sono soggette a forte evoluzione come la proteina spike, quindi per il momento tutte le varianti rimangono sensibili agli attuali antivirali, incluse le recenti linee evolutive di Omicron BA.4 e BA.5”.
IL BILANCIO ATTUALE DI MONOCLONALI E ANTIVIRALI
Secondo i dati ufficiali AIFA, dal momento in cui sono stati attivati i registri sull’uso dei monoclonali e degli antivirali, oltre 60mila pazienti sono stati trattati in Italia con monoclonali mentre il trattamento con antivirali ha interessato circa 45mila casi. L’antivirale per il trattamento dei pazienti ospedalizzati, il primo ad essere stato reso disponibile, è stato utilizzato in quasi 100mila casi. Resta fondamentale una catena sanitaria decisionale semplice e strumenti digitali efficienti. “La somministrazione deve essere il più precoce possibile, entro 5-7 giorni dall’inizio dei sintomi – evidenzia il Prof. Zazzi – La seconda fase dell’infezione è infatti dominata da meccanismi patogenetici indiretti e bloccare il virus diventa un beneficio clinico molto limitato o nullo. Le terapie sono tutte di breve durata, una singola somministrazione per i monoclonali, 3-5 giorni di terapia per gli antivirali”.
“È doveroso ribadire che le terapie non sostituiscono la vaccinazione, ma la integrano con una cura per quei casi in cui, nell’impossibilità di vaccinare o nella mancata efficacia della vaccinazione, il paziente si infetti e sia valutato a rischio di sviluppare malattia grave. Si deve aggiungere che con i monoclonali è possibile anche un uso in profilassi, cioè per proteggere dall’infezione un soggetto fragile che non sia stato vaccinato o che non abbia risposto alla vaccinazione. Proprio pochi giorni fa la combinazione di due monoclonali, già approvati proprio per profilassi, ha dimostrato la propria utilità anche nel trattamento dell’infezione in persone non ospedalizzate con fragilità. Dunque i presidi per la prevenzione e la terapia migliorano e sono in continuo sviluppo, soprattutto a protezione delle persone a rischio di malattia grave. Assieme alla sorveglianza costituiscono la ricetta per gestire al meglio la pandemia” conclude il Prof. Zazzi.
Emergono messaggi incoraggianti dalla survey realizzata da The European House - Ambrosetti e dal Centro Interdipartimentale per l'Etica e l'Integrità nella Ricerca del CNR in collaborazione con SWG sul livello di fiducia degli italiani nei confronti dei vaccini.
Su un campione di 2.000 cittadini intervistati, il 92% ritiene che i vaccini siano uno strumento sanitario sicuro ed efficace per contrastare le malattie infettive e che per il 33% degli intervistati il livello di fiducia durante la pandemia sia aumentato, soprattutto negli uomini, nelle regioni del Sud e tra la generazione Z.
La survey, fa sapere una nota del CNR, è stata presentata nel corso di un evento realizzato da The European House - Ambrosetti con il contributo non condizionante di Pfizer a Roma. Segnali positivi anche in vista della ripresa della campagna vaccinale anti-Covid: il 77% si dichiara favorevole alla quarta dose della vaccinazione anti-Covid-19 il prossimo autunno e il 17% di chi non si è ancora vaccinato si mostra aperto a farlo. Incoraggianti anche i dati sulla vaccinazione antinfluenzale, con il 95% dei seggetti che si è vaccinato nell'ultima stagione, che si dichiara favorevole a ripetere la somministrazione.
E' emerso anche come l'88% degli intervistati si senta informato sui vaccini, prediligendo come fonti informative il proprio medico di fiducia, il parere degli scienziati e i siti web istituzionali; i canali di informazione informali, quali amici e parenti e social media/forum/blog, restano le fonti più usate da chi è più scettico nei confronti delle vaccinazioni. Buona la conoscenza delle vaccinazioni obbligatorie, scarsa quella relativa agli altri vaccini raccomandati: il 98% degli intervistati dice di essere a conoscenza dell'esistenza di vaccinazioni obbligatorie nell'età pediatrica ma solo il 76% ne ricorda almeno alcuni, valori che scendono rispettivamente al 94% e al 63% per le vaccinazioni raccomandate nell'infanzia.
In entrambi i casi, tra i più informati rientrano le persone con figli minorenni e le donne. La legge sull'obbligatorietà dei vaccini per la fascia 0-16 anni e le numerose iniziative di sensibilizzazione realizzate hanno certamente contribuito ad aumentare il livello di conoscenza delle vaccinazioni pediatriche con conseguenti tassi di copertura che, seppur in diminuzione durante la pandemia, si attestano su valori superiori al 90%. Diversa la situazione delle vaccinazioni dell'età adolescenziale e dell'età adulta. Solo il 34% degli intervistati ha dichiarato di essersi vaccinato contro il papilloma virus (nella fascia d'età 18-30 anni), solo il 28% contro lo pneumococco (nella fascia d'età 60-70 anni), solo l'11% contro l'herpes zoster (nella fascia d'età 60-70 anni).
"La survey fornisce alcune indicazioni importanti sulle leve su cui agire per migliorare la conoscenza e, di conseguenza la fiducia, dei cittadini verso la prevenzione vaccinale", afferma Daniela Bianco, partner e responsabile dell'Area Healthcare di The European House - Ambrosetti. Inoltre, prosegue, "1 su 2 tra gli esitanti e contrari ad alcune vaccinazioni come quella anti- pneumococcica, anti-herpes-zoster e anti-papilloma virus si dichiara disponibile a saperne di più prima di poter decidere. Emerge quindi la necessità di aumentare gli sforzi nella comunicazione, per incrementare il livello di conoscenza dei cittadini anche su queste vaccinazioni". L'83% degli intervistati dichiara di conoscere persone, che esitano o rifiutano di vaccinarsi: se il 26% esita o rifiuta di vaccinarsi per tutti i vaccini in generale, il 57% lo è solo in riferimento al vaccino anti-Covid-19.
I freni alla vaccinazione percepiti sono essenzialmente il timore di rischi per la salute e le lacune informative (informazioni non corrette o mancanti). Anche tra i soggetti che hanno dichiarato di non ritenere i vaccini sicuri ed efficaci e i non vaccinati contro il Covid-19, il timore legato alla sicurezza si conferma la motivazione principale per la non vaccinazione, seguita dai dubbi relativi alle sperimentazioni.
Tra gli strumenti che, a detta degli stessi cittadini, possono contribuire ad aumentare il livello di fiducia nei confronti dei programmi di vaccinazione, figurano un maggior dialogo con il proprio medico o farmacista di fiducia, una maggiore trasparenza delle istituzioni, che si occupano di salute e campagne di informazione più frequenti da parte delle Istituzioni sanitarie; maggior dialogo e miglior informazione sono giudicati gli strumenti più efficaci anche per far cambiare idea alle persone che esitano o rifiutano di vaccinarsi. Anche l'aumento del punti di somministrazione delle vaccinazioni consente di avvicinare maggiormente i cittadini alla prevenzione vaccinale: soprattutto le farmacie ma anche i luoghi di studio e di lavoro, sono quelli maggiormente apprezzati; anche tra chi è meno favorevole ai vaccini o non si è vaccinato contro il Covid-19, la farmacia è un luogo ritenuto appropriato per la somministrazione dei vaccini.
"Il 55% degli intervistati apre anche agli incentivi economici, in primis check-up ed esami medici gratuiti e i bonus per palestre e centri sportivi, strumenti che oltre a incrementare il livello di fiducia dei cittadini hanno anche un ruolo di attivazione dell'attività economica", afferma Andrea Grignolio, responsabile del Vaccine Hesitancy Forum del Centro Interdipartimentale per l'Etica e l'Integrità nella Ricerca del CNR. "Si tratta di strumenti propositivi volti ad ottenere una maggiore adesione vaccinale che potrebbero affiancarsi a quelli già in uso come i disincentivi e le penalizzazioni e che allineerebbero le politiche vaccinali italiane a quelle promosse da molti altri Paesi". In sintesi, il quadro che emerge dall'indagine suggerisce che la fiducia degli italiani verso le vaccinazioni è migliorata dopo la pandemia da Covid-19. Tuttavia, anche tra i vaccinati, emergono alcuni elementi di perplessità, che è necessario affrontare in modo puntuale e mirato. Sono anche emersi chiaramente alcuni ambiti di intervento importanti per rispondere alle richieste dei ciitadini: dalle modalità organizzative dei servizi di vaccinazione e contenuti e canali di comunicazione specifici a strumenti di incentivazione e di engagement, che sono leve fondamentali, per aumentare la fiducia verso le attività di prevenzione vaccinale.
Nel corso dell'evento sono intervenuti anche Maria Chiara Carrozza, presidente del CNR, Rossana Boldi vicepresidente della commissione Affari sociali della Camera dei deputati, Cinzia Caporale, coordinatore del Centro Interdipartimentale e della Commissione per l'Etica e l'Integrità nella Ricerca del CNR, Antonio Gaudioso, capo della Segreteria tecnica del ministero della Salute, Andrea Mandelli vicepresidente della Camera dei deputati e presidente della FOFI, Annalisa Mandorino, segretario generale di Cittadinanzattiva, Paolo Siani, vicepresidente della commissione parlamentare per l'Infanzia e l'Adolescenza e Carlo Signorelli, presidente del NITAG.
Nonostante l'abolizione delle ultime restrizioni relative all'emergenza Covid, restano valide alcune raccomandazioni, soprattutto per i soggetti più fragili. Tra questi, però, non figurano le persone HIV positive: è quanto emerge da uno studio italiano presentato al Congresso ICAR - Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, a Bergamo dal 14 al 16 giugno laddove mille specialisti si confrontano le evidenze che emergono dopo questi anni di studi e statistiche.
ICAR è uno storico appuntamento dedicato all'HIV e alle Infezioni Sessualmente Trasmesse che da un paio d'anni non può fare a meno di dedicare la propria attenzione anche al Covid-19.
COVID E HIV, LO STUDIO ITALIANO - Le persone con HIV stabilmente curate e con una buona risposta viro-immunologica non si sono rivelate maggiormente esposte ad acquisire l'infezione, ad avere una malattia grave né a morire a causa del Covid. "In occasione del Congresso ICAR presenteremo il più grosso lavoro italiano sul tema- sottolinea Franco Maggiolo, co-presidente del Congresso- Questo studio, relativo alla fase in cui non erano disponibili i vaccini, prende in considerazione 155 casi di persone con HIV e con infezione da Covid-19 confrontati con altre 360 con HIV che il Covid non l'hanno avuto. Nessuna delle caratteristiche dell'HIV correlava col rischio di acquisire il Covid. Le variabili che favorivano il contagio e la gravità dell'infezione erano l'età più avanzata e la presenza di diabete; rispetto al rischio di decesso, le uniche due variabili correlate erano l'insieme delle comorbidità e dei valori di cellule CD4 all'ultima misurazione più bassi. Nonostante quest'ultimo elemento possa far pensare all'immunodepressione da AIDS, non si rileva comunque un nesso tra le due infezioni".
"Inoltre- spiega Maggiolo- circa il 20% delle persone con HIV ha avuto un'infezione da SARS-CoV-2 totalmente asintomatica, quindi molte misurazioni sono anche falsate dal mancato conteggio di queste infezioni. A Bergamo sono state identificate 26 persone con HIV che hanno avuto il Covid: un terzo era totalmente asintomatico, gli altri hanno avuto una malattia paucisintomatica, durata 3 giorni, con sintomi similinfluenzali come febbre, tosse, mialgie, faringite, raffreddore importante. Pertanto, in questo momento nei pazienti HIV la quarta dose non è fondamentale. Diverso sarà il discorso in autunno, quando un nuovo vaccino, forse un booster bivalente covid-omicron, sarà raccomandato per gran parte della popolazione".
IL CONGRESSO ICAR 2022: RICERCA, PREMI, SCUOLE, TEST IN PIAZZA - Si svolge da martedì 14 a giovedì 16 giugno la 14a edizione del Congresso ICAR - Italian Conference on AIDS and Antiviral Research, punto di riferimento per la comunità scientifica in tema di HIV-AIDS, Epatiti, Infezioni Sessualmente Trasmissibili e virali. ICAR è organizzato sotto l'egida della SIMIT, Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, di tutte le maggiori società scientifiche di area infettivologica e virologica e del mondo della community. Il Congresso si tiene a Bergamo, presso il Centro Congressi Giovanni XXIII, Viale Papa Giovanni XXIII, 106 e nel limitrofo Bergamo Science Center. I presidenti sono il prof. Andrea Antinori, Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani, Roma; Massimo Cernuschi, medico infettivologo e Presidente di ASA; prof. Franco Maggiolo, ASST Papa Giovanni XXIII, Bergamo; Prof. Maurizio Zazzi, Università di Siena.
"Il vantaggio di crescita riportato per BA.4 e BA.5 suggerisce che queste varianti diventeranno dominanti in tutta l'Unione europea/Spazio economico europeo, probabilmente con conseguente aumento dei casi di Covid-19 nelle prossime settimane".
È quanto afferma il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc). "La maggior parte dei Paesi dell'Unione Europea/Spazio economico europeo (Ue/See)- fanno sapere gli esperti- ha rilevato basse percentuali delle varianti Sars-CoV-2 BA.4 e BA.5, tuttavia molti hanno visto un aumento nelle ultime settimane. In Portogallo, BA.5 è diventata la variante Sars-CoV-2 dominante e le proporzioni crescenti di BA.5 sono state accompagnate da un aumento dei casi di Covid-19". "L'entità dell'aumento dei casi di Covid-19- aggiungono- dipenderà da vari fattori, tra cui la protezione immunitaria contro l'infezione influenzata dai tempi e dalla copertura dei regimi di vaccinazione contro il Covid-19 e dall'estensione, dai tempi e dal panorama delle varianti della precedente pandemia di Sars-CoV-2".
"Sulla base di dati limitati- si precisa- non ci sono prove che BA.4 e BA.5 siano associate a una maggiore gravità dell'infezione rispetto alle varianti circolanti BA.1 e BA.2. Tuttavia, come nelle ondate precedenti, un aumento complessivo dei casi di Covid-19 può comportare un aumento dei ricoveri, dei ricoveri in terapia intensiva e dei decessi". L'Ecdc invita infine i Paesi a "rimanere vigili per i segnali di emergenza e diffusione di BA.4 e BA.5 e a continuare a monitorare i tassi di casi di Covid-19, specialmente nelle persone di età pari o superiore a 65 anni, oltre agli indicatori di gravità come ricoveri, ricoveri in terapia intensiva, occupazione e decessi in terapia intensiva".
Il vaccino anti-Covid di Pfizer-BioNTech per i bambini di età inferiore ai 5 anni è efficace nel produrre una risposta, che blocca il virus e non ha mostrato problemi di sicurezza.
E' quanto ha affermato lo staff della Food and Drug Administration (Fda) Usa. Una posizione che fa da preludio a una revisione cruciale questa settimana da parte dei consulenti indipendenti dell'agenzia. L'analisi degli scienziati Fda è stata pubblicata prima della riunione degli esperti indipendenti dell'Ente, che prenderanno in considerazione una richiesta di autorizzazione all'uso di emergenza del vaccino nei bimbi più piccoli.
Il panel esaminerà anche la richiesta di Moderna per il suo vaccino negli under 6. E anche rispetto a questo vaccino, lo staff Fda aveva affermato nei giorni scorsi che il prodotto è sicuro ed efficace per neonati e bimbi piccoli. Dopo che i consulenti avranno formulato le loro raccomandazioni, la Fda deciderà se seguire i consigli del panel. Se ci sarà via libera, i vaccini per i più piccoli potrebbero essere disponibili a partire dalla prossima settimana negli States.
La Fda ha affermato che il vaccino Pfizer-BioNTech ha soddisfatto il principale requisito di efficacia: ha generato cioè una risposta immunitaria forte almeno quanto quella dei giovani adulti. Nel complesso, ha spiegato l'ente Usa, i dati preliminari hanno indicato che il vaccino era efficace all'80,4% nella prevenzione del Covid sintomatico. Il tasso era del 75,6% per neonati e bambini dai 6 ai 23 mesi e dell'82,4% per i bambini dai 2 ai 4 anni. Ma la Fda ha affermato anche che è troppo presto per raggiungere "conclusioni definitive" sull'efficacia del vaccino. Gli effetti collaterali sono stati definiti minimi e includevano irritabilità e sonnolenza per i bambini di età compresa tra 6 e 23 mesi, dolore al sito di iniezione e affaticamento per quelli di 2-4 anni, ha affermato la Fda.
Negli Usa i sondaggi mostrano che la maggior parte dei genitori intende aspettare prima di vaccinare i propri figli o non è interessata ai vaccini pediatrici. La Fda ha chiarito di ritenere importanti i vaccini in questa fascia. Data l'incertezza della pandemia e la probabile continua trasmissione del virus nei prossimi mesi, la sua disponibilità "per l'uso tra i 6 mesi di vita e i 4 anni avrà probabilmente un effetto benefico sulla morbilità e mortalità associate a Covid in questa fascia di età", ha evidenziato l'agenzia.
Se Pfizer si è settata su un regime a tre dosi per i più piccoli, dopo che con due non si era raggiunto l'obiettivo di risposta immunitaria, Moderna si propone con un regime a due dosi. Quest'ultimo, ha riferito la Fda, ha dimostrato di essere efficace al 51% nella prevenzione delle malattie nei bimbi tra 6 mesi e 2 anni e al 37% in quelli di 2-5 anni.
Il numero di infezioni da coronavirus rimane basso. Come la Svizzera, anche altri Paesi hanno revocato gran parte dei provvedimenti. Per l’entrata in Svizzera non è necessario nessun certificato.
In alcuni casi, però, per viaggiare all’estero può essere indispensabile sottoporsi a un’ulteriore vaccinazione di richiamo. Nella sua seduta del 10 giugno, il Consiglio federale ha pertanto deciso di consentire l’accesso a una vaccinazione di richiamo anche per scopi non medici. Si tratta principalmente di vaccinazioni per viaggiare, i cui costi saranno sostenuti dal viaggiatore stesso.
Secondo i dati attuali, chi è vaccinato completamente oppure vaccinato e guarito continua a beneficiare di una buona protezione da un decorso grave della COVID-19.
Ad eccezione delle persone con un sistema immunitario fortemente indebolito, attualmente da un punto di vista medico ed epidemiologico non è necessaria un’ulteriore vaccinazione di richiamo. Anche per le persone particolarmente a rischio è più opportuno effettuarla soltanto quando il numero di infezioni tornerà a salire, poiché la protezione vaccinale è massima nelle settimane e mesi subito dopo la vaccinazione. Per l’autunno è perciò probabile un allargamento della cerchia di persone per cui la vaccinazione di richiamo è raccomandata.
Prima delle vacanze estive, l’Ufficio federale della sanità pubblica (UFSP) e la Commissione federale per le vaccinazioni (CFV) forniranno informazioni aggiornate sulle raccomandazioni di vaccinazione per l’autunno e l’inverno 2022-2023.
Vaccinazione di richiamo per i viaggi all’estero
Ogni Paese stabilisce autonomamente i propri requisiti di ingresso. Perciò è possibile che per un viaggio all’estero sia comunque necessario sottoporsi a un’ulteriore vaccinazione di richiamo, che sarà disponibile in strutture di vaccinazione designate dai Cantoni. I costi dovranno essere sostenuti dal viaggiatore stesso e il prezzo sarà fissato dai Cantoni e dalle strutture di vaccinazione. Tutte le vaccinazioni raccomandate, come la seconda vaccinazione di richiamo per le persone con un sistema immunitario particolarmente indebolito, rimarranno gratuite.
Un’ulteriore vaccinazione di richiamo per poter viaggiare viene effettuata al di fuori dell’omologazione di Swissmedic (off-label) e senza la raccomandazione dell’UFSP e della CFV. Può essere somministrata dal medico curante nel rispetto dell’obbligo di diligenza.
Adottati i regolamenti UE sul certificato
Per i viaggi internazionali con certificato COVID svizzero è importante che quest’ultimo sia compatibile con le direttive internazionali. In questo contesto, il Consiglio federale ha deciso oggi di recepire due nuovi regolamenti dell’Unione europea (UE) sul certificato COVID digitale dell’UE, che quest’ultima adotterà alla fine di giugno. In questo modo la base legale del certificato COVID digitale dell’UE è prorogata fino al 30 giugno 2023.
Avvertenze per i viaggiatori
Attualmente non vi sono limitazioni all’entrata in Svizzera: non è necessario presentare un certificato.
Ogni Paese stabilisce autonomamente i requisiti di ingresso (p. es. test, vaccinazione, intervallo massimo dall’ultima vaccinazione e documentazione richiesta). Ai viaggiatori si raccomanda di informarsi sui requisiti corrispondenti poco prima della partenza. Se un Paese accetta un intervallo di tempo dall’ultima vaccinazione superiore ai 270 giorni, il certificato rilasciato in Svizzera rimane valido.
Tuttavia, molti Paesi extra europei non accettano i certificati elettronici o l’app per certificati della Svizzera. È dunque necessario portare sempre con sé il certificato COVID anche in forma cartacea e chiarire se il Paese di destinazione richiede il libretto di vaccinazione internazionale (giallo) per l’ingresso.
Mantenere i livelli di insulina nel sangue entro parametri rigorosi e salutari è un obiettivo quotidiano per le persone con diabete. I ricercatori giapponesi hanno scoperto che la regolazione dei livelli di insulina nel sangue può anche aiutare a ridurre il rischio di contrarre il COVID-19.
In uno studio pubblicato su Diabetes, i ricercatori dell'Università di Osaka hanno rivelato che una proteina chiamata GRP78 aiuta il virus che causa il COVID-19 a legarsi ed entrare nelle cellule. GRP78 è una proteina che si trova nel tessuto adiposo. Le persone anziane, obese e diabetiche sono tutte più vulnerabili al COVID-19 e, sebbene le ragioni di ciò non siano ancora del tutto chiare, il team dell'Università di Osaka fa luce su questo problema.
"Recentemente è stato suggerito che il tessuto adiposo possa essere un importante serbatoio per SARS-CoV-2, il virus che causa il COVID-19- afferma l'autore principale dello studio Jihoon Shin-Per questo motivo, abbiamo voluto indagare se esiste un legame tra l'eccesso di tessuto adiposo nei pazienti anziani, obesi e diabetici e la loro vulnerabilità al COVID-19".
Per fare ciò, i ricercatori hanno esaminato GRP78, recentemente ipotizzato essere coinvolto nell'interazione di SARS-CoV-2 con le cellule umane. Il metodo principale con cui SARS-CoV-2 entra nelle cellule umane è tramite una proteina spike sulla superficie virale, che si lega a una proteina della superficie cellulare umana chiamata enzima di conversione dell'angiotensina 2 (ACE2). Shin e colleghi hanno scoperto che la proteina spike può anche legarsi direttamente a GRP78 e che la presenza di GRP78 aumenta il legame con ACE2. Per avere un'idea del coinvolgimento di GRP78 nella vulnerabilità al COVID-19, hanno studiato la quantità di proteina GRP78 presente nei tessuti di pazienti anziani, obesi e diabetici.
"I risultati sono stati molto chiari- aggiunge l'autore senior Iichiro Shimomura- L'espressione del gene GRP78 era altamente sovraregolata nel tessuto adiposo ed era elevata con l'aumentare dell'età, dell'obesità e del diabete".
È noto che l'invecchiamento, l'obesità e il diabete sono associati ad un aumento dei livelli di insulina nel sangue. Pertanto, il gruppo si è chiesto se l'insulina fosse coinvolta nell'espressione di GRP78. Hanno scoperto che l'esposizione delle cellule all'insulina induceva l'espressione di GRP78. È importante sottolineare che hanno scoperto che il trattamento che utilizza farmaci antidiabetici ampiamente prescritti, che riducono i livelli di insulina riduce con successo il livello di espressione di GRP78. Sono andati oltre e hanno dimostrato che l'esercizio e la restrizione calorica in un modello murino funzionavano anche per ridurre i livelli di GRP78 nel tessuto adiposo.
“I nostri risultati suggeriscono che un livello elevato di insulina nel sangue è un importante fattore di rischio che può predisporre le persone anziane, obese e diabetiche all'infezione da COVID-19. Pertanto, il controllo dell'insulina nel sangue con interventi farmacologici o ambientali, come l'esercizio, potrebbe aiutare a ridurre il rischio di questi pazienti", afferma Shin.
Dato l'impatto globale della pandemia di SARS-CoV-2, i risultati di questo studio forniscono importanti spunti su come ridurre il rischio di infezione in questi pazienti vulnerabili. Ridurre l'espressione di GRP78 mediante interventi farmacologici o ambientali può migliorare i risultati in questi pazienti.
Diabetes: Possible involvement of adipose tissue in patients with older age, obesity, and diabetes with coronavirus SARS-CoV-2 infection (COVID-19) via GRP78 (BIP/HSPA5): Significance of hyperinsulinemia management in COVID-19 . DOI: 10.2337/db20-1094
Antonio Caperna
L'amministrazione Biden annuncerà oggi lo stop alla richiesta di un test anti covid negativo prima di entrare negli Stati Uniti.
Lo riferisce la Cnn, secondo cui lo stop deciso dai Centri di controllo e prevenzione della malattie (Cdc) entrerà in vigore domenica a mezzanotte. I Cdc rivaluteranno la loro decisione tra 90 giorni, nel timore di nuove possibili varianti del covid.
Sulle mascherine "siamo di fronte a uno spettacolo ignobile della politica, devo dire che il rischio forte è di inficiare quel che di buono è stato fatto prima. Con questo balletto 'la levo e poi la metto', le persone sono disorientate e confuse.
Non si sa se è giusto o meno usare la mascherina e c'è una gravissima responsabilità del ministero della Salute che ha avuto voci discordanti: Speranza ha parlato in un certo modo, molto diverso rispetto ai sottosegretari. Non si capisce quale sia la vera volontà del ministro.
Insomma, stiamo rasentando il ridicolo. Anzi, ci siamo dentro. Perdiamo tempo su queste cose, mentre andrebbe detto oggi cosa il Governo farà a ottobre, ma dal ministro Speranza non sento indicazioni. Chi compra i vaccini, dove si faranno, chi li dovrà fare? Si naviga a vista con tanto pressappochismo". Così all'Adnkronos Salute Matteo Bassetti, direttore Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, commenta il caos sull'obbligo o meno delle mascherine.
Secondo l'infettivologo, "dopo un certo momento sarebbe stato giusto dire che la mascherina era raccomandata o fortemente raccomandata ad anziani, fragili o dove non si può mantenere il distanziamento. Invece - rimarca Bassetti - si è detto che la mascherina al seggio si può togliere perché i dati epidemiologici sono migliorati. Ma dove? Sono peggiorati nell'ultima settimana. Non si raccontino le balle agli italiani. La decisione è stata solo politica - evidenzia Bassetti -. E siccome anche la mascherina a scuola è una decisione politica del ministro dell'Istruzione Bianchi, che ha addirittura detto che è un insegnamento, non si sa di cosa, si assuma la responsabilità di questo. E' il ministro che lo vuole e non la scienza".
Prima della fine del mese 10 milioni di dosi pediatriche di vaccino anti Covid saranno disponibili per i bambini americani sotto i cinque anni.
Lo ha annunciato la Casa Bianca, precisando che il piano prevede che i vaccini saranno distribuiti a migliaia di siti, con un focus prioritario sui pediatri ed i medici di famiglia, che si presuppone siano le figure a cui i genitori preferiranno rivolgersi per l'immunizzazione dei figli.
"Sappiamo che ci sono molti genitori che stanno aspettando con ansia la possibilità di vaccinare i propri figli più piccoli - ha spiegato un funzionario dell'amministrazione Biden- ogni giorno siamo concentrati per fare in modo da rendere il vaccino più accessibile ad un numero sempre maggiore di famiglie".
Oltre che ai pediatri, il vaccino per bambini verrà distribuito ai centri sanitari locali, alle cliniche sanitarie rurali, agli ospedali pediatrici ed alle farmacine. Inoltre l'amministrazione intende avviare una campagna di informazione per le famiglie, nel tentativo di superare dubbi e resistenze all'immunizzazione dei più piccoli. Secondo i dati dei Centers for Disease Control and Prevention solo il 30% dei bambini americani tra i 5 ed gli 11 anni è stato vaccinato contro il Covid.
"Dietrofront del Governo sull’obbligo delle mascherine per votare al referendum di domenica 12 giungo è ipocrita ed è solo una decisione della politica, non c'è nulla di scientifico.
Come la maggioranza delle decisioni prese, scelte politiche camuffate come se avessero evidenze scientifiche. Togliere l'obbligo della mascherina per andare a votare ma tenerlo per i ragazzi che devono fare gli esami a scuola è una presa in giro. Non si trattano così i cittadini". Così all'Adnkronos Salute Matteo Bassetti, direttore Malattie Infettive dell'ospedale San Martino di Genova, commenta il passo indietro del Governo sull'obbligo della mascherina per andare a votare, sarà infatti solo raccomandata, deciso da una circolare del Viminale, in seguito alla sottoscrizione di un accordo tra il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese e il ministro della Salute Roberto Speranza.
Omicron 5, ancora "più contagiosa" della Omicron 2 oggi dominante nel mondo, "ma associata a una sintomatologia poco grave", potrebbe rappresentare il 'canto del cigno' della pandemia di Covid-19 secondo Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell'ospedale Sacco di Milano.
Le caratteristiche della sottovariante BA.5, che insieme alla 'sorella' BA.4 ha alimentato una quinta ondata di Covid in Sudafrica e sta ormai circolando anche in Europa con un'impennata di casi per esempio in Portogallo, sono infatti "in piena sintonia con quella che - sottolinea l'esperta all'Adnkronos Salute - in base alla storia delle epidemie è la fase della coda pandemica".
"Le code delle pandemie - evidenzia la microbiologa - di solito sono caratterizzate proprio da virus che hanno un'aggressività molto attenuata in termini di malattia associata, ma un'infettività molto maggiore proprio perché il patogeno cerca di conservarsi". Per questo Omicron 5, che "sicuramente si diffonderà dappertutto perché è molto contagiosa, non deve assolutamente preoccuparci in quanto poco grave", tranquillizza Gismondo.
La sua visione è ottimistica anche pensando al prossimo autunno: "Se le cose dovessero rimanere così, come auspichiamo", il ritorno della stagione fredda "non dovrebbe riservarci particolari problemi - spiega - Sicuramente avremo più contagi, ma non patologie gravi. E nel caso in cui il virus dovesse avere un colpo di coda, abbiamo gli strumenti per fronteggiarlo".
"Omicron 5 è ancora più contagiosa delle altre" 'versioni' di Sars-CoV-2, "ma i sintomi" che causa "sono sostanzialmente gli stessi, perché non è che un virus possa cambiare le proprie caratteristiche in modo evidente. Parrebbe anzi un po' meno cattiva" e ciò dimostra che "tutto sommato questo virus sta seguendo la via più naturale: quella che lo porta a una maggiore contagiosità, unita a una maggiore benevolenza" ha sottolineato ieri all'Adnkronos Salute il virologo Fabrizio Pregliasco, docente all'università Statale di Milano.
Per l'esperto "è presumibile che" la sottovariante BA.5 "diventi prevalente, proprio perché ha caratteristiche evolutive favorevoli". E guardando all'autunno, "salvo varianti più minacciose che ricordiamoci possono emergere per caso, perché il virus non è intelligente", secondo il direttore sanitario dell'Irccs Galeazzi il punto fermo è che "Covid ci sarà. Continuo a pensare che ci dovremo aspettare un andamento a onde - ha ribadito - come quelle prodotte da un sasso in uno stagno".
Continua a scendere la curva dei ricoveri Covid negli ospedali d'Italia. "Il trend di calo sembra essersi ormai consolidato da oltre un mese: per la quinta settimana consecutiva, infatti, diminuisce il numero di pazienti ricoverati nelle aree Covid, sia nei reparti ordinari sia nelle terapie intensive, del 16,3%".
E' quanto emerge dal report degli ospedali sentinella della Fiaso, la Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere, dell'8 giugno.
Nei reparti Covid ordinari la riduzione settimanale "si attesta al 15,9%. Nelle rianimazioni il dato è ancora più significativo: il numero dei ricoverati scende del 24,2% e si registra un incremento dei pazienti no vax che risultano a oggi il 40% di chi occupa un posto letto in terapia intensiva - continua la Fiaso - Mentre la stragrande maggioranza dei soggetti vaccinati finiti in rianimazione risulta aver ricevuto la somministrazione del vaccino da oltre 4 mesi e, pur affetta da altre patologie, non ha fatto la dose booster".
Per quanto riguarda i pazienti pediatrici, "complessivamente sono 28 i pazienti sotto i 18 anni ricoverati nei quattro ospedali pediatrici e nei reparti di pediatria" degli ospedali aderenti alla rete dei sentinella Fiaso. Fra questi, "due bambini ricoverati in terapia intensiva con Covid e tre casi di Mis-C", la sindrome infiammatoria multisistemica. "La situazione mostra un aumento rispetto alla settimana scorsa (+12 casi) anche se i numeri restano bassi", conclude il report.
Secondo i dati diffusi dai reparti sanitari delle 47 prefetture giapponesi, raccolti dal ministero della Salute, sono state finora oltre 740mila le dosi di vaccino prodotte dalla casa farmaceutica statunitense Moderna Inc. ad essere state distrutte a causa della scadenza.
I dati, che interessano in particolare 27 delle 52 grandi città esaminate, riflettono la riluttanza della popolazione più giovane a ricevere la terza dose di richiamo e la scarsa fiducia da parte delle persone verso il vaccino in questione, a causa del più elevato numero di casi di reazione allergica riscontrati rispetto al vaccino Pfizer. Ad oggi, secondo quanto diffuso dal ministero, sono 75 milioni i giapponesi ad aver ricevuto la terza dose di richiamo, di cui circa 31 milioni hanno ricevuto il vaccino Moderna, mentre circa 44 milioni hanno preferito quello Pfizer.
Ci sono errori "sorprendenti" nelle stime dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) su quanti decessi ha causato nel mondo la pandemia da Covid-19. A evidenziarlo è un articolo pubblicato su 'Nature' dal titolo 'Bilancio delle vittime Covid: gli scienziati riconoscono gli errori nelle stime dell'Oms'.
"In una revisione di un documento tecnico sui loro metodi- si legge nell'articolo- i ricercatori hanno ridotto del 37% la stima dei decessi correlati alla pandemia della Germania, portando il suo tasso di mortalità in eccesso al di sotto di quelli del Regno Unito e della Spagna". I ricercatori "hanno anche aumentato del 19% la loro stima per la Svezia". Lo studio dell'Oms, pubblicato il 5 maggio, aveva stimato tassi di mortalità in eccesso, ovvero l'aumento della mortalità al di sopra dei livelli previsti, per 194 paesi. L'Organizzazione stimava che in tutto il mondo, da gennaio 2020 a dicembre 2021, la pandemia avesse mietuto tra 13,3 milioni e 16,6 milioni di persone, più di 2,5 volte il numero di decessi segnalati per Covid-19. Alcuni osservatori, però, "hanno presto espresso preoccupazione per i numeri di alcuni paesi, in particolare della Germania- spiega Nature- Si pensava, infatti, che il paese avesse affrontato il Covid meglio di molti altri in Europa, ma l'Oms stimava che il suo tasso di mortalità in eccesso fosse più alto di molti dei suoi vicini".
"Quasi subito, ci siamo resi conto che c'era un problema", sottolinea Jon Wakefield, statistico dell'Università di Washington a Seattle, che guida il progetto dell'Oms sui decessi globali Covid. "Gli errori contano- sottolinea l'articolo di Nature- perché lo studio dell'Oms ha rapidamente ricevuto l'attenzione dei media in tutto il mondo come stima ufficiale del numero reale di vite perse a causa della pandemia. Il progetto è anche politicamente delicato: alcuni critici hanno utilizzato la prima serie di stime errate per sfidare la politica pandemica tedesca". A contestare i numeri dell'Oms anche il governo indiano, secondo cui la stima dell'Oms è circa 10 volte superiore al bilancio ufficiale delle vittime.
Dov'è l'errore? "Per calcolare quante persone sono morte a causa della pandemia, i ricercatori conteggiano tutti i decessi nel periodo e sottraggono una linea di base dei decessi previsti (quelli che si sarebbero verificati in assenza di una pandemia). Ciò che resta sono i decessi al di sopra della norma:una misura più affidabile della mortalità correlata alla pandemia rispetto a quanto forniscono i dati ufficiali, perché molti paesi hanno sottostimato o mancato i decessi per Covid. Questo metodo può fornire solo approssimazioni, perché richiede una modellizzazione complessa e una revisione regolare con l'arrivo di nuovi dati- spiega ancora l'articolo- Ad esempio, solo 100 paesi del mondo hanno finora riportato dati sui decessi nazionali ogni mese per almeno una parte del periodo della pandemia , dice l'Oms". I ricercatori modellano la mortalità attesa estrapolando le tendenze storiche. Ad esempio "il World Mortality Dataset (Wmd) utilizza un'estrapolazione lineare dai decessi nel 2015-19, per tenere conto delle tendenze di mortalità sottostanti- specifica Nature- Tuttavia, il gruppo dell'Oms sembra aver utilizzato una funzione matematica, che sembrava essere troppo sensibile a un leggero calo dei decessi in Germania nel 2019- poiché- prevedeva anche un calo dei decessi nel 2020 e nel 2021".
Dopo le critiche, il team dell'Oms ha riesaminato il metodo di estrapolazione. Poi, però, è venuto fuori un secondo problema: i loro dati sui decessi effettivi in Germania non corrispondevano ai dati grezzi degli uffici statistici tedeschi. Questa discrepanza ha interessato non solo i decessi segnalati nel 2020 e nel 2021, ma anche i dati storici del 2015-19. Ciò aveva svolto un ruolo importante nella bassa estrapolazione delle morti previste. "La discrepanza si è verificata perché gli scienziati dell'Oms avevano aggiustato, o 'scalato'- scrive ancora Nature- i dati grezzi sulla mortalità". Wakefield afferma che l'Oms lo fa spesso per i dati che riceve dai paesi. "Questo- continua l'articolo- può essere per una buona ragione: l'Oms cerca di adeguarsi alla sottosegnalazione, alle incoerenze con altri flussi di dati o agli errori di 'completezza', quando si prevede che i dati sulla mortalità degli ultimi mesi aumenteranno man mano che arrivano più risultati, ad esempio. Ma era meno ovvio che questo processo dovesse applicarsi alla Germania, un paese con un resoconto dettagliato della mortalità".
"Dobbiamo esaminare il modo in cui viene effettuato l'adeguamento per la sottosegnalazione", afferma Wakefield. Il suo team è tornato ai dati grezzi e ha utilizzato un'estrapolazione lineare nel 2020 e nel 2021. L'effetto complessivo riduce le stime dei decessi in eccesso in Germania nel 2020-21 da 195.000 a 122.000 (con un intervallo compreso tra 101.000 e 143.000). Il suo tasso di mortalità in eccesso scende a 72,7 ogni 100.000 persone all'anno, rispetto a 116 all'anno nel precedente rapporto dell'Oms. I ricercatori hanno anche corretto i numeri dell'Oms per la Svezia, a seguito di critiche simili. Un gruppo che ha pesato è stato il Covid-19 Actuaries Response Group, un forum di attuari, per lo più con sede nel Regno Unito, che hanno esaminato regolarmente l'impatto della pandemia sulla mortalità. Il 16 maggio il gruppo ha scritto che i dati sui decessi della Svezia nel rapporto dell'Oms non corrispondevano a quelli di Statistics Sweden.
"In effetti- si legge su Nature- i dati dell'Oms sembravano differire dalle fonti di segnalazione ufficiali per molti paesi europei. Si sono rivelati gli stessi due problemi: la tecnica e il ridimensionamento. Ancora una volta, il team di Wakefield ha rivisto il suo approccio per utilizzare l'estrapolazione lineare sui dati grezzi. In questo caso, il tasso di mortalità in eccesso annuale della Svezia è aumentato da 55,8 a 66,1 ogni 100.000". "Anche altri paesi europei- conclude l'articolo- potrebbero essere interessati dalla scala dei decessi dell'Oms: la Norvegia è un altro paese su cui i critici hanno sollevato domande". Wakefield afferma che il suo team ora rivisiterà le procedure di ridimensionamento dell'Oms e il modo in cui estrapola dai dati storici.
In una percentuale di guariti dal Covid-19 permane una condizione di malessere definita long-Covid, caratterizzata da astenia, affaticamento, respirazione difficoltosa e da sintomi cognitivi, come perdita di memoria, difficoltà di concentrazione, ansia e depressione, indicati spesso come ‘brain fog’ e alla base del quadro clinico definito come NeuroCovid.
Un recente studio pilota, coordinato da Marco Fiore e Carla Petrella dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Cnr-Ibbc), ha portato all’individuazione di biomarcatori precoci del long-Covid-19 negli adolescenti. La ricerca è stata condotta presso il Policlinico Umberto I dell’Università Sapienza di Roma, in collaborazione con Raffaella Nenna, Fabio Midulla, Luigi Tarani del Dipartimento materno infantile e scienze urologiche e Antonio Minni, Dipartimento organi di senso. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Diagnostics.
“Abbiamo misurato i livelli di alcuni biomarcatori infiammatori e di due neurotrofine (Ngf e Bdnf), fattori proteici che regolano la crescita, la sopravvivenza e la morfologia dei neuroni, nel siero di una piccola coorte di ragazzi e ragazze che avevano contratto l'infezione durante la seconda ondata della pandemia, tra settembre e ottobre 2020, ma negativi al momento del prelievo. Sono stati suddivisi in 3 gruppi: asintomatici, sintomatici acuti, sintomatici acuti che nel tempo hanno sviluppato sintomi long-Covid-19. Questi dati sono stati poi confrontati con i valori emersi da un gruppo campione che non aveva contratto la malattia”, spiega Fiore. “Abbiamo riscontrato che i livelli sierici di Ngf erano inferiori in tutti gli adolescenti che avevano contratto l’infezione da Sars-Cov-2, rispetto ai controlli sani. La relazione inversa fra livelli di Ngf e sindromi da stress è ampiamente riportata dalla letteratura scientifica”.
La ricerca ipotizza che la diminuzione di Ngf rifletta un’attivazione persistente dell'asse dello stress,dovuta a un effetto diretto del virus oppure agli effetti psico-sociali conseguenti all'isolamento e alle modifiche della routine quotidiana riscontrate durante i periodi di quarantena. “I livelli di Bdnf, analogamente al biomarcatore infiammatorio Tgf-β, erano invece più elevati negli individui che si erano ammalati rispetto a quelli sani, ma solo nelle ragazze sintomatiche che poi avrebbero sviluppato sintomi long-Covid-19”, aggiunge Petrella. “In particolare, il persistente aumento dei livelli sierici di Bdnf e Tgf-β era presente nelle adolescenti che presentavano sintomi respiratori durante la fase acuta dell'infezione”.
Gli studi andranno approfonditi, allargando la ricerca a una coorte di adolescenti più ampia. “I dati dello studio supportano però già l’ipotesi che le variazioni sieriche di Ngf e Bdnf rappresentino un campanello d'allarme per l'effetto a lungo termine di Covid-19, aprendo nuovi campi di indagine sia nell’ambito degli effetti fisici sia in quelli psicologici potenzialmente associabili al NeuroCovid”, conclude Fiore.
L'aumento dei contagi Covid registrato in Portogallo e in Germania per l'emergere della sottovariante Omicron 5 "non deve spaventarci, non rovinerà la nostra estate". Lo sottolinea all'Adnkronos Salute il virologo Mauro Pistello, direttore dell'Unità di virologia dell'Azienda ospedaliera universitaria di Pisa e vicepresidente della Società italiana di microbiologia.
"Abbiamo un'altissima fetta della popolazione vaccinata con tre dosi - ricorda Pistello - Il caldo poi fisiologicamente aiuta perché le radiazioni ultraviolette fanno soffrire il virus, persiste meno in ambienti aperti. In autunno è chiaro che il virus potrà tornare alla carica e per questo occorre farci trovare preparati soprattutto con nuovi vaccini aggiornati alle ultime varianti". E sui rischi legati a Omicron 5, Pistello spiega che "segue tutte le altre che si sono già presentate, inizialmente sembrano creare sfracelli, ma poi non è così. Intorno al 12-13 giugno avremo i nuovi dati della survey sulle varianti in circolazione in Italia e sapremo meglio quanto si sono diffuse Omicron 4 e 5".
Una esposizione a lungo termine all'inquinamento atmosferico prima della pandemia è legata ad un rischio più alto di sviluppare una forma grave di Covid-19. E' quanto ha stabilito una ricerca tedesca presentata a Euroanaesthesia 2022, il congresso annuale della Società europea di Anestesiologia e Terapia Intensiva (Esaic) a Milano fino a lunedì.
Lo studio tedesco ha scoperto che "le persone che vivono in territori con livelli più elevati di biossido di azoto inquinante (NO2) avevano maggiori probabilità di aver bisogno di cure in terapia intensiva e di ventilazione meccanica in caso di contagio da Sars-CoV-2". Aver respirato troppo biossido di azotoprima dell'emergenza ha reso l'organismo più vulnerabile al virus.
Susanne Koch, del dipartimento di Anestesiologia e Terapia Intensiva, Charité-Universitätsmedizin di Berlino, ha esplorato l'impatto dell'inquinamento atmosferico a lungo termine e la necessità di trattamento in terapia intensiva e ventilazione meccanica dei pazienti positivi. "Il team guidato dalla Koch ha monitorato i dati sull'inquinamento atmosferico dal 2010 al 2019, questi numeri sono stati utilizzati per calcolare il livello medio annuo di biossido di azoto a lungo termine per ciascuna contea della Germania. Questo variava da 4,6 µg/m³ a 32 µg/m³, con il livello più alto a Francoforte e il livello più basso a Suhl, una piccola contea della Turingia", riporta la ricerca.
Il periodo preso in esame è stato dal 16 aprile al 16 maggio 2020, quando sono state revocate le restrizioni al lockdown, 392 delle 402 province tedesche sono state incluse nell'analisi. I ricercatori hanno anche valutato i fattori demografici (densità della popolazione e distribuzione per età e sesso), i fattori socioeconomici e i parametri sanitari, comprese le condizioni di salute preesistenti che possono influenzare la gravità del Covid-19. Ebbene, lo studio ha rilevato che c'era una maggiore necessità di trattamento in terapia intensiva e la ventilazione meccanica per i pazienti dei territori con livelli medi annuali di NO2 più elevati a lungo termine.
La ricerca ha evidenziato che "ogni aumento di 1 µg/m³ della concentrazione media annuale di NO2 a lungo termine, è stato associato a un aumento del 3,2% del numero di posti letto in terapia intensivaoccupati da pazienti Covid-19 e a un aumento del 3,5% del numero di pazienti, che necessitavano di ventilazione meccanica".
"L'esposizione a lungo termine all'NO2 molto prima della pandemia potrebbe aver reso le persone più vulnerabili alla malattia Covid più grave - sostiene Kock - L'esposizione all'inquinamento atmosferico ambientale può contribuire a una serie di altre condizioni, tra cui infarti, ictus, asma e cancro ai polmoni e continuerà a danneggiare la salute molto tempo dopo la fine della pandemia".
“Per migliorare la qualità dell'aria è urgente una transizione verso le energie rinnovabili, i trasporti puliti e l'agricoltura sostenibile. La riduzione delle emissioni non solo aiuterà a limitare la crisi climatica, ma migliorerà la salute e la qualità della vita delle persone in tutto il mondo", conclude la ricercatrice.
Scendono incidenza e Rt per Covid in Italia. L'indice di trasmissibilità calcolato sui casi sintomatici, nel periodo 10-23 maggio 2022, è stato pari a quota 0,82 (range 0,76–0,88), in conformità rispetto alla settimana precedente (quando era a 0,86 ) e sotto la soglia epidemica. E' quanto emerge dai dati del monitoraggio della Cabina di regia sull'andamento di Covid-19, comunicati dall'Istituto superiore di sanità.
In calo anche l'indice di trasmissibilità Rt basato sui casi con ricovero ospedaliero che è 0,78 (range 0,75-0,82) al 23 maggio, al di sotto della soglia epidemica e in attesa dalle 0,83 rilevato al 17 maggio. Continua a scendere a livello nazionale anche l'incidenza settimanale. Secondo i dati è di 207 casi ogni 100.000 abitanti tra il 27 maggio e il 2 giugno, comunica l'Istituto superiore di sanità (Iss), rispetto ai 261 casi/100.000 della settimana precedente (20-26 maggio).
Continua inoltre il calo dei ricoverati Covid e dei casi gravi in ??terapia intensiva, con il tasso di occupazione in terapia intensiva da parte di pazienti Covid che scende al 2,3% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 02 giugno), contro il 2,6% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 26 maggio) della settimana precedente. Secondo quanto comunica l'Istituto superiore di sanità, il tasso di occupazione in aree mediche a livello nazionale scende invece al 7, 1% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 2 giugno), rispetto al 9% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 26 maggio) della settimana precedente.
Cala la percentuale dei casi settimanali, rilevati attraverso l'attività di tracciamento dei contatti: il dato scende all'11% questa, contro il 13% della precedente. E diminuiscono anche i casi rispetto alla comparsa dei sintomi (42%, al 44% della settimana scorsa). Mentre aumenta, rileva l'Istituto superiore di sanità (Iss), la percentuale dei casi diagnosticati attraverso l'attività di screening: il dato questa settimana sale al 46%, rispetto al 44% della settimana precedente.
Nessuna regione/provincia autonoma è a rischio alto per Covid; due sono equiparate a rischio moderato per la valutazione ai sensi del Dm del 30 aprile 2020, mentre le restanti 19 regioni/pa sono classificate a rischio basso. Quattro regioni/pa, comunica l'Istituto superiore di sanità (Iss), riportano una singola allerta di resilienza. Due ne riportano molteplici.
Secondo un nuovo studio condotto da ricercatori dell'American Cancer Society (ACS), la pandemia di COVID-19 ha aumentato il numero di decessi per cancro del 3,2% negli Stati Uniti dal 2019 al 2020. Rispetto al 2019, il tasso di mortalità correlato era più alto nell'aprile 2020, quando la capacità sanitaria è stata maggiormente messa a dura prova dalla pandemia.
Tassi di mortalità più elevati sono stati nuovamente osservati ogni mese da luglio a dicembre 2020 rispetto al 2019. I risultati saranno presentati alla riunione annuale di quest'anno dell'American Society of Clinical Oncology (ASCO) a Chicago, dal 3 al 7 giugno.
Nello studio, i ricercatori guidati da Jingxuan Zhao, scienziato associato senior, ricerca sui servizi sanitari presso l'American Cancer Society, hanno utilizzato il database delle cause multiple di morte degli Stati Uniti 2019-2020 dei Centers for Disease Control and Prevention WONDER per identificare i decessi correlati al cancro, definiti come deceduti con cancro invasivo come concausa di morte. Hanno confrontato i tassi di mortalità annuale e mensile correlati al cancro standardizzati per età (rispettivamente per 100.000 anno-persona e mese-persona) nel periodo gennaio-dicembre 2020 (pandemia) rispetto a gennaio-dicembre 2019 (pre-pandemia) in generale e stratificati per ruralità e Posto di morte. Gli scienziati hanno calcolato la mortalità in eccesso nel 2020 confrontando il numero di morti osservate con la morte prevista in base al tasso di mortalità correlato al cancro specifico per età dal 2015 al 2019.
I risultati hanno mostrato che il numero di decessi per cancro è stato di 686.054 nel 2020, rispetto a 664.888 nel 2019, con un aumento annuo del 3,2%. Rispetto al numero di decessi previsti per il 2020 (666.286), il numero di decessi in eccesso per cancro è stato di 19.768 nel 2020. Il tasso annuale di mortalità per cancro standardizzato per età è diminuito continuamente da 173,7 nel 2015 a 162,1 nel 2019, mentre è aumentato a 164,1 nel 2020. Il tasso di mortalità mensile correlato al cancro era più alto nell'aprile 2020, quando le strutture sanitarie sono state maggiormente colpite dal COVID-19, successivamente è diminuito a maggio e giugno 2020 e sono stati nuovamente osservati tassi di mortalità più elevati ogni mese da luglio a dicembre 2020 rispetto al 2019. Nelle grandi aree metropolitane, il maggiore aumento della mortalità correlata al cancro è stato osservato nell'aprile 2020, mentre nelle aree non metropolitane, gli incrementi maggiori si sono verificati da luglio a dicembre 2020, in coincidenza con l'andamento spazio-temporale dell'incidenza di COVID-19 nel Paese. Rispetto al 2019, i tassi di mortalità per cancro sono stati inferiori da marzo a dicembre 2020 nelle strutture mediche, negli hospice e nelle case di cura o nelle strutture di assistenza a lungo termine, ma più elevati nelle case dei defunti.
Gli autori dello studio sottolineano che la valutazione in corso degli effetti spazio-temporali della pandemia sulla cura del cancro e gli esiti è giustificata, soprattutto in relazione ai modelli di assorbimento del vaccino e ai tassi di ospedalizzazione COVID-19.
Antonio Caperna
Chi ha un'allergia alimentare ha il 50% delle probabilità in meno di essere infettato dal Covid-19, perché l'infiammazione di tipo 2, caratteristica delle condizioni allergiche, può ridurre i livelli di una proteina chiamata recettore ACE2 sulla superficie delle cellule delle vie aeree.
Il Covid-19 utilizza proprio questo recettore per entrare nelle cellule, quindi la sua scarsità potrebbe limitare la capacità del virus di infettarle. Lo rivela uno studio finanziato dal National Institutes of Health (NIH), dal titolo 'Human Epidemiology and Response to SARS-CoV-2' (HEROS), i cui risultati sono stati pubblicati oggi nel Journal of Allergy and Clinical Immunology. Il team di studio HEROS ha monitorato l'infezione da SARS-CoV-2 in oltre 4.000 persone, in quasi 1.400 famiglie che includevano almeno una persona di età pari o inferiore a 21 anni. Questa sorveglianza è avvenuta in 12 città degli Stati Uniti tra maggio 2020 e febbraio 2021, prima dell'ampia diffusione dei vaccini Covid-19 tra gli operatori non sanitari negli Stati Uniti e prima dell'emergere di varianti preoccupanti. I partecipanti sono stati reclutati da studi esistenti finanziati dai NIH incentrati sulle malattie allergiche.
Circa la metà dei bambini, adolescenti e adulti partecipanti aveva un'allergia alimentare, asma, eczema o rinite allergica auto-riferiti. Tuttavia, l'asma e le altre condizioni allergiche monitorate - eczema e rinite allergica - non erano associate a una riduzione del rischio di infezione. I ricercatori HEROS hanno scoperto anche che i bambini, gli adolescenti e gli adulti coinvolti nello studio avevano tutti una probabilità del 14% circa di contrarre l'infezione da SARS-CoV-2 durante il periodo di sorveglianza di sei mesi. Le infezioni erano asintomatiche nel 75% dei bambini, nel 59% degli adolescenti e nel 38% degli adulti. Da qui "l'importanza di vaccinare i più piccoli ed attuare altre misure di salute pubblica per evitare che vengano infettati dal SARS-CoV-2, proteggendo così dal virus sia i bambini che i membri vulnerabili della loro famiglia", ha affermato Anthony S. Fauci, direttore del National Institute of Allergy, and Infectious Diseases (NIAID), parte del NIH. La conferma viene dalla quantità di SARS-CoV-2 trovata nei tamponi nasali, cioè la carica virale, che variava ampiamente tra i partecipanti allo studio in tutte le fasce d'età.
"L'intervallo di carica virale tra i bambini infetti- spiega il NIH- era paragonabile a quello di adolescenti e adulti. Dato il tasso di infezione asintomatica nei bambini, una percentuale maggiore di bambini infetti con carica virale elevata può essere asintomatica rispetto agli adulti infetti con carica virale elevata. Gli investigatori di HEROS hanno, quindi, concluso che i bambini piccoli possono essere trasmettitori di SARS-CoV-2 molto efficienti all'interno della famiglia a causa del loro alto tasso di infezione asintomatica, delle loro cariche virali potenzialmente elevate e delle loro strette interazioni fisiche con i membri della famiglia".
Nello studio HEROS i ricercatori hanno trovato, infine, una relazione forte e lineare tra il BMI (Indice di massa corporea) - una misura del grasso corporeo basata su altezza e peso - e il rischio di infezione da SARS-CoV-2. "Per ogni aumento di 10 punti del percentile BMI aumentava il rischio di infezione del 9%. I partecipanti in sovrappeso o obesi avevano un rischio di infezione del 41% maggiore- concludono gli studiosi- rispetto a quelli che non lo erano".
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