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Stadi al 100% entro la fine di marzo. E' la previsione del sottosegretario al ministero della Salute Andrea Costa, a 'La Politica nel Pallone su Gr Parlamento'.
"I tifosi hanno voglia di tornare allo stadio, i segnali stanno andando nella giusta direzione e confido che preso si possa arrivare al tutto esaurito. I dati fortunatamente continuano ad essere positivi, io credo che già entro la fine del mese di marzo si possa arrivare alla capienza del 100%", ha affermato Costa. "Dobbi osservare i dati, proseguire nella campagna di vaccinazione, ma possiamo consentire questo messaggio di speranza. Comprendo la richiesta molto Gravina di speranza, il calcio ha patito molto in questi anni di pandemia. Riavere gli stadi significa riavere fiducia e un sostegno economico. Dal 1 marzo si torna al 75% poi da lì a breve confido si possa arrivare alla capienza del 100%", ha aggiunto.
Sulla possibilità di vedere lo stadio di Palermo il 24 marzo pieno per lo spareggio mondiale tra la nazionale di Roberto Mancini e la Macedonia del Nord, Costa ha detto: "Non mi sento di pieno stadio questa possibilità e di avere lo stadio per la nazionale. I dati sono positivi e in tempo per questi appuntamenti importanti si possa fare". Infine sulla riapertura anche dei palazzetti dello sport e le richieste di ristori, il sottosegretario ha aggiunto: "Anche per gli sport al chiuso abbiamo iniziato un ritorno graduale dell'ampliamento delle capienze. Lo sport è un comparto che ha voluto tantissimo e la politica deve osare delle risposte."
Chi è più protetto dal covid? Chi è vaccinato o chi è guarito? "La combinazione migliore" per una protezione dal virus "è quella del vaccinato infettato". A spiegarlo all'Adnkronos Salute è il virologo Fabrizio Pregliasco, docente della Statale di Milano.
Questo avviene, precisa, "perché c'è una risposta importante e molto alta degli eventuali alla proteina Spike e poi, grazie all'infezione, una trasversalità di risposta ad altre componenti strutturali del virus come "la proteina del nucleocapside e questo dà una protezione sicuramente maggiore".
Quindi non serve un'ulteriore dose di vaccino per chi dopo aver fatto due dosi ha contratto il Covid? "No, però è tutto da mostrare - risponde l'esperto - Ad oggi l' indicazione è che ci voglia comunque il quarto evento, ovvero la terza dose di vaccino. Vedremo in futuro".
"Ci sono dei dati che ci dicono che la malattia sommata alla vaccinazione ha un grado di risposta immunitaria persino più forte rispetto a quello che uno può avere solo con il vaccino. Essere vaccinato e guarito è un'ottima combinazione, ma anche chi ha fatto solo i vaccini è coperto. Non facciamo gare, entrambe sono ottime combinazioni contro la malattia grave. Chi è guarito deve comunque vaccinarsi e chi non ha avuto la malattia deve immunizzarsi. Ecco, diciamo che chi oggi ha fatto il Covid e pensa di non vaccinarsi commette un grande errore, la vaccinazione aumenta la protezione". Così all'Adnkronos Salute Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, in vista della terza dose per chi ha contratto la malattia, chiarisce se sono più protettivi i vaccinati o chi è stato infettato ed è guarito.
La mortalità per Covid fra i non vaccinati è 23 volte più alta rispetto a chi è protetto con la terza dose. E' il dato contenuto nel rapporto esteso dell'Istituto superiore di sanità. Secondo quanto scrivono gli esperti Iss, il tasso di mortalità per Covid standardizzato per età per i non vaccinati è di 103 decessi per 100mila abitanti ed è 9 volte più alto rispetto a quello dei vaccinati con ciclo completo da meno di 120 giorni (12 decessi per 100.000 abitanti) e 23 volte più alto rispetto a quello dei vaccinati con booster (4 decessi/100.000).
Il tasso di ospedalizzazione standardizzato per età relativo alla popolazione di 12 anni e più nel periodo 24 dicembre 2021-23 gennaio 2022 per i non vaccinati (399 ricoveri per 100.000 abitanti) risulta circa sei volte più alto rispetto ai vaccinati con ciclo completo da meno 120 giorni (72 ricoveri per 100.000) e circa dieci volte più alto rispetto ai vaccinati con dose aggiuntiva/booster (39 ricoveri per 100.000). Il tasso di ricoveri in terapia intensiva standardizzato per età - evidenzia ancora l'Iss - per i non vaccinati (40 ricoveri in terapia intensiva per 100.000 abitanti) risulta circa dodici volte più alto rispetto ai vaccinati con ciclo completo da meno di 120 giorni (3 ricoveri in terapia intensiva per 100.000) e circa venticinque volte più alto rispetto ai vaccinati con dose aggiuntiva/booster (2 ricoveri in terapia intensiva per 100.000).
L’efficacia del vaccino nel prevenire la diagnosi di infezione è pari al 64% entro 90 giorni dal completamento del ciclo vaccinale, 52% tra i 91 e 120 giorni, e 42% oltre 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale e pari al 66% nei soggetti vaccinati con dose aggiuntiva/booster. L'efficacia contro la malattia severa è pari a 88% nei vaccinati con ciclo completo da meno di 90 giorni, 90% nei vaccinati con ciclo completo da 91 e 120 giorni, e 84% nei vaccinati che hanno completato il ciclo vaccinale da oltre 120 giorni e pari al 94% nei soggetti vaccinati con dose aggiuntiva/booster.
OLTRE 2,5 MLN 'UNDER 19' CONTAGIATI DA INIZIO EPIDEMIA, 44 MORTI
Sono oltre 2 milioni e mezzo di bimbi e adolescenti contagiati dal Covid-19 in Italia. Dall’inizio dell’epidemia al 9 febbraio sono stati diagnosticati e riportati al sistema di sorveglianza integrata 2.528.024 casi nella popolazione 0-19 anni, di cui 13.632 ospedalizzati, 323 ricoverati in terapia intensiva e 44 deceduti. Nella fascia 5-11 anni, in cui la vaccinazione è iniziata il 16 dicembre 2021, al 9 febbraio si registra una copertura con una dose pari a 13,8% e con due dosi pari a 21,5%.
CASI A SCUOLA STABILI AL 31%, FRA 5-11ENNI 45% CONTAGI
Stabile nelle ultime tre settimane la percentuale dei casi segnalati fra gli studenti, (31% rispetto al 32% rilevato nella settimana precedente. Nell’ultima settimana il 19% dei casi in età scolare è stato diagnosticato nei bambini sotto i 5 anni, il 45% nella fascia d’età 5-11 anni, il 36% nella fascia 12-19 anni. Da quattro settimane è "in diminuzione il tasso di incidenza nella fascia 16-19 anni, mentre in tutte le altre fasce di età si registra una diminuzione solo da due settimane. Sebbene il dato delle ultime due settimane non sia ancora consolidato, si registra un andamento in decrescita in tutte le fasce di età 0-19 anni del tasso di ospedalizzazione", evidenzia l'Iss.
Vaccino covid e disturbi mestruali. Il comitato per la farmacovigilanza Prac dell'Agenzia europea del farmaco Ema sta esaminando "casi di irregolarità del ciclo mestruale" segnalati dopo la vaccinazione con vaccini anti-Covid a mRna.
Sotto la lente degli esperti - spiega l'ente regolatorio Ue - gli alert arrivati su due problematiche in particolare: sanguinamento mestruale pesante (mestruazioni abbondanti) e assenza di mestruazioni (amenorrea), condizioni osservate dopo la somministrazione di Comirnaty* di Pfizer/BioNTech e Spikevax* di Moderna. "Dopo aver esaminato le evidenze disponibili, il Prac ha deciso di richiedere una valutazione approfondita di tutti i dati disponibili, compresi gli episodi riportati in sistemi di segnalazione spontanea, le sperimentazioni cliniche e la letteratura pubblicata".
Il comitato aveva precedentemente analizzato segnalazioni di disturbi mestruali nel contesto dei rapporti di sintesi sulla sicurezza per i vaccini Covid approvati in Ue e aveva concluso all'epoca che le evidenze non supportavano un nesso causale tra questi vaccini e i disturbi mestruali. Alla luce delle segnalazioni spontanee di disturbi mestruali con entrambi i prodotti a mRna e dei risultati della letteratura, il Prac ha deciso di valutare ulteriormente l'incidenza di queste problematiche di cicli abbondanti o amenorrea post vaccino.
"I disturbi mestruali - puntualizzano gli esperti - sono molto comuni e possono verificarsi per un'ampia gamma di condizioni mediche di base, nonché per stress e stanchezza. Casi di questi disturbi sono stati segnalati anche in seguito all'infezione da Covid". I cicli pesanti, viene precisato nella nota Ema, possono essere definiti come "sanguinamenti di un volume tale che può interferire con la qualità della vita a livello fisico, sociale, emotivo e materiale della persona. L'amenorrea può essere definita come l'assenza di sanguinamento mestruale per 3 o più mesi consecutivi". In questa fase, precisa l'agenzia, "non è ancora chiaro se esista un nesso causale tra i vaccini Covid e le segnalazioni. Inoltre, non ci sono prove che suggeriscano che questi vaccini influiscano sulla fertilità. L'Ema comunicherà ulteriormente quando saranno disponibili ulteriori informazioni".
Come nel resto del mondo, anche in Italia abbiamo potuto rilevare che la grandissima maggioranza dei bambini che hanno contratto la malattia hanno avuto una forma paucisintomatica, sono stati seguiti direttamente dal loro pediatra e solo raramente hanno subito esiti respiratori persistenti o hanno manifestato, in fase acuta o a distanza di alcune settimane, sintomi di rilievo quali il dolore toracico o una tachicardia, possibili segni di sospetto di una miocardite.
Sono molto più frequenti, invece, sintomi vaghi, come mal di testa, stancabilità, difficoltà di concentrazione, dolori diffusi di tipo aspecifico, oppure, come riportato dalla letteratura scientifica, problematiche relative ai disturbi del sonno, alla sfera psicologica o al rendimento scolastico.
Non è del tutto chiaro, inoltre, quanto questi fenomeni siano da imputare direttamente all’infezione da SARS-COV2 o siano piuttosto conseguenza del disagio determinato dall’ isolamento sociale imposto dalla pandemia che ha acuito un fenomeno psico-sociale già pre-esistente. Tuttavia, tali segnali non possono essere ignorati e genitori, pediatri, educatori ma anche politici ed amministratori sono chiamati ad una profonda riflessione su quanto si possa fare per invertire questa tendenza.
Quello che stupisce del documento della SIP è però la definizione precisa di un timing di visite, che il pediatra dovrebbe fare per cogliere i sintomi del long covid, che non trova riscontro nella letteratura scientifica.
La Pediatria di Famiglia in Italia è caratterizzata dal rapporto di fiducia e dalla continuità dell’assistenza nel tempo: a tutti i bambini vengono offerte visite programmate periodiche, oltre a visite effettuate per la comparsa di qualunque sintomo anche banale e un’ampia disponibilità telefonica per consigli/consulti di varia natura. è in tale contesto che si inserisce l’assistenza al bambino con infezione da SARS-CoV2 e il monitoraggio degli eventuali segni/sintomi di long-covid. Un sistema che aggiunga “di default” altre visite mirate sarebbe da un lato poco efficace nell’aumentare la sensibilità e la specificità di riconoscimento di un quadro di long-Covid dall’altro poco efficiente rispetto al mantenimento delle quotidiane attività di prevenzione, diagnosi e educazione sanitaria a cui ogni Pediatra di famiglia deve rispondere, nonché oneroso per il SSN in funzione delle prescrizioni di accertamenti che ne potrebbero scaturire. Tutto ciò considerando anche l’impatto organizzativo che tale mole di controlli richiederebbe per le famiglie.
Qualora tali controlli per il long covid venissero eseguiti da altri professionisti vi sarebbe comunque un incremento della spesa sanitaria per erogare delle prestazioni non essenziali.
Quindi, bene ricordare quali segnali debbano essere riconosciuti nei bambini che sono stati affetti da COVID-19, ma un no ad un piano rigido e serrato di controlli in tutti i soggetti che sono stati positivi al virus.
"Nei prossimi 8 anni ci troveremo davanti dei ragazzi che dal punto di vista psicologico saranno più aggressivi e trasgressivi".
Luca Bernardo, pediatra alla guida del dipartimento di Medicina dell'infanzia e dell'età evolutiva dell'ospedale Fatebenefratelli Sacco di Milano, lo dice senza mezzi termini riflettendo sulle conseguenze che l'emergenza pandemica ha avuto su adolescenti e preadolescenti in occasione della Giornata nazionale contro il bullismo e del Safer internet day che si sono celebrate rispettivamente il 7 e l'8 febbraio.
"In questi ultimi due anni c'è stato un forte incremento dell'uso del digitale, a partire dalla didattica a distanza, e si è stimato che da queste modalità di interazione e relazione scolastica e personale, così come dalle restrizioni che hanno colpito gli adolescenti in termini di relazioni, il 20-25% di ragazzi e ragazze preadolescenti potranno sviluppare aggressività e trasgressività. Questo- evidenzia Bernardo- a meno che si intervenga con progetti generali ma anche profondamente radicati sul territorio". Un quadro che va a braccetto con l'aumento dei fenomeni di bullismo e, in particolare, di cyberbullismo. "Nel 2021 abbiamo visto incrementare di oltre il 60% i bambini tra i 5 e i 10 anni che sono stati o vittime o spettatori, almeno una volta, di attività di cyberbullismo attraverso dicerie, maldicenze, cattiverie, ed esclusione dalle relazioni, ad esempio attraverso whatsapp", evidenzia ancora Bernardo sottolineando come "il cyberbullismo sia aumentato rispetto al bullismo".
Così come sta aumentando il bullismo al femminile. "Se prima in un gruppo di 10 bulli se ne contava una di sesso femminile, oggi ne troviamo anche 2-3". Citando i dati di una recente ricerca che Kaspersky ha commissionato a Educazione Digitale, coinvolgendo un campione di 1.833 bambini italiani, tra i 5 e i 10 anni, per indagare le abitudini della generazione Alpha, il pediatra evidenzia poi come "stia emergendo un fenomeno preoccupante- dice- il 36% dei bimbi intervistati ha, infatti, dichiarato di aver ricevuto online proposte di giochi o sfide pericolose da parte di sconosciuti e il 12% ha sottolineato che, se non direttamente a loro, era capitato a un amico. Segno che i rischi che derivano dall'uso improprio degli strumenti digitali non sono solo ipotetici ma trovano diversi riscontri nella realtà". Un fenomeno "su cui è necessario riflettere- conclude il pediatra- soprattutto considerando che il 55% dei bambini tra 5 e 10 anni ha già un dispositivo personale e il 20% lo utilizza per più di 2 ore al giorno".
Mascherine all'aperto, da oggi venerdì 11 febbraio stop all'obbligo in Italia. L'ordinanza firmata dal ministro della Salute, Roberto Speranza, prevede comunque che anche in zona bianca vengano sempre portate con sé e restino obbligatorie in caso di assembramenti. Fa eccezione la Campania: l'ordinanza del governatore Vincenzo De Luca dispone il mantenimento di obbligo di mascherina all'aperto.
Nel resto di Italia, le mascherine sono obbligatorie al chiuso fino al 31 marzo e già si guarda oltre quella data. Ma alcuni esperti avvertono: è troppo presto per eliminarle con questa circolazione del virus e la variante Omicron. Ieri sono stati 75.861 i nuovi contagi da coronavirus e sono stati registrati altri 325 morti, secondo i dati e i numeri Covid - regione per regione - del bollettino della Protezione Civile e del ministero della Salute.
L'ORDINANZA - Nell'ordinanza sulle mascherine del ministro della Salute si legge che "fino al 31 marzo 2022 è fatto obbligo sull’intero territorio nazionale di indossare i dispositivi di protezione delle vie respiratorie nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private".
Il provvedimento specifica inoltre che l'obbligo "non sussiste quando, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantito in modo continuativo l’isolamento da persone non conviventi. Sono fatti salvi, in ogni caso, i protocolli e le linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché le linee guida per il consumo di cibi e bevande nei luoghi pubblici o aperti al pubblico".
"Le disposizioni sull’uso dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie - prosegue il documento - sono comunque derogabili esclusivamente in applicazione di protocolli validati dal Comitato tecnico-scientifico". Si precisa inoltre che l'uso della mascherina "integra e non sostituisce le altre misure di protezione dal contagio".
OBBLIGO DI PORTARE MASCHERINE CON SÉ - Obbligatorio, fino al 31 marzo, portare sempre con sé la mascherina e indossarla anche all'aperto in caso di assembramento, secondo quanto prevede l'ordinanza.
"Fermo restando quanto diversamente previsto da specifiche norme di legge o da appositi protocolli sanitari o linee guida, nei luoghi all'aperto - si legge nel documento - è fatto obbligo sull'intero territorio nazionale di avere sempre con sé i dispositivi di protezione delle vie respiratorie e di indossarli laddove si configurino assembramenti o affollamenti".
NO MASCHERINE DURANTE ATTIVITÀ SPORTIVA - Durante l'attività sportiva non è obbligatorio indossare le mascherine di protezione anti-Covid, sottolinea l'ordinanza firmata dal ministro della Salute. Il provvedimento ricorda anche che "non hanno l’obbligo di indossare il dispositivo di protezione delle vie respiratorie: i bambini di età inferiore ai sei anni; le persone con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina, nonché le persone che devono comunicare con un disabile in modo da non poter fare uso del dispositivo".
Perché, a parità di sintomi, alcuni pazienti Covid possono essere curati a casa mentre altri sviluppano un quadro clinico che necessita di ricovero in ospedale? Cosa distingue gli uni dagli altri, e come è possibile riconoscerli rapidamente in modo da adottare la strategia terapeutica migliore?
Cercando di rispondere a queste domande, un gruppo di ricercatori Humanitas ha identificato fra saliva e sangue tre nuovi marcatori 'spia' utili a tracciare un identikit predittivo del malato Covid grave.
Lo studio, pubblicato su 'Gastro Hep Advances', è coordinato da Maria Rescigno, capo del Laboratorio di immunologia delle mucose e microbiota di Humanitas e docente di patologia generale di Humanitas University, che con il suo team ha affiancato Antonio Voza, responsabile del Pronto soccorso di Humanitas, ed Elena Azzolini, responsabile del Centro vaccinale Humanitas. Il lavoro apre alla messa a punto di nuovi test. Di fronte allo tsunami delle prime ondate pandemiche, quando in Pronto soccorso si riversavano migliaia di pazienti e le conoscenze sul decorso della malattia erano ancora poche - ricordano da Humanitas - l'équipe di studiosi ha messo a frutto le competenze sul microbiota e sulle mucose per individuare nuovi marcatori di gravità che funzionassero precocemente. Rescigno e Chiara Pozzi, immunologa ricercatrice Humanitas, si sono concentrate sul microbiota della saliva e sull'insieme dei metaboliti, cioè dei prodotti che derivano da un processo chimico legato alla digestione o ingestione di alimenti.
"Attraverso uno studio retrospettivo - spiega Rescigno - abbiamo analizzato la saliva e il sangue di pazienti ospedalizzati e di quelli trattati a domicilio per cercare cosa contraddistinguesse i due gruppi, paragonando i dati con quelli raccolti da soggetti sani e guariti. E' stato fondamentale un approccio di machine learning: i nostri data scientist, guidati da Riccardo Levi, ci hanno aiutato a eliminare i parametri confondenti e il fattore età, arrivando a isolare due metaboliti, mioinositolo e acido acetico 2 pirrolidinico. Questi, insieme a una proteina presente nel sangue (chitinasi 3-L1), hanno dimostrato di essere correlati alla gravità del Covid, quindi alla necessità o meno di ospedalizzazione".
"La combinazione di questi tre parametri di saliva e sangue - ritengono gli autori - descriverebbe" in pratica "l'identikit del malato grave, e quindi sarebbe in grado di distinguere i pazienti Covid sulla base dell'aspettativa del loro decorso clinico". "Successivamente - evidenzia Rescigno - abbiamo visto che questi due metaboliti correlano con alcuni gruppi di batteri del microbiota salivare. Chi ha metaboliti alterati ha anche batteri alterati. Il risultato non sorprende: il microbiota ha un ruolo importante nell'infezione perché - ricorda l'esperta - prepara il sistema immunitario e può avere attività anti-microbiche. E la saliva, dove si trova parte del microbiota, è uno dei punti in cui il virus penetra. E' importante inoltre sottolineare che la proteina individuata nel sangue è coinvolta nella regolazione del recettore Ace2, il recettore del virus Sars-CoV-2. Questo significa che, se la proteina è già alta in partenza, la persona ha più recettori e quindi potrebbe 'far entrare' più virus".
Secondo i ricercatori Humanitas, "il prossimo passaggio potrebbe essere la messa a punto di un test diagnostico al momento non disponibile nei laboratori di analisi. La metodologia basata sull'analisi dei metaboliti (metabolomica) è una novità che si sta imponendo nel panorama diagnostico. Una rivoluzione velocizzata da Covid-19 - rimarcano - perché durante la pandemia è stato possibile analizzare i dati di tanti pazienti in tempi molto rapidi". Conclude Rescigno: "I risultati di questo studio ci danno speranza. In futuro sarà possibile progettare queste analisi basate su test salivare ed esame del sangue anche per altre patologie pericolose e di difficile predizione, come la sepsi".
Scende l'aspettativa di vita a causa di Covid. In Italia, uno dei Paesi più longevi del mondo, avevamo una speranza di vita alla nascita di oltre 83 anni nel 2019. Nel 2020 questa è scesa a 82, perdendo, per la precisione, 1,34 anni.
E' quanto emerge da uno studio pubblicato su 'Plos-One', di due docenti delle università di Padova e di Ca' Foscari a Venezia, Stefano Mazzuco e Stefano Campostrini. La ricerca mostra come in molti Paesi del mondo la pandemia abbia portato a cambiamenti eccezionali nella mortalità.
L'aspettativa di vita in Russia è scesa di ben 2,16 anni, di 1,85 in Usa e di 1,27 in Inghilterra e Galles. Le differenze tra i Paesi sono sostanziali: molti (ad esempio Danimarca, Norvegia, Nuova Zelanda e Corea del Sud) hanno visto un calo piuttosto limitato dell'aspettativa di vita o addirittura un aumento dell'aspettativa di vita.
Oltre alla triste conta dei morti, lo studio mostra come l'impatto sulla struttura demografica sia dipeso molto non solo da quante persone si sono ammalate e poi morte di Covid-19, ma anche dall'età e, più in generale, dalla struttura per età delle diverse popolazioni. Pertanto l'Italia, ad esempio, pur presentando un numero di morti più elevato di tanti Paesi, ha avuto un impatto sulla struttura demografica seppure significativo, ma minore.
I ricercatori stanno ora analizzando i dati del 2021 che presto saranno pubblicati in un successivo lavoro. Dalle prime analisi sembra che alcuni Paesi, tra cui l'Italia, abbiano recuperato in parte quanto perso nel 2020; altri Paesi invece sembrano aver marcatamente peggiorato la situazione (tra questi i Paesi dell'Est Europa), altri confermano invece di non aver subito cambiamenti significativi (tra questi diversi Paesi del Nord Europa, asiatici e dell'Oceania).
"Lo studio della mortalità - spiega Campostrini - ci aiuta a capire il reale impatto della pandemia sulla struttura demografica della popolazione. I confronti internazionali poi aiutano a leggere le storie, anche molto diverse, del vissuto nei vari Paesi". E "se nel 2020 abbiamo visto situazioni molto diverse da Paese a Paese - evidenzia Mazzuco - nel 2021, pur nelle diversità, emerge con chiara evidenza un elemento comune: dove la copertura vaccinale aumenta e raggiunge determinati livelli, l'effetto della pandemia sulla mortalità è minimo".
Dallo studio emerge inoltre che i Paesi che più tempestivamente hanno raggiunto un'elevata copertura vaccinale sono anche quelli che hanno avuto il livello di mortalità (per tutte le cause, non solo per Covid) più basso.
Sulle cure domiciliari anti covid, "le Linee guida contengono mere raccomandazioni e non prescrizioni cogenti e si collocano, sul piano giuridico, a livello di semplici indicazioni orientative, per i medici di medicina generale, in quanto parametri di riferimento circa le esperienze in atto nei metodi terapeutici a livello internazionale".
Con la sentenza depositata dalla terza Sezione, il Consiglio di Stato conferma la legittimità delle linee guida contenute nella circolare del ministero della Salute sulla 'vigile attesa'.
Nelle motivazioni della sentenza si legge che la circolare ministeriale contestata in giudizio “costituisce un documento riassuntivo ed indicativo delle migliori pratiche che la scienza e l’esperienza, in costante evoluzione, hanno sinora individuato” e che “il singolo medico, nell’esercizio della propria autonomia professionale, ma anche nella consapevolezza della propria responsabilita?, è ben libero di prescrivere i farmaci che ritenga piu? appropriati alla specificita? del caso, in rapporto al singolo paziente, sulla base delle evidenze scientifiche acquisite”.
“La prescrizione di un farmaco, da parte del medico, non puo? fondarsi su intuizioni o improvvisazioni sperimentate sulla pelle dei singoli pazienti, ma su evidenze scientifiche e, dunque, su rigorosi studi e precise sperimentazioni cliniche, ormai numerosi a livello internazionale anche nella lotta contro il virus Sars-Cov-2 dopo due anni dall’inizio della pandemia", spiega il Consiglio di Stato. "Non vi e? dubbio che il singolo medico, nel prescrivere un farmaco, possa discostarsi dalle Linee guida, senza incorrere in responsabilita?, purche? esistano solide o, quantomeno, rassicuranti prove scientifiche di sicurezza ed efficacia del farmaco prescritto, sulla base dei dati scientifici, pur ancora parziali o incompleti, ai quali possa ricondurre razionalmente il proprio convincimento prescrittivo rispetto alla singolarita? del caso clinico”.
“La prescrizione del farmaco anche nell’attuale emergenza epidemiologica, e tanto piu? nell’ovvia assenza di prassi consolidate da anni per la solo recente insorgenza della malattia, deve fondarsi su un serio approccio scientifico - osservano i giudici di Palazzo Spada - e non puo? affidarsi ad improvvisazioni del momento, ad intuizioni casuali o, peggio, ad una aneddotica insuscettibile di verifica e controllo da parte della comunita? scientifica e, dunque, a valutazioni foriere di rischi mai valutati prima rispetto all’esistenza di un solo ipotizzato, o auspicato, beneficio”.
Nella sentenza si chiarisce anche che non si vuole “negare che l’esperienza clinica dei singoli medici a livello territoriale sia preziosa e fondamentale per la ricerca scientifica nella lotta contro il Sars-CoV-2, anzi, ma proprio per questo i risultati e i dati di questa esperienza non possono essere sottratti ad un rigoroso approccio scientifico che consenta, anche in condizioni di emergenza epidemiologica, di valutare comunque la sicurezza e l’efficacia del farmaco, non affidabile certo individualmente e solamente al buon senso o addirittura al caso”.
“La prescrizione di farmaci non previsti o, addirittura, non raccomandati dalle Linee guida non puo? dunque fondarsi su un’opinione personale del medico - conclude la sentenza - priva di basi scientifiche e di evidenze cliniche, o su suggestioni e improvvisazioni del momento, alimentati da disinformazione o, addirittura, da un atteggiamento di sospetto nei confronti delle cure 'ufficiali' in quelle che sono state definite le contemporanee societe?s de la de?fiance, le societa? della sfiducia nella scienza”.
In una settimana il numero dei pazienti Covid ricoverati è diminuito del 3,7%. Scende lentamente anche la curva delle ospedalizzazioni nei reparti Covid: la rilevazione Fiaso negli ospedali sentinella dell'8 febbraio ha conteggiato 2.025 pazienti rispetto ai 2.103 del 1 febbraio. Nei reparti ordinari la diminuzione dei pazienti si attesta al 3,3% (il totale dei pazienti passa da 1.908 a 1.845).
Il calo è più consistente nelle terapie intensive, dove il numero dei pazienti si riduce del 7,7% rispetto alla settimana precedente (da 195 del 1 febbraio a 180 dell'8 febbraio). In tutti i reparti, sia quelli ordinari sia le terapie intensive, si assiste a un fenomeno nuovo: da circa un mese diminuiscono significativamente i pazienti ricoverati 'per Covid' ovvero i soggetti che hanno sviluppato la tipica polmonite da Covid con sintomi respiratori ed è proprio questo dato che contribuisce a far scendere la curva delle ospedalizzazioni, spiega Fiaso in una nota. In un contesto di complessiva diminuzione dei casi Covid c'è, però, un elemento che va in controtendenza: crescono i ricoveri 'con Covid' ovvero quei pazienti che arrivano in ospedale per curare altre patologie, dalla frattura al problema urologico, e vengono trovati positivi al tampone pre-ricovero. Questi soggetti costituiscono attualmente il 39% dei ricoverati.
"Il monitoraggio dei pazienti 'per Covid' e 'con Covid' ci consente di avere il polso autentico della pandemia- dichiara Giovanni Migliore, presidente di Fiaso- I ricoveri di pazienti positivi si stanno riducendo complessivamente, ma quello che stiamo osservando negli ospedali è un fenomeno nuovo: da un lato, diminuiscono in maniera significativa gli accessi ai pronto soccorso di pazienti 'per Covid' con i sintomi respiratori e polmonari ed è il segnale che la pandemia è in fase di arretramento. Dall'altro lato, però, arrivano in ospedale molti più soggetti che al momento del tampone pre-ricovero risultano positivi al virus: si tratta di pazienti con traumi, con scompensi cardiaci, con patologie urologiche, neurologiche, pazienti che devono essere sottoposti a intervento chirurgico e che in ospedale ci vengono per curare proprio queste malattie e non il Covid, che rappresenta un referto incidentale. Siamo di fronte a una sorta di 'normalizzazione' dell'epidemia: il virus continua a circolare e a infettare ma, in virtù dell'alta percentuale di soggetti vaccinati, non provoca la malattia.
Come aziende sanitarie, tuttavia- mette in guardia Migliore- dobbiamo far fronte a questa nuova fase, predisponendo strutture interdisciplinari, dove l'ortopedico, l'oncologo, il cardiologo, l'urologo e il neurologo possano curare nello stesso reparto i pazienti che, tra loro, hanno in comune il solo fatto di esser positivi al virus Sars-Cov-2 e che necessitano, in adeguati ambienti isolati, di assistenza specialistica".
"Non è, infatti, più possibile rinviare le prestazioni sanitarie in attesa che i pazienti si negativizzino e dobbiamo assicurare l'assistenza specialistica a tutti- aggiunge Migliore- È un cambio di paradigma che il Covid ci impone in questa fase: è il medico specialista che si reca dal paziente dove è ricoverato, invece che il paziente ad andare dallo specialista nel suo reparto. Il calo dei contagi ci porta gradualmente verso la normalizzazione, ma i ricoveri 'con Covid' ci suggeriscono che con il virus dovremo convivere ancora in una diversa normalità". Passando ai reparti pediatrici, Fiaso rileva una riduzione a due cifre per i ricoveri monitorati nei 4 ospedali pediatrici e nei reparti di pediatria degli ospedali sentinella che aderiscono alla rete Fiaso. La percentuale di ospedalizzazioni scende dell'11,3%.
Il 61% dei bambini ricoverati ha tra 0 e 4 anni, il 24% tra 5 e 11 anni, il 15% tra 12 e 18 anni. In particolare i neonati, da 0 a 6 mesi, costituiscono il 26% del totale e tra di loro solo il 48% ha entrambi i genitori vaccinati. Di contro, desta preoccupazione il dato relativo alla presenza di entrambi i genitori no vax nel 31% dei casi di neonati ricoverati. Nei casi rimanenti, il 17% ha solo il padre vaccinato e il 4% solo la madre.
Covid e vaccino, in un anno sono stati 22 i morti considerati correlabili alla somministrazione, pari a circa 0,2 casi ogni milione di dosi somministrate. E' quanto emerge dal 'Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini anti Covid-19', presentato oggi dall'Agenzia italiana del farmaco Aifa.
"Entro i 14 giorni dalla vaccinazione, per qualunque dose - si precisa comunque nel report - i decessi osservati sono sempre nettamente inferiori ai decessi attesi. Non c'è quindi, nella popolazione di soggetti vaccinati, alcun aumento del numero di eventi rispetto a quello che ci saremmo aspettati in una popolazione simile ma non vaccinata".
l 46,4% (352) dei casi riguarda donne, il 52,6% (399) uomini, mentre lo 0,9% non riporta questo dato. L'età media è di 79 anni e nel 70% dei casi il tempo intercorrente tra la somministrazione e il decesso è compreso tra 0 e 14 giorni, non definito nel 10% dei casi e con intervallo maggiore di 14 giorni nel rimanente 20% dei casi. In 456 casi il decesso è segnalato dopo la prima dose, in 267 dopo la seconda e in 35 dopo la terza. Il 76,5% (580/758) delle segnalazioni con esito decesso presenta una valutazione del nesso di causalità con algoritmo, in base al quale il 57,9% dei casi (336/580) risulta non correlabile, il 30,2% (175) indeterminato e l’8,1% (47/580) inclassificabile per mancanza di informazioni sufficienti. Il rimanente 23,5% (178/758) è in attesa di ulteriori informazioni necessarie alla valutazione. Complessivamente, sui 580 valutati sono, risultati correlabili 22 casi (3,8%, circa 0,2 casi ogni milione di dosi somministrate).
Sono state 118mila le segnalazioni di eventi avversi in un anno. "Era il 27 dicembre 2020 quando l'Italia e l'Europa celebravano il V-Day, il giorno che ha dato inizio alle campagne vaccinali contro Covid, dopo i primi tragici mesi di pandemia. E' passato un anno da allora e oggi il quadro sulla sicurezza dei vaccini può poggiare su un numero crescente di dati e su un primo bilancio: in Italia in un anno sono state inserite complessivamente nella Rete nazionale di farmacovigilanza quasi 118.000 (117.920) segnalazioni di sospetto evento avverso successivo alla vaccinazione Covid (dato al 26 dicembre 2021) su un totale di oltre 108 milioni di dosi (108.530.987), con un tasso di segnalazione di 109 segnalazioni ogni 100.000 dosi somministrate, indipendentemente dal vaccino e dalla dose.
E' questo uno dei dati che emergono dal 'Rapporto annuale sulla sicurezza dei vaccini anti Covid-19', presentato oggi dall'Agenzia italiana del farmaco Aifa. Le segnalazioni riguardano soprattutto il vaccino a mRna di Pfizer/BioNTech, Comirnaty* (68%), che è stato il vaccino più utilizzato, e solo in minor misura i vaccini Vaxzevria* di AstraZeneca (19,8%), Spikevax* di Moderna (10,8%) e quello di J&J sviluppato da Janssen (1,4%).
L'83,7% delle segnalazioni inserite (cioè 98.717) è riferito a eventi non gravi, con un tasso di segnalazione pari a 91/100.000 dosi somministrate, e il 16,2% (19.055) a eventi avversi gravi, con un tasso di 17,6 eventi gravi ogni 100.000 dosi somministrate, indipendentemente dal tipo di vaccino, dalla dose somministrata e dal possibile ruolo causale della vaccinazione. Per tutti i vaccini gli eventi avversi più segnalati sono stati febbre, stanchezza, cefalea, dolori muscolari/articolari, dolore in sede di iniezione, brividi e nausea.
Gli eventi riportati sono perlopiù non gravi e già risolti al momento della segnalazione. Al momento della stesura del rapporto, si legge nel documento, il nesso di causalità secondo l'algoritmo che si utilizza è stato inserito in circa l'83% delle segnalazioni di eventi avversi gravi ed è risultato correlabile alla vaccinazione nel 35,9% di tutte le segnalazioni gravi valutate (5.656/15.731), indeterminato nel 37,7% e non correlabile nel 21,6% (3.393). Il 4,8% delle segnalazioni valutate è inclassificabile.
Nel report c'è un passaggio dedicato anche ai decessi: al 26 dicembre 2021, informa l'Aifa, nella Rete nazionale di farmacovigilanza sono state inserite complessivamente 758 segnalazioni gravi che, al momento della segnalazione o come informazione acquisita successivamente al follow-up, riportano l'esito 'decesso' (0,7 eventi con esito fatale segnalati ogni 100.000 dosi somministrate, sovrapponibile a quanto riportato nel Rapporto precedente), indipendentemente dalla tipologia di vaccino, dal numero di dose e dal nesso di causalità. "Si tratta di un insieme molto eterogeneo di segnalazioni, che sono state attentamente monitorate nel tempo", spiegano gli autori del rapporto.
In Italia il Coronavirus ha compromesso l’assistenza ordinaria ai pazienti colpiti da malattie reumatologiche. Il 62% infatti non è riuscito a mantenere i contatti con lo specialista durante le fasi più acute della pandemia, nemmeno attraverso la telemedicina. Di questi il 27% dichiara che il medico non sia stato reperibile in quei mesi difficili.
Per il 41% l’ospedale non ha messo a disposizione strumenti digitali per la telemedicina. Per otto malati su dieci le nuove tecnologie dovrebbero favorire i contatti non solo con lo specialista di riferimento ma anche con altri professionisti (per esempio il ginecologo, il cardiologo o l’ortopedico). Forti lacune sono evidenziate anche per altri aspetti della gestione della patologia. Per esempio il 91% dei pazienti non utilizza nessun strumento digitale per la somministrazione di farmaci. E nove su dieci auspicano un dialogo costante con il reumatologo anche per affrontare eventuali comorbidità collegate alla malattia. E’ quanto emerge da un sondaggio on line svolto su oltre 200 malati dall’ANMAR Onlus (Associazione Nazionale Malati Reumatici) in collaborazione con l’Osservatorio CAPIRE.
I risultati dell’indagine sono stati presentati, nei giorni scorsi, nel webinar “Il territorio e la reumatologia” realizzato con il supporto non condizionato di UCB. All’evento on line hanno partecipato rappresentati dei pazienti, medici specialisti e istituzioni.
“L’indagine che abbiamo condotto apre interrogativi importanti e ribadisce alcune preoccupazioni che abbiamo denunciato fin dall’inizio della pandemia – sottolinea Silvia Tonolo Presidente ANMAR Onlus -. La lontananza, non solo fisica, di molti pazienti dal proprio specialista può avere determinato problemi di mancata aderenza alla terapia e quindi la continuità di cura. Lo stesso vale per gli esami diagnostici che spesso non sono stati eseguiti. Possono esserci stati dei fenomeni di riacutizzazione delle forme più gravi di artrite o di altre malattie. Da mesi stiamo ricevendo da malati e caregiver questo genere di segnalazioni. In quasi l’intero territorio nazionale il Covid-19 ha interrotto l’assistenza sanitaria reumatologica, soprattutto nell’autunno-inverno del 2020 e in questi ultimi mesi.
La digitalizzazione della sanità e il ricorso a tecnologie di telemedicina risultano ancora deficitarie anche a causa di una scarsa conoscenza da parte sia dei malati che dei medici. Le potenzialità di questi mezzi sono evidenti e tuttavia solo l’11% dei pazienti continua ad usarli regolarmente a distanza di due anni dall’inizio della pandemia. E’ evidente che sia necessario non solo un’implementazione della telemedicina ma anche un’opera di alfabetizzazione per renderne più frequente il ricorso”.
Il sondaggio dell’ANMAR evidenzia inoltre alcune perplessità circa il nuovo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che prevede lo spostamento dell’assistenza sanitaria dall’ ospedale al territorio. Il 30% degli intervistati si dichiara sfavorevole a questo passaggio e di questi il 48% sostiene di sentirsi meglio seguito in ospedale. Il 19% invece ritiene che i medici del territorio non sia sufficientemente preparati nel gestire patologie spesso complesse.
“E’ inevitabile un trasferimento di alcune prestazioni sanitarie dal reparto ospedaliero di reumatologia alla medicina territoriale – commenta Mauro Galeazzi, Responsabile scientifico dell’Osservatorio CAPIRE -. E’ un processo di cui il Covid-19 ha sottolineato l’importanza e spesso evidenziato l’urgente necessità, soprattutto in alcune Regioni della Penisola. I vantaggi possono essere notevoli in termini di accessibilità ai servizi e di funzionalità rispetto alle esigenze dei malati. Nella riorganizzazione della rete assistenziale territoriale è fondamentale la presenza del Reumatologo nelle case/ospedali di comunità essendo le malattie croniche reumatologiche tra le più diffuse nella popolazione, se si vuole veramente ridurre l’afflusso di malati nelle strutture ospedaliere”.
“La rete ospedaliera italiana va riorganizzata e il numero di posti letto dovrebbe essere adeguato anche prevedendo letti dedicati per specialità mediche come la reumatologia – prosegue Roberto Gerli, Presidente della Società Italiana di Reumatologia -. Ciò non esclude però il fatto che ci debba essere una riorganizzazione anche a livello del territorio con una stretta interconnessione tra queste attività ambulatoriali e l’ospedale. E’ un processo che si sta realizzando in molte branche della medicina e che riguarda anche la nostra specialità. In reumatologia, molte terapie possono essere gestite anche al di fuori della struttura ospedaliera, ma al tempo stesso il paziente non deve essere lasciato solo”.
“Una possibile soluzione può essere la creazione di una rete territoriale di ambulatori – aggiunge Daniela Marotto, Presidente del Collegio dei Reumatologi Italiani (CReI) -che siano in collegamento tra loro e con la rete ospedaliera, ambulatori che permettano di dare assistenza ai nostri pazienti al proprio domicilio perchè le patologie reumatologiche sono patologie croniche e come tali vanno seguite sul territorio limitando gli accessi in ospedale alle eventuali riacutizzazioni. Il PNRR offre una grande opportunità: creare reti territoriali, case di comunità, in cui potremo lavorare in integrazione multidisciplinare e multiprofessionale con medici di medicina generale, specialisti di altre branche, operatori della sanità e del sociale che potranno utilizzando i sistemi digitalizzati implementati dare risposte immediate e complete. Realizzando questo potremmo prenderci davvero cura dei nostri pazienti in prossimità della residenza, abbattendo cosi i costi diretti ed indiretti che tanto gravano sul SSN e sulle famiglie”.
“Le malattie reumatologiche comportano delle oggettive difficoltà ai pazienti – conclude Patrizia Comite, Avvocato Legale dell’Osservatorio CAPIRE di ANMAR -. Sette su dieci sostengono di aver problemi a livello personale, familiare e sessuale a causa delle proprie condizioni di salute. Il Covid, i vari lockdown e più in generale il difficile momento storico che stiamo vivendo hanno ulteriormente complicato la situazione. E’ arrivata l’ora di riorganizzare l’assistenza sanitaria italiana tenendo conto delle nuove esigenze e difficoltà di milioni di malati”.
Al fine del webinar sono intervenuti gli Onorevoli: Massimiliano De Toma (Membro X Commissione Attività Produttive, Commercio e Turismo della Camera); Fabiola Bologna (Segretario Commissione Affari Sociali e Sanità Commissione Bicamerale per l’Infanzia e l’Adolescenza Camera) e Rossana Boldi (Vicepresidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera). I Deputati hanno ribadito assoluta importanza e necessità di non sprecare le opportunità offerte dal PNRR. Dopo anni di tagli alla sanità i fondi a disposizione devono essere utilizzati per potenziare la telemedicina e medicina del territorio anche per la gestione di patologie croniche e molto diffuse come quelle reumatologiche.
Ai sensi del DPCM del 4 febbraio 2022 le certificazioni di esenzione dalla vaccinazione anti COVID-19 sono emesse, dal 7 febbraio 2022, esclusivamente in formato digitale in modo analogo a quanto già avviene per le Certificazioni verdi COVID-19 ("Green Pass") e avranno validità sul solo territorio nazionale.
Chi è già in possesso di un certificato di esenzione cartaceo deve ora richiedere la nuova certificazione con il QR code analogo a quello delle Certificazioni verdi COVID-19. Fino al 27 febbraio sarà possibile usare sia le precedenti certificazioni cartacee, sia quelle digitali. Ma dal 28 febbraio sarà necessario avere il certificato in formato elettronico per accedere a luoghi e servizi dove è richiesta la Certificazione verde COVID-19.
L'attestazione di esenzione con il codice CUEV, che genera la certificazione di esenzione con il QR code, è rilasciata, a titolo gratuito e su richiesta dell'assistito, dai medici di medicina generale o pediatri di libera scelta, da medici vaccinatori delle strutture sanitarie, pubbliche e private accreditate e dai medici USMAF o medici SASN operativi nella campagna di vaccinazione anti Covid-19.
Alla certificazione è associato un codice univoco di esenzione dalla vaccinazione (CUEV) attraverso cui si potrà scaricare la certificazione di esenzione digitale con il QR code. Verrà inoltre inviato, via SMS o email, ai recapiti indicati dall’assistito, un codice AUTHCODE, che può essere utilizzato in alternativa al codice CUEV per scaricare la certificazione attraverso gli stessi canali attualmente utilizzati per ottenere il Green Pass.
La APP verificaC19 è già predisposta per il loro riconoscimento in piena sicurezza. Si tutela in questo modo il diritto alla privacy dei cittadini esenti e si rendono più rapide le operazioni di verifica.
Hanno diritto al certificato di esenzione tutti coloro che, per la presenza di specifiche condizioni cliniche documentate, non possono essere vaccinati o per cui la vaccinazione debba essere differita.
La validità delle certificazioni di esenzione dipende dalla specifica condizione clinica che ne ha giustificato il rilascio ed è indicata nella certificazione stessa. In caso di sopravvenuta positività a SARS-CoV-2 anche le certificazioni di esenzione sono revocate e poi riattivate automaticamente con la guarigione.
"Sappiamo che i vaccini a Rna sono efficaci, sicuri e sono stati utilissimi, ma abbiamo ancora il problema delle varianti e della protezione contro l'infezione che scende nel tempo.
Era necessario esplorare altre vie, una di queste è creare antigeni, ovvero le proteine spike che diano una risposta più duratura e che coprano più varianti possibili. Queste ricerche sui vaccini pan-coronavirus arrivano per questo motivo". A spiegare all'agenzia Dire il meccanismo di funzionamento dei vaccini pan-coronavirus in fase di sviluppo, è Francesco Scaglione, farmacologo e direttore della struttura di analisi chimico cliniche e microbiologia dell'ospedale Niguarda di Milano. I vaccini pan-coronavirus in fase di sviluppo sono almeno due, quello del Walter Reed Institute, in fase avanzata, e quello del California Institute of Technology, ma vi sono anche altre novità, come ci racconta più avanti Scaglione.
"Con questi nuovi vaccini siamo noi a determinare la quantità di antigene, a differenza di quelli a Rna che invece si basano sulla sollecitazione alla produzione di antigene da parte del nostro organismo, una produzione però che può essere limitata e quindi insufficiente a far fronte all'infezione da Covid- spiega Scaglione- A questo punto, con questi nuovi vaccini, tutte le perplessità dei no vax crolleranno- fa notare il farmacologo- perchè con i vaccini a Rna messaggero iniettiamo l'acido nucleico, che induce la produzione della proteina spike, ovvero l'antigene, che ci serve a produrre anticorpi. Invece questi in fase di sviluppo sono vaccini proteici, che funzionano in modo tradizionale e agiscono anche con tecnologie maggiormente innovative, ovvero il ruolo delle nanoparticelle, come la ferritina per esempio, che svolgono il ruolo di trasportatori di spike, molta spike per la precisione, ovvero quella determinata quantità di antigene che ci serve: le 24 mutazioni della proteina spike contenuta nel virus Sars-Cov-2, per esempio".
"C'è anche un altro meccanismo- spiega il primario del Niguarda- ed è quello che si sta utilizzando per il vaccino spagnolo Hipra: si tratta di produrre una spike con più siti di attacco degli anticorpi, ovvero creare una sequenza dell'antigene, che include tutte le varianti, in grado quindi di coprire tutte le possibili varianti, anche quelle future. Noi del Niguarda saremmo gli unici in Italia a sperimentare il farmaco dell'azienda spagnola Hipra. Questo è altrettanto un vaccino tradizionale con adiuvanti e basato sulla proteina ricombinante, lo stesso meccanismo alla base del vaccino Novavax".
Questi vaccini allo studio, i due americani e quello spagnolo, non risolvono definitivamente il problema delle varianti "ma le loro chance sono maggiori- spiega Scaglione- la spike che in essi viene sintetizzata ha più epitopi, ovvero tutte le mutazioni possibili connesse alle varianti che ad oggi conosciamo. Non possiamo prevedere tutte le mutazioni che arriveranno ma possiamo inserire tutte le varianti possibili- esemplifica Scaglione- i vaccini a Rna sono stati più semplici da fare rispetto a questi con base proteica.
"In ogni caso il vaccino più avanti nella fase di sviluppo è quello di Hipra, che mira al booster e che quindi sta facendo una sperimentazione in Europa su persone che hanno già due dosi. Gli altri due devono condurre i trial su persone non vaccinate o che non hanno avuto il Covid. Per tutti e tre i prototipi, già nel 2022 potremmo averli- annuncia il primario- Per il trial con Hipra, presso il Niguarda, dovremmo arruolare 200-300 persone, altre centinaia di persone sono arruolate tra Spagna e Portogallo, per arrivare ad almeno 2000-3000 soggetti, per concludere il trial entro l'anno. Gli obiettivi del trial sono: vedere la risposta booster e verificarne la durata rispetto alle varianti. Ricordo che Hipra non basa il suo funzionamento sulla nanoparticella: è vaccino tradizionale adiuvato, più o meno simile a quello di Novavax ma cambiano gli adiuvanti e la proteina sintetizzata. Il concetto però è lo stesso".
Dovevamo già averlo Novavax, ma lo aspettiamo ancora: perché dovremmo pensare che questi vaccini abbiano più successo? "E' una bella domanda", risponde Scaglione, che però, da principal investigator del trial di Hipra presso il Niguarda aggiunge: "Ci sono aziende che hanno sempre fatto vaccini e aziende che invece, a fronte di un lavoro molto ben fatto sull'ideazione di nuovi farmaci, si scontrano con le difficoltà produttive di un vaccino". Hipra si occupa da sempre di vaccini, in ambito veterinario soprattutto, e avrà vita più semplice per i suoi trial perchè dovrà trovare persone che hanno ricevuto due dosi di vaccino, a differenza di altre aziende che devono testarlo su persone che non sono guarite né immunizzate.
E' entrata in vigore in Austria - con la firma del presidente Alexander Van der Bellen - la legge che impone la vaccinazione anti Covid obbligatoria dai 18 anni in su.
La norma si applica a tutti i residenti che abbiano compiuto i 18 anni, tranne le donne in stato di gravidanza e chi non può vaccinarsi per motivi medici. Esenti anche a determinate condizioni quanti hanno contratto il Covid e sono recentemente guariti.
Le infrazioni comporteranno multe fino a 3600 euro a partire dalla metà di marzo, quando inizieranno gli accertamenti. Il 70% circa degli austriaci è immunizzato con almeno due dosi di vaccino. Nel Paese si registrano quotidianamente circa 33mila contagi. Il numero dei decessi è aumentato negli ultimi giorni - con venti morti nelle ultime ore - una cifra comunque lontana dal picco raggiunto alla fine dello scorso anno, quando si registravano 150 morti al giorno.
"Vogliamo parlare del vaccino under 5? Ormai con la variante Omicron di Sars-CoV-2 i bambini si sono infettati tutti o comunque moltissimi di loro. Io penso che queste decisioni debbano essere prese con un quadro chiaro.
Se vogliamo considerare questa opzione, allora facciamo un'analisi sierologica in questa fascia d'età e vediamo quanti hanno gli anticorpi, quanti si sono infettati".
Mentre negli Usa si prospetta all'orizzonte un'imminente richiesta di via libera da parte delle aziende per il vaccino di Pfizer-BioNTech nei piccoli sotto i 5 anni, il virologo Andrea Crisanti, quando questa possibilità si concretizzerà anche per l'Europa e l'Italia, vedrebbe necessaria una linea di cautela nell'avvio di una massiccia campagna di immunizzazione.
Prima, spiega all'Adnkronos Salute il direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell'università di Padova, occorre capire qual è la situazione oggi in questa popolazione. "Serve uno screening per vedere quello che c'è. E' inutile fare le cose a caso - avverte - Non possiamo svegliarci al mattino e dire: facciamo il vaccino agli under 5. Questi bambini si sono molti infettati dopo la variante Omicron. Fra 3-4 settimane facciamo un bel sierologico e vediamo se vale la pena di vaccinarli".
Crisanti va anche oltre. "Io propongo un'indagine nazionale e dico di più: la farei anche sui 5-11enni ora, alla luce dell'elevata circolazione che sta avendo la variante Omicron nel Paese. Vale un principio: non devono essere dati farmaci inutilmente. In particolare nei bambini", precisa.
Stendere le braccia per tenersi alla giusta distanza dagli altri, filtrare le lezioni attraverso lo schermo del PC o del cellulare, non condividere con i compagni di scuola una gita e, spesso, nemmeno il tempo dell'intervallo.
Imparare a leggere e a scrivere con la mascherina, decifrando suoni attutiti. Subire il grave impoverimento relazionale durante il loro percorso di crescita, che rischia di tradursi in un drastico aumento di disturbi psico-fisici per i più giovani. Sono 734 mila i bambini nati in Italia in 'epoca Covid'. 876mila coloro che frequentavano già la scuola dell'infanzia e che a causa della pandemia hanno vissuto quest'esperienza in maniera frammentata e discontinua. 1 milione e mezzo di alunni di primaria, 1 milione e 600 mila studenti al primo anno delle medie e 1 milione e 707 mila adolescenti all'ingresso delle superiori, hanno iniziato i nuovi cicli di studio affrontando maggiori difficoltà di ambientamento e costruzione delle relazioni con i nuovi insegnanti e compagni.
Sono la 'generazione sospesa' nel limbo del covid, una generazione di bambine, bambini e adolescenti che, in un silenzio assordante, ha fatto negli ultimi 2 anni ciò che l'essere umano sa fare meglio: adattarsi. Come spiega Save The Children in una nota. All'avvio del terzo anno di pandemia in Italia, si delinea infatti chiaramente come l'emergenza stia incidendo sulle fondamentali fasi di crescita e sviluppo dei bambini. Il crollo degli apprendimenti - certificato dai dati Invalsi - è solo una delle facce del problema, che riguarda fortemente anche la sfera emotiva e relazionale. Lo sottolinea oggi Save the Children, l'Organizzazione che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro.
Nel 2020 e fino all'ottobre 2021 - si legge ancora - 734 mila neonati sono venuti al mondo circondati da adulti spesso coperti in volto dalle mascherine e, fatta eccezione per periodi in cui le misure di contenimento della pandemia sono state allentate, hanno vissuto in un mondo chiuso e proiettato all'interno dei nuclei familiari. Hanno percepito a volte le tensioni dei genitori per la salute e le difficoltà da affrontare e, soprattutto per i bambini nati nei contesti più svantaggiati, sono venuti a mancare degli importanti stimoli che avrebbero potuto ricevere da una dimensione sociale più allargata. Se le difficoltà "ai blocchi di partenza" hanno complicato i primi anni di vita di molti bambini, gli ultimi due anni non sono stati facili per gli 876 mila bambini che frequentavano già la scuola dell'infanzia e che hanno dovuto fare i conti con discontinuità e frammentazione di un'esperienza centrale per il loro percorso educativo.
La preclusione della dimensione sociale è stata particolarmente difficile per i 31 mila bambini e bambine con qualche forma di disabilità di questa fascia d'età che, in diverse fasi hanno dovuto rinunciare alle relazioni fondamentali con i coetanei e con gli educatori. In un percorso già denso di ostacoli - scrivono ancora da Save The Children - 110 mila minori di origine straniera tra i 3 e i 6 anni sono stati più esposti al rischio di deficit di opportunità di integrazione, a causa della scarsa pratica della lingua italiana all'interno del nucleo familiare.
La perdita di relazioni con i pari, la sovra-esposizione alla rete internet, la riduzione dell'attività fisica hanno pesato ancor più gravemente sui bambini che hanno vissuto, con le loro famiglie, un drammatico impoverimento economico. In un solo anno, infatti, la povertà minorile è aumentata di 200mila unità, arrivando a colpire più di 1milione 300mila bambini. "Per un adolescente, il deficit di relazioni sociali è altrettanto, se non più grave, della perdita di apprendimento prodotta dalla pandemia- ha dichiarato Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia Europa di Save the Children- Così come giustamente ci interroghiamo su come rafforzare l'offerta formativa per superare il gap di conoscenze che si è prodotto in questo periodo, allo stesso modo dobbiamo prendere urgenti provvedimenti per colmare il deficit di socialità che sta colpendo la crescita dei ragazzi, con conseguenze talvolta drammatiche".
Il percorso educativo di ogni bambina e bambino è segnato da momenti di svolta cruciali per la costruzione del futuro, che la pandemia ha stravolto nella forma e nella sostanza, continua la nota. A cominciare dalla "prima volta" di ogni ciclo scolastico, come il primo anno di scuola primaria o l'ingresso alla secondaria di primo e poi di secondo grado. L'emergenza covid-19 ha contrassegnato la prima elementare di 1 milione e mezzo di alunni, il primo anno delle medie di 1 milione e 600 mila studenti e l'ingresso alle superiori di 1 milione e 707 mila adolescenti, con le conseguenti maggiori difficoltà di ambientamento e costruzione delle relazioni con i nuovi insegnanti e compagni.
Oltre mezzo milione di 10-11enni a giugno 2020 non ha potuto salutare e festeggiare la fine della scuola primaria con la propria classe. "Per capire la portata dell'impatto della pandemia su questa generazione, basta prendere in considerazione la scuola secondaria di primo grado, dove più di mezzo milione di studenti che frequentano oggi la terza media non ha mai vissuto pienamente gli ambienti di apprendimento che la scuola offre: si sono destreggiati tra DAD, DID, quarantene, non potendo, in molti casi, neanche fare una vera e propria ricreazione con gli altri studenti, partire in gita, partecipare alle feste e alle attività extracurriculari che consentono di conoscersi ancora di più e meglio, anche al di fuori dell'orario scolastico", ha proseguito Raffaela Milano di Save the Children.
"Non possiamo attendere che la sola, auspicata, ripresa economica compensi automaticamente il forte deficit di relazioni e di fiducia nel futuro, che si sta allargando a macchia d'olio. Come Paese dobbiamo attrezzarci per rispondere subito a questa emergenza silenziosa." Per questo, Save the Children chiede al Governo centrale e alle Regioni un piano di azione nazionale per il benessere e la salute psicofisica dei bambini, degli adolescenti e delle loro famiglie. È indispensabile un impegno congiunto e coordinato del Servizio Sanitario Nazionale e di quello socioeducativo, poiché solo attraverso un'azione sinergica, che veda protagoniste anche le famiglie, il terzo settore e il mondo dello sport, sarà possibile prevenire effetti di lungo periodo su una intera generazione".
Per i bambini e gli adolescenti più colpiti dalla crisi, sottolinea l'Organizzazione, è necessaria l'attivazione immediata di "ristori educativi", ovvero di un pacchetto gratuito di opportunità extra-scolastiche (attività culturali, attività sportive, soggiorni estivi, sostegno allo studio, sostegno psicologico). Queste opportunità dovrebbero essere definite dagli stessi ragazzi e ragazze, rendendoli finalmente protagonisti delle scelte, per vivere esperienze educative di qualità che rafforzino l'autostima e la motivazione.
"Già prima della pandemia i servizi di salute mentale per l'età evolutiva erano molto carenti e distribuiti in modo disuguale sul territorio. Oggi, a due anni dalla pandemia, è indispensabile che le misure di rafforzamento della rete siano immediatamente rese operative, anche avvalendosi delle risorse stanziate dal PNRR, e che si effettui una attenta verifica sulle liste di attesa per l'accesso ai servizi, a garanzia del diritto alla salute per tutti i bambini e gli adolescenti. Chiediamo infine al Governo centrale e alle Regioni di promuovere un'azione capillare di sensibilizzazione, informazione e orientamento rivolta ai genitori, ai docenti, agli educatori e agli stessi ragazzi e ragazze per mettere il benessere psicofisico al centro, superando lo stigma che ancora oggi circonda l'accesso alle cure per la salute mentale e formando tutte le figure educative nella capacità di riconoscere tempestivamente ogni segnale di disagio", ha concluso Raffaela Milano.
Save the Children ha lanciato nel 2021 la piattaforma Officina del Benessere volta a rafforzare la conoscenza e la preparazione degli adulti di riferimento - genitori, insegnanti, educatori - perché possano meglio prevenire, riconoscere tempestivamente e affrontare adeguatamente le forme di disagio legate alla salute psicofisica delle bambine, dei bambini e degli adolescenti. La piattaforma multimediale online è disponibile per tutti e di facile consultazione, raccoglie ricerche, analisi e approfondimenti sul fenomeno, ma anche e soprattutto consigli utili, pillole video di esperti su aspetti specifici, schede per attività educative e psicosociali, webinar, contenuti formativi e altri strumenti multi-disciplinari.
Nell'arco dei due anni di emergenza, l'Organizzazione, in rete con i partner territoriali, ha potenziato, in particolare nei quartieri e nei territori svantaggiati, gli interventi dedicati ad ogni fascia d'età, per promuovere il benessere psicofisico e la socialità dei bambini e degli adolescenti, contrastare la povertà materiale ed educativa, sostenere i genitori e prevenire la dispersione scolastica.
Come la maggior parte dei vaccini, i vaccini a RNA devono essere iniettati, il che può essere un ostacolo per le persone che temono gli aghi. Ora, un team di ricercatori del MIT ha sviluppato un modo per fornire RNA in una capsula che può essere ingerita, che sperano possa aiutare a rendere le persone più ricettive nei loro confronti.
Oltre a rendere i vaccini più facili da tollerare, questo approccio potrebbe anche essere utilizzato per fornire altri tipi di RNA o DNA terapeutico direttamente nel tratto digestivo, il che potrebbe rendere più facile il trattamento di disturbi gastrointestinali come le ulcere.
“Gli acidi nucleici, in particolare l'RNA, possono essere estremamente sensibili alla degradazione, in particolare nel tratto digestivo. Il superamento di questa sfida apre molteplici approcci alla terapia, inclusa la potenziale vaccinazione per via orale", afferma Giovanni Traverso, Karl van Tassel Career Development Assistant Professor of Mechanical Engineering al MIT e gastroenterologo al Brigham and Women's Hospital.
In un nuovo studio, Traverso e i suoi colleghi hanno dimostrato che potrebbero utilizzare la capsula che hanno sviluppato per fornire fino a 150 microgrammi di RNA - più della quantità utilizzata nei vaccini Covid mRNA - nello stomaco dei maiali.
Traverso e Robert Langer, il David H. Koch Institute Professor al MIT e membro del Koch Institute for Integrative Cancer Research del MIT, sono gli autori senior dello studio. Alex Abramson PhD '19 e postdoc del MIT Ameya Kirtane e Yunhua Shi sono gli autori principali dello studio, che appare oggi sulla rivista Matter .
Somministrazione di farmaci per via orale
Per diversi anni, i laboratori di Langer e Traverso hanno sviluppato nuovi modi per somministrare farmaci al tratto gastrointestinale. Nel 2019, i ricercatori hanno progettato una capsula che, dopo essere stata ingerita, può inserire farmaci solidi, come l'insulina, nel rivestimento dello stomaco.
La pillola, delle dimensioni di un mirtillo, ha una cupola alta e ripida ispirata alla tartaruga leopardo. Proprio come la tartaruga è in grado di raddrizzarsi se rotola sulla schiena, la capsula è in grado di orientarsi in modo che il suo contenuto possa essere iniettato nel rivestimento dello stomaco.
Nel 2021, i ricercatori hanno dimostrato di poter utilizzare la capsula per fornire grandi molecole come anticorpi monoclonali in forma liquida. Successivamente, i ricercatori hanno deciso di provare a utilizzare la capsula per fornire acidi nucleici, che sono anche grandi molecole.
Gli acidi nucleici sono suscettibili alla degradazione quando entrano nel corpo, quindi devono essere trasportati da particelle protettive. Per questo studio, il team del MIT ha utilizzato un nuovo tipo di nanoparticella polimerica che i laboratori di Langer e Traverso avevano recentemente sviluppato.
Queste particelle, che possono fornire RNA con alta efficienza, sono costituite da un tipo di polimero chiamato poli (beta-amino esteri). Il precedente lavoro del team del MIT ha mostrato che le versioni ramificate di questi polimeri sono più efficaci dei polimeri lineari nel proteggere gli acidi nucleici e farli entrare nelle cellule. Hanno anche dimostrato che l'utilizzo di due di questi polimeri insieme è più efficace di uno solo.
"Abbiamo creato una libreria di poli(beta-amino esteri) ibridi ramificati e abbiamo scoperto che i polimeri di piombo al loro interno avrebbero funzionato meglio dei polimeri di piombo all'interno della libreria lineare", afferma Kirtane. "Quello che ci consente di fare ora è ridurre la quantità totale di nanoparticelle, che stiamo amministrando".
Per testare le particelle, i ricercatori le hanno prima iniettate nello stomaco dei topi, senza usare la capsula di somministrazione. L'RNA che hanno fornito codifica per una proteina reporter che può essere rilevata nei tessuti se le cellule assorbono con successo l'RNA. I ricercatori hanno trovato la proteina reporter nello stomaco dei topi e anche nel fegato, suggerendo che l'RNA era stato assorbito in altri organi del corpo e poi trasportato al fegato, che filtra il sangue.
Successivamente, i ricercatori hanno liofilizzato i complessi RNA-nanoparticelle e li hanno confezionati nelle loro capsule di somministrazione del farmaco. Lavorando con gli scienziati di Novo Nordisk, sono stati in grado di caricare circa 50 microgrammi di mRNA per capsula e di fornire tre capsule nello stomaco dei maiali, per un totale di 150 microgrammi di mRNA. Questa è la quantità maggiore di mRNA nei vaccini Covid ora in uso, che hanno da 30 a 100 microgrammi di mRNA.
Negli studi sui maiali, i ricercatori hanno scoperto che la proteina reporter è stata prodotta con successo dalle cellule dello stomaco, ma non l'hanno vista in altre parti del corpo. In un lavoro futuro, sperano di aumentare l'assorbimento dell'RNA in altri organi, modificando la composizione delle nanoparticelle o somministrando dosi maggiori. Tuttavia, potrebbe anche essere possibile generare una forte risposta immunitaria con la consegna solo allo stomaco, afferma Abramson.
"Ci sono molte cellule immunitarie nel tratto gastrointestinale e stimolare il sistema immunitario del tratto gastrointestinale è un modo noto per creare una risposta immunitaria", afferma.
Attivazione immunitaria
I ricercatori ora intendono studiare se possono creare una risposta immunitaria sistemica, inclusa l'attivazione delle cellule B e T, somministrando vaccini mRNA usando la loro capsula. Questo approccio potrebbe essere utilizzato anche per creare trattamenti mirati per le malattie gastrointestinali, che possono essere difficili da trattare con l'iniezione tradizionale sottocutanea.
"Quando si ha un parto sistemico tramite iniezione endovenosa o iniezione sottocutanea, non è molto facile colpire lo stomaco", afferma Abramson. "Vediamo questo come un potenziale modo per trattare diverse malattie presenti nel tratto gastrointestinale".
Matter: "Oral mRNA delivery using capsule-mediated gastrointestinal tissue injections" DOI: 10.1016/j.matt.2021.12.022
Antonio Caperna
All'Istituto Spallanzani di Roma il primo paziente Covid-19 trattato con la pillola antivirale di Pfizer in Italia. Paxlovid* è stato prescritto a un uomo di 54 anni, con malattia cardiovascolare e Covid-19, sintomatico da 3 giorni.
Lo comunica la direzione dell’istituto. Il farmaco è composto da un antivirale, il Nirmatrelvir, e da un farmaco potenziante, il Ritonavir. Sono 3 compresse da prendere la mattina e 3 la sera, per 5 giorni.
"Da tempo insisto su terapie (monoclonali e antivirali) e vaccino, strumenti integrativi e non sostitutivi l'uno dell'altro. Ora siamo in grado di liberare gli ospedali da ricoveri" Covid "incongrui, per destinarli anche alle altre patologie a partire da quelle oncologiche e cardiovascolari. Siamo sulla strada giusta", afferma Francesco Vaia, direttore dell'Inmi Spallanzani di Roma.
Mentre l'assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D'Amato, in una nota sottolinea: "Il contrasto al Covid ci ha insegnato che il fattore tempo è essenziale. Bene ha fatto l'Istituto Spallanzani a partire subito con i reclutamenti per la somministrazione del nuovo antivirale Paxlovid", la pillola di Pfizer, "un'arma in più che non sostituisce il vaccino. Nella giornata di domani si partirà anche negli altri centri regionali". "Il Lazio - sottolinea - è tra le Regioni che hanno le migliori performance nella copertura vaccinale, nella somministrazione degli anticorpi monoclonali e degli antivirali".
Ieri la struttura commissariale per l'emergenza Covid guidata dal Generale Francesco Paolo Figliuolo ha informato che da oggi, venerdì 4 febbraio, sarebbe iniziata la distribuzione alle Regioni/Province autonome dei primi 11.200 trattamenti completi di Paxlovid*, nell’ambito del contratto finalizzato lo scorso 27 gennaio dalla Struttura commissariale con la casa farmaceutica Pfizer, d’intesa con il ministero della Salute. Il contratto - si spiega - prevede la fornitura di complessivi 600mila trattamenti completi nel corso del 2022, i quali verranno progressivamente distribuiti alle Regioni – non appena disponibili - secondo le indicazioni del ministero della Salute e dell’Aifa.
Una copia del vaccino anti covid mRna Moderna, ricercatori di un'azienda biotecnologica sudafricana hanno affermato di averla quasi creata senza il coinvolgimento dell'azienda americana. La notizia è riportata sulla rivista 'Nature'.
Afrigen Biologics and Vaccines, con sede a Cape Town, ha prodotto solo microlitri del vaccino, sulla base dei dati che Moderna ha utilizzato per realizzare il suo prodotto scudo. Ma - si legge sul sito della rivista scientifica - il risultato è un traguardo importante per un'iniziativa più ampia lanciata dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), un hub di trasferimento tecnologico, che punta a costruire una capacità produttiva di questi vaccini nei Paesi a basso e medio reddito.
"I vaccini di Moderna e Pfizer-BioNTech sono ancora destinati principalmente alle nazioni più ricche", afferma Martin Friede, il funzionario dell'Oms che coordina l'hub. "Il nostro obiettivo è consentire ad altri Paesi di crearne di propri". Rimangono molti passaggi prima che l'imitazione del vaccino a mRna firmata Afrigen possa essere distribuita alle persone in Africa. Ma quella realizzata dai ricercatori sudafricani è la prima fase del piano. La fase successiva del progetto prevede che diverse aziende del sud del mondo imparino da Afrigen a creare loro stesse lotti di vaccini, per testarli nei roditori. Entro la fine di novembre, l'Oms prevede che un'imitazione del vaccino Moderna sia pronta per i trial di fase 1 nell'uomo, per testarne la sicurezza. L'Oms spera che il processo di creazione getti le basi per un'industria dei vaccini mRna più distribuita a livello globale in futuro.
Gerhardt Boukes, ricercatore capo di Afrigen, l'azienda cuore dell'hub Oms, si è detto orgoglioso del lavoro fatto. Gli esperti sono partiti con l'mRna, che codifica una porzione modificata del coronavirus Sars-CoV-2 e sono arrivati a incapsularlo in una nanoparticella lipidica, che porta il vaccino alle cellule. "Non abbiamo avuto l'aiuto dei principali produttori di vaccini", dice, "quindi lo abbiamo fatto noi stessi per mostrare al mondo che si può fare, e si può fare qui nel continente africano", ha spiegato. Quando l'Oms ha lanciato il suo hub in Sudafrica lo scorso giugno, ha chiesto a Moderna, Pfizer e BioNTech di aiutare a insegnare ai ricercatori come realizzare i vaccini anti-Covid. Ma le aziende non hanno risposto, si legge su 'Nature' e l'Oms ha deciso di andare avanti comunque senza il loro aiuto.
La scelta del vaccino da replicare è caduta su quello di Moderna, perché sono pubblicamente disponibili maggiori informazioni sul suo sviluppo e perché Moderna ha promesso di non far valere i suoi brevetti durante la pandemia. L'azienda americana però non ha risposto a 'Nature' che le ha chiesto un commento sulla decisione dell'Oms di copiare il vaccino. Con fondi provenienti da paesi tra cui Francia, Germania e Belgio, i ricercatori sudafricani hanno iniziato a lavorare al progetto alla fine di settembre. Un team dell'università di Witwaterstrand, a Johannesburg, ha preso l'iniziativa di eseguire il primo passo: creare una molecola di Dna che servisse da modello per sintetizzare l'mRna necessario per il vaccino.
Sebbene questa sequenza sia stata posta sotto brevetto da Moderna, i ricercatori della Stanford University in California l'avevano depositata nel database online 'Virological.org' a marzo dello scorso anno. Nonostante i ritardi nella spedizione delle materie prime, il team sudafricano ha completato il processo in 10 settimane e inviato fiale di mRna ad Afrigen all'inizio di dicembre. Diversi scienziati da tutto il mondo, appreso dell'iniziativa in corso, hanno offerto la loro assistenza ai ricercatori, riferisce il servizio pubblicato su 'Nature'.
"Alcuni di loro - si legge - erano ricercatori dei National Institutes of Health degli Stati Uniti che avevano condotto un lavoro fondamentale sui vaccini mRna". Un gesto definito "straordinario" da Petro Terblanche, managing director di Afrigen: "Penso che molti scienziati fossero delusi da ciò che era successo con la distribuzione del vaccino e volessero aiutare a far uscire il mondo da questo dilemma".
Il 5 gennaio è stata la volta dell'incapsulamento. Boukes afferma di non aver ancora utilizzato la miscela lipidica specifica di Moderna, ma un'altra immediatamente resa disponibile dal produttore della macchina che il laboratorio utilizza per creare le nanoparticelle lipidiche. Il programma è di usare quella di Moderna nei prossimi giorni, non appena arriverà un ultimo strumento necessario. Successivamente, il team analizzerà la formulazione per assicurarsi che sia veramente una copia simile del vaccino di Moderna.
Cosa accadrà il prossimo anno resta incerto. Charles Gore, direttore del Medicines Patent Pool, un'organizzazione internazionale che lavora con l'hub, afferma che l'iniziativa non ha intenzione di violare i brevetti di Moderna. La ricerca di laboratorio generalmente non è soggetta alle regole sui brevetti, spiega. E una volta che il vaccino sarà pronto per l'uso, la speranza, aggiunge, è che Moderna possa quindi concedere in licenza i suoi brevetti o che per allora ci saranno alternative che queste aziende potrebbero produrre senza timore di andare incontro a una causa.
La vitamina D è spesso riconosciuta per il suo ruolo nella salute delle ossa ma bassi livelli del supplemento sono stati associati a una serie di malattie autoimmuni, cardiovascolari e infettive.
All'inizio della pandemia, i funzionari sanitari hanno iniziato a incoraggiare le persone a prendere la vitamina D, poiché svolge un ruolo nella promozione della risposta immunitaria e potrebbe proteggere dal COVID-19.
In uno studio pubblicato oggi sulla rivista PLOS ONE , i ricercatori della Facoltà di Medicina Azrieli dell'Università Bar-Ilan di Safed, in Israele, e del Galilee Medical Center di Nahariya, in Israele, mostrano una correlazione tra carenza di vitamina D e gravità e mortalità del COVID-19.
Lo studio è tra i primi ad analizzare i livelli di vitamina D prima dell'infezione, il che facilita una valutazione più accurata rispetto al ricovero, quando i livelli possono essere inferiori a seconda della malattia virale.
I record di 1.176 pazienti ricoverati tra aprile 2020 e febbraio 2021 al Galilee Medical Center (GMC) con test PCR positivi sono stati ricercati per livelli di vitamina D misurati da due settimane a due anni prima dell'infezione.
I pazienti con carenza di vitamina D (meno di 20 ng/mL) avevano 14 volte più probabilità di avere casi gravi o critici di COVID rispetto a quelli con più di 40 ng/mL.
Sorprendentemente, la mortalità tra i pazienti con livelli sufficienti di vitamina D era del 2,3%, in contrasto con il 25,6% nel gruppo carente di vitamina D.
Lo studio ha aggiustato per età, sesso, stagione (estate/inverno), malattie croniche e ha trovato risultati simili su tutta la linea, evidenziando che un basso livello di vitamina D contribuisce in modo significativo alla gravità e alla mortalità della malattia.
"I nostri risultati suggeriscono che è consigliabile mantenere livelli normali di vitamina D. Ciò sarà vantaggioso per coloro che contraggono il virus- afferma il dott. Amiel Dror del Galilee Medical Center e della Facoltà di Medicina Azrieli dell'Università di Bar-Ilan, che ha condotto lo studio- C'è un chiaro consenso per la supplementazione di vitamina D su base regolare, come consigliato dalle autorità sanitarie locali e dalle organizzazioni sanitarie globali".
Il dottor Amir Bashkin, un endocrinologo che ha partecipato allo studio in corso, aggiunge che "questo è particolarmente vero per la pandemia di COVID-19, la vitamina D ha un ulteriore vantaggio per la corretta risposta immunitaria alle malattie respiratorie".
"Questo studio contribuisce a un corpus di prove in continua evoluzione, che suggeriscono che la storia di un paziente di carenza di vitamina D è un fattore di rischio predittivo associato a un decorso e alla mortalità della malattia clinica COVID-19 più poveri- conclude il coautore dello studio, il prof. Michael Edelstein, del Azrieli Facoltà di Medicina dell'Università Bar-Ilan- Non è ancora chiaro il motivo per cui alcuni individui subiscono gravi conseguenze dell'infezione da COVID-19 mentre altri no. La nostra scoperta aggiunge una nuova dimensione alla risoluzione di questo enigma".
Antonio Caperna
Un articolo del marzo 2020 sulla vitamina D e il coronavirus http://www.salutedomani.com/article/protezione_dal_coronavirus_il_ruolo_della_vitamina_d_28901
Covid in Italia, nel report Iss di oggi il dato sul calo di indice Rt e incidenza, ma anche quello sui ricoveri e terapie intensive in discesa. Segnalate inoltre 3 tra Regioni e province autonome a rischio alto, 3 moderato e 15 basso. Scendono anche i nuovi casi non associati a catene di trasmissione.
"Si osserva una diminuzione dell’incidenza settimanale a livello nazionale: 1.362 ogni 100mila abitanti (28 gennaio - 3 febbraio) contro 1.823 ogni 100mila abitanti (21-27 gennaio), dati flusso ministero Salute". Lo sottolinea il report dell'Istituto superiore di sanità (Iss) con i dati principali del monitoraggio della Cabina di regia.
"Nel periodo 12-25 gennaio, l’Rt medio calcolato sui casi sintomatici è stato pari a 0,93 in diminuzione rispetto alla settimana precedente e al di sotto della soglia epidemica - riporta l'Iss - Lo stesso andamento si registra per l’indice di trasmissibilità basato sui casi con ricovero ospedaliero (Rt=0,89 al 25 gennaio contro Rt=0,96 al 18 gennaio".
Continuano intanto a scendere i tassi di occupazione delle terapie intensive e dei ricoveri in area medica. Il primo "è al 14,8% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 3 febbraio) contro il 16,7% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 27 gennaio). Il tasso di occupazione in aree mediche a livello nazionale è al 29,5% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 3 febbraio) contro il 30,4% (rilevazione giornaliera ministero della Salute al 27 gennaio)".
"Tre Regioni e province autonome sono classificate a rischio alto, a causa dell’impossibilità di valutazione per incompletezza dei dati inviati; 3 Regioni risultano classificate a rischio Moderato. Tra queste, una Regione è ad alta probabilità di progressione a rischio alto. Le restanti 15 Regioni e province autonome sono classificate a rischio basso", evidenzia il report.
"Dieci Regioni e province autonome riportano almeno una singola allerta di resilienza. Una Regione riporta molteplici allerte di resilienza", precisa l'Iss.
"Diminuisce il numero di nuovi casi non associati a catene di trasmissione (553.860 contro 652.401 della settimana precedente). La percentuale dei casi rilevati attraverso l’attività di tracciamento dei contatti è in leggera diminuzione (17% contro 18% la scorsa settimana). È stabile invece la percentuale dei casi rilevati attraverso la comparsa dei sintomi (38% contro 38%) ed anche la percentuale di casi diagnosticati attraverso attività di screening (45% contro 45%)".
"Diverse Regioni e province autonome hanno segnalato problemi nell’inserimento dei dati del flusso individuale ed in particolare nella segnalazione della presenza di sintomi in tutti i casi diagnosticati", rimarca il report.
Dalla Francia alla Germania passando per la Norvegia sono diversi i Paesi che stanno allentando o si apprestano ad allentare le misure anti-covid. In Gran Bretagna già dallo scorso 27 gennaio non c'è più l'obbligo di indossare le mascherine. E, sempre dalla stessa data, il lavoro a distanza non verrà più raccomandato ufficialmente e il Green pass sanitario non sarà più necessario per accedere ai locali e partecipare ai grandi raduni.
"Nel Paese in generale, continueremo a suggerire l'uso di mascherine in luoghi chiusi o affollati, in particolare dove si entra in contatto con persone che normalmente non si incontrano. Ma ci fideremo del giudizio del popolo britannico e non criminalizzeremo più chi sceglie di non indossarne una", ha dichiarato il premier britannico Boris Johnson
In Francia niente più mascherine all'aperto da oggi. Revocati anche i limiti di presenze nelle sale dei concerti e agli eventi sportivi, mentre il lavoro da casa non è più obbligatorio, anche se resta raccomandato. ''A febbraio'' la Francia ''toglierà la maggior parte delle restrizioni introdotte per contenere la pandemia'' grazie al nuovo pass vaccinale, ha spiegato il primo ministro francese Jean Castex il mese scorso. Il 16 febbraio prevista anche la riapertura dei nightclub chiusi da dicembre.
Anche la Danimarca ha detto addio alle misure e alle restrizioni anti covid: da ieri l'obbligo di indossare le mascherine e di esibire il Green Pass non è più in vigore, mentre sono stati di nuovo autorizzati gli eventi e la frequentazione delle discoteche. La decisione va di pari passo con la scelta di far cadere la definizione del Covid-19 come una malattia "socialmente critica", usata per giustificare l'adozione delle norme anti-pandemia. Solo chi entra nel paese sarà chiamato ad esibire una prova della vaccinazione.
Una scelta analoga era stata fatta dal Paese a novembre ma all'epoca le restrizioni erano poi state progressivamente reintrodotte a fronte di un forte aumento dei contagi. La settimana scorsa la Danimarca ha registrato tra i 33mila ed i 47mila nuovi contagi quotidiani ma l'aumento delle infezioni non ha prodotto una pressione aggiuntiva sugli ospedali, come si temeva, grazie all'alta percentuale di popolazione vaccinata. Le mascherine resteranno in vigore negli ospedali, per il personale e i visitatori, a tutela delle persone più fragili.
Anche la Norvegia ha deciso di mettere fine a gran parte delle misure restrittive anti Covid. Il provvedimento, con effetto immediato, è stato annunciato dal premier Jonas Gahr Stoere, che ha spiegato che un eventuale nuovo aumento dei contagi non metterebbe a rischio le strutture sanitarie del Paese. A bar ristoranti sarà quindi consentito di servire alcolici dopo le 23, lo smartworking non sarà più obbligatorio, così come il limite di assembramento di 10 persone nelle abitazioni private. Il limite di partecipanti negli eventi sportivi ed in altri luoghi pubblici, come i cinema, viene cancellato. Rimane però in vigore l'obbligo di indossare la mascherina nei negozi, sui trasporti pubblici e in altri luoghi affollati. Le restrizioni, ha spiegato il premier norvegese, potrebbero essere reintrodotte in futuro, così come rimane consigliato il distanziamento sociale. I dati ufficiali indicano che oltre il 90% della popolazione over 18 è stata vaccinata con due dosi.
L'Austria ha annunciato un graduale allentamento delle misure anti-covid nei prossimi giorni, di fronte alla ridotta pressione sugli ospedali malgrado l'alto numero di nuovi casi covid. A partire dal 5 febbraio, ha annunciato il cancelliere Karl Nehammer, il coprifuoco in vigore scatterà a mezzanotte invece che alle 22. Dal 12 non sarà più necessario mostrare la prova del vaccino o di un test negativo per entrare nei negozi al dettaglio. Dal 19, chi non è vaccinato potrà tornare a frequentare bar, pub e ristoranti a condizioni di avere un test negativo. Nehammer ha spiegato che l'allentamento è legato alla situazione degli ospedali. "I numeri sono stabili e ad un prevedibile buon livello", ha sottolineato il cancelliere. Il ministro per il Turismo, Elisabeth Koestinger, ha salutato lo spostamento del coprifuoco come un importante miglioramento per il suo settore, sia per gli esercenti che i turisti.
Se la situazione epidemica proseguirà con l'andamento previsto oggi, vale a dire, se non si presenteranno altre varianti del covid, più pericolose e più trasmissibili, la Germania potrebbe sollevare il prossimo marzo gran parte delle restrizioni contro il covid, ha anticipato il ministro della Giustizia, Marco Buschmann, in una intervista al Rheinische Post. L'effettivo sollevamento delle restrizioni dipende dal "proseguimento della diminuzione dei casi a partire da metà febbraio", come ha previsto il Robert Koch Institute, ha precisato il ministro. Il Cancelliere Olaf Scholz incontrerà i 'premier' dei Land, a cui spetta la definizione delle politiche per il contrasto dell'epidemia, il 16 di questo mese.
Israele da domenica cancellerà l'obbligo di Green Pass per gran parte dei luoghi pubblici, compresi ristoranti, alberghi e cinema. La prova di essere stati vaccinati o guariti dal Covid continuerà ad essere richiesta per l'accesso ad eventi affollati, come matrimoni o feste. Secondo quanto deciso dal governo, inoltre, cadrà anche l'obbligo di effettuare un test per i viaggiatori in partenza dal Paese, mentre il test negativo sarà ancora necessario per i viaggiatori in arrivo.
A febbraio dello scorso anno, Israele fu tra i primi Paesi al mondo ad introdurre il passaporto vaccinale. Gli esperti ritengono oggi che il Paese abbia superato il picco della variante Omicron, la cui ondata è iniziata lo scorso dicembre.
Luci e ombre nell’assistenza oncologica in Italia, messa a dura prova da due anni di pandemia. Nel nostro Paese sono attive 371 Oncologie, l’85% ha un servizio di supporto psicologico. Le Breast Unit, dedicate alla cura del tumore della mammella, sono 287, di queste l’80% tratta più di 150 nuovi casi ogni anno (la soglia minima stabilita a livello europeo).
Significativi i passi avanti realizzati nella definizione dei percorsi diagnostico-terapeutici e assistenziali (PDTA), essenziali per garantire un’assistenza multidisciplinare, sono stati infatti deliberati dalle reti oncologiche ben 1.375 documenti. Quasi l’80% delle strutture ha una nutrizione clinica di riferimento. Le criticità riguardano in particolare l’assistenza domiciliare oncologica, disponibile solo per il 68% dei centri. Inoltre, sono da implementare i gruppi di cure simultanee. Preoccupa soprattutto l’aumento di casi di tumore in fase avanzata, a causa dei ritardi nelle diagnosi e nelle cure accumulati in 24 mesi di pandemia. Per questo, gli oncologi chiedono un “Recovery Plan” dedicato. La fotografia dello stato dell’oncologia nel nostro Paese è scattata dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), che domani, in occasione della Giornata mondiale contro il cancro (World Cancer Day), organizzerà il Convegno nazionale virtuale sulle “Sfide globali e il cancro”. L’incontro include anche l’evento sui diritti delle persone che hanno superato la malattia (“Dottore sono guarito?”), organizzato da Fondazione AIOM.
“Serve subito un ‘piano di recupero’ dell’oncologia, per colmare i ritardi nell’assistenza ai pazienti oncologici, che vada dalla diagnosi alla chirurgia, alla terapia medica fino alla radioterapia – afferma Saverio Cinieri, Presidente Nazionale AIOM -. Senza un’adeguata programmazione, che preveda l’assegnazione di risorse e personale dedicato, le oncologie del nostro Paese non saranno in grado di affrontare l’ondata di casi di cancro in fase avanzata stimati nei prossimi mesi e anni. In queste settimane, la nuova ondata della pandemia causata dalla variante Omicron sta mettendo in crisi la gestione dei reparti di oncologia e l’attività chirurgica programmata è stata sospesa o rallentata, poiché le terapie intensive sono occupate da pazienti con Covid. I danni per le persone colpite da cancro rischiano di essere molto gravi, in quanto il successo delle cure dipende anche dai tempi brevi entro cui viene eseguito l’intervento chirurgico”.
“La crisi nell’assistenza sanitaria, causata dalla pandemia non può più essere affrontata con iniziative estemporanee come è avvenuto finora, basate sull’apertura e chiusura dei reparti in relazione all’incremento del numero dei contagiati dal Covid-19 – afferma il Presidente AIOM -. Chiediamo alle Istituzioni di definire una programmazione a medio e lungo termine sulla conservazione e implementazione dell’attività oncologica ospedaliera. Soffriamo in particolare la mancanza di personale e di spazi, sarebbe anche appropriato comprendere come la maggior parte dei trattamenti di oncologia medica venga effettuata in regime di Day-Hospital, permettendo ai pazienti di continuare, compatibilmente con la malattia e con le cure, una vita quanto più normale possibile”.
Ogni anno in Italia vengono diagnosticati circa 377mila nuovi casi di tumore. L’alto livello dell’assistenza oncologica nel nostro Paese è evidenziato dalle percentuali di sopravvivenza a 5 anni, che raggiungono il 65% nelle donne e il 59% negli uomini. Inoltre, in sei anni (2015-2021), si è osservato un calo complessivo della mortalità per cancro del 10% negli uomini e dell’8% nelle donne.
“Ottimi risultati che però rischiano di essere vanificati senza una programmazione adeguata, perché la quarta ondata pandemica sta peggiorando ulteriormente una situazione già critica – continua Cinieri -. Plaudiamo alle iniziative del Governo che, tra il decreto di agosto e l’ultima legge di Bilancio, ha stanziato 1 miliardo di euro per recuperare gli interventi, gli screening e le visite rinviate a causa della pressione del Covid sugli ospedali. Ma non basta. Se non viene definito un ‘piano di recupero’, che includa anche il potenziamento del personale e delle strutture, rischiamo di non riuscire a gestire la prossima epidemia di casi avanzati di tumore, determinata anche dai ritardi nell’assistenza accumulati in questi due anni di pandemia”.
Nel 2020, in Italia, le nuove diagnosi di neoplasia si sono ridotte dell’11% rispetto al 2019, i nuovi trattamenti farmacologici del 13%, gli interventi chirurgici del 18%. Non solo. Gli screening per il tumore della mammella, della cervice uterina e del colon retto hanno registrato una riduzione di due milioni e mezzo di esami nel 2020 rispetto al 2019. Sono state stimate anche le diagnosi mancate: oltre 3300 per il tumore del seno, circa 1300 per il colon-retto (e 7474 adenomi in meno) e 2782 lesioni precancerose della cervice uterina. “Le neoplasie, non rilevate nel 2020, ora stanno venendo alla luce, ma in stadi più avanzati e con prognosi peggiori rispetto al periodo precedente la pandemia – spiega il Presidente Cinieri -. Inoltre, queste patologie presentano anche un carico tumorale maggiore, cioè metastasi diffuse, con quadri clinici che non vedevamo da tempo”.
“La revisione dell’assistenza oncologica non deve fermarsi all’ospedale, per questo preoccupa il dato sull’assistenza domiciliare, ancora non soddisfacente – sottolinea Massimo Di Maio, Segretario Nazionale AIOM -. Vanno implementati anche i gruppi di cure simultanee. Un’integrazione precoce nel percorso di cura di interventi di supporto, in un’ottica di cure simultanee, ha un impatto positivo sulla qualità e quantità di vita del paziente e sui risultati attesi con le terapie. La pandemia, inoltre, ha acuito la mancanza di integrazione fra oncologia e medicina di famiglia. La scarsa comunicazione tra i centri oncologici e il territorio determina ritardi nell’accesso agli esami e agli specialisti durante la fase diagnostica, con potenziali ripercussioni sulle opportunità di individuazione precoce della malattia. Va rafforzata questa connessione all’inizio del percorso assistenziale, prima ancora che una persona diventi un paziente oncologico. E non appena il trattamento attivo inizia, va contattato il medico di base per informarlo sullo scopo del trattamento, sulle possibili tossicità e sull’evoluzione prevista della situazione clinica”. “La cura del cancro è un’attività complessa, quindi, oltre a una buona comunicazione, è necessario rafforzare la formazione degli operatori sanitari – continua Massimo Di Maio -. Un’opzione è costituita dal miglioramento delle competenze oncologiche nell’ambito della comunità, ad esempio attraverso medici territoriali specializzati in oncologia oppure garantendo a tutti i medici di famiglia una formazione intermedia nella gestione dei malati di cancro. Investire nel territorio può rendere più sostenibile l’assistenza oncologica”.
Anche la ricerca è fondamentale in oncologia, perché consente di portare al letto del paziente i trattamenti innovativi. “Il 45% delle strutture nel Libro Bianco di AIOM è dotato di coordinatori di ricerca clinica, ma quasi sempre queste figure, essenziali per la conduzione delle sperimentazioni, ricoprono una posizione lavorativa precaria – conclude Francesco Perrone, Presidente eletto AIOM -. Servono più risorse da investire nella ricerca clinica, ma anche nella ricerca di laboratorio ed epidemiologica. Oggi sappiamo che fino al 40% dei tumori potrebbe essere prevenuto, migliorando gli stili di vita (smettendo di fumare, evitando il sovrappeso e mantenendo un alto livello di attività fisica); ma si stima anche che il 16% delle morti per cancro potrebbe essere attribuibile ad esposizioni ambientali. In questo senso i prossimi anni, in cui ci si augura che su scala globale si realizzi la cosiddetta transizione ecologica necessaria per salvare la terra, rappresentino una occasione anche per la prevenzione primaria del cancro, affinché gli interventi collettivi e individuali necessari per ridurre le emissioni di gas serra e il riscaldamento globale siano coerenti con le modifiche comportamentali che consentirebbero di ridurre l’incidenza e la mortalità per cancro”.