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"È bene essere prudenti. I sei mesi della durata del Green pass si basano sull'evidenza scientifica: oggi siamo sicuri che questo è il periodo di protezione dopo la vaccinazione o una eventuale infezione naturalmente acquisita.
Man mano che acquisiremo nuove conoscenze allora il periodo potrà essere ampliato. Oggi stiamo vedendo che questa protezione potrebbe durare anche 8/9 mesi". Così Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute, interpellato nel corso di una video intervista rilasciata all'agenzia Dire sulla durata del Green pass.
SPERIAMO NON ARRIVI VARIANTE PIÙ CONTAGIOSA
Un'estate serena e un autunno senza nuove ondate di Covid-19? "Dipende molto da noi e sostanzialmente da tre cose- ha detto ancora Ricciardi- l'accelerazione della campagna vaccinale, per vaccinare quante più persone possibile; il mantenimento delle misure di sicurezza e delle cautele, come l'uso delle mascherine, le norme igieniche e il divieto di assembramenti soprattutto al chiuso". Per Ricciardi bisogna poi avere "la speranza che non arrivi una variante più contagiosa e infettiva". Al momento "preoccupa quella indiana, che sta prendendo il sopravvento in Gran Bretagna, quindi bisogna essere molto attenti alla mobilità".
MASCHERINA VIA CON ALMENO 70-80% VACCINATI
"Si potrà fare a meno della mascherina quando saremo sicuri e questo dipenderà dalla copertura vaccinale. Nel momento in cui il 70/80% della popolazione, non il 15%, sarà vaccinato allora sarà un punto di partenza" ha risposto Ricciardi interpellato sulla possibilità di rimuovere l'obbligo dell'uso della mascherina. "Comunque in ambienti al chiuso e non ben ventilati- ha aggiunto- sarà sempre opportuno utilizzarla".
IN FUTURO CI VACCINEREMO COME CONTRO INFLUENZA
"Se chi ha avuto il Covid dovrà vaccinarsi? Penso di sì. Il protocollo, per quanto riguarda le categorie più fragili, prevede una unica dose a sei mesi dal termine della sintomatologia. È probabile che in futuro ci dovremo vaccinare tutti di nuovo, perché questo è un microrganismo che probabilmente rimarrà endemico, cioè stabilmente presente, che potrà essere sotto controllo con la vaccinazione come nel caso dell'influenza" ha detto il consulente del ministro della Salute. "Noi siamo ospiti di questo mondo, in cui i virus e i batteri stanno da molto prima di noi- ha concluso Ricciardi- quindi siamo noi a doverci in qualche modo adattare. Dobbiamo capire che la loro è una presenza costante da miliardi di anni, mentre noi siamo da pochi milioni di anni sul Pianeta. Quindi dobbiamo adottare tutte le cautele comportamentali, ma soprattutto quelle che la scienza ci dà, come i vaccini, i farmaci e gli antibiotici, che ci garantiscono di combattere i virus".
Il primo studio sperimentale preclinico, effettuato su modello murino, ha provato l’efficacia del candidato vaccino LeCoVax2 messo a punto nei laboratori dell’Università Statale di Milano nell’induzione di anticorpi in grado di neutralizzare il virus SARS-CoV-2.
L’incoraggiante risultato arriva da un lavoro di ricerca coordinato da Claudio Bandi, Sara Epis e Gian Vincenzo Zuccotti del Centro di Ricerca Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con Emanuele Montomoli, responsabile scientifico di VisMederi Research srl (e docente presso l’Università di Siena), che si è già tradotto in due brevetti depositati nel mese di febbraio di quest’anno.
LeCoVax2 presenta caratteristiche innovative, che lo differenziano dagli altri vaccini attualmente in uso per il controllo di COVID 19, sia per il meccanismo di azione, sia per gli aspetti relativi alla conservazione e alla distribuzione, che sappiamo essere fondamentali per la gestione delle fasi future della pandemia.
I vaccini attualmente utilizzati per il controllo di COVID-19 in Europa si basano essenzialmente su due tipologie di piattaforme: RNA somministrati all’interno di piccole particelle lipidiche o virus modificati, incapaci di replicare e di determinare infezione, contenenti frammenti genici del virus SARS-CoV-2. Entrambe le piattaforme prevedono che la produzione delle proteine del virus (i cosiddetti antigeni, che scatenano la risposta immunitaria) avvenga all’interno delle cellule dei soggetti vaccinati.
La piattaforma vaccinale utilizzata per la produzione di LeCoVax2 è completamente diversa perché si basa su un microrganismo unicellulare modificato, in grado sia di produrre sia di trasportare le proteine virali che fungono da antigeni, e che possono quindi stimolare la produzione di anticorpi nel soggetto vaccinato. Il microorganismo che ci viene in aiuto, mettendoci a disposizione una sorta di “micro-fabbrica di proteine”, è Leishmania tarentolae, una Leishmania non patogena per l’uomo (e che non ha nulla a che fare con quella che provoca la leishmaniosi nei cani) somministrabile in forma inattivata.
“Leishmania tarentolae rappresenta una sorta di micro-fabbrica, utilizzabile per la produzione di proteine molto simili a quelle prodotte nelle cellule di un mammifero, ad esempio da un virus durante l’infezione o da un vaccino a RNA”, spiega Sara Epis del Dipartimento di Bioscienze della Statale, “Una volta inoculate in un mammifero, le proteine virali prodotte in Leishmania hanno la capacità di agire come le proteine prodotte dal virus stesso durante l’infezione naturale. Quindi come antigeni virali in grado di stimolare la produzione di anticorpi”.
“Leishmania presenta un’altra caratteristica peculiare: una spiccata tendenza a penetrare all’interno delle cellule che intervengono nelle prime fasi della risposta immunitaria, le cellule dendritiche”, continua Claudio Bandi del Dipartimento di Bioscienze della Statale. “Pertanto, l’utilizzo di Leishmania come sistema per la produzione e per il trasporto degli antigeni permette di veicolare queste molecole direttamente alle cellule che giocano un ruolo centrale nell’induzione della risposta immunitaria. Sono queste le caratteristiche che ci hanno spinto a realizzare LeCoVax2”.
“Sulla carta, LeCoVax2 risultava promettente sin dalle prime fasi di sviluppo”, spiega Emanuele Montomoli di VisMederi Research, “ma solo nelle ultime settimane abbiamo ottenuto i risultati sperimentali che hanno provato la sua efficacia come induttore di una risposta anticorpale specifica. Lo studio è stato effettuato su modello murino ed ha permesso di rilevare la produzione di anticorpi in grado di neutralizzare il virus SARS-CoV-2”.
“Le peculiarità di LeCoVax2 lo rendono molto promettente per l’applicazione nei paesi in via di sviluppo”, interviene Gianvincenzo Zuccotti, Preside della Facoltà di Medicina e afferente al Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche L. Sacco dell’Università Statale di Milano. “La tecnologia necessaria alla sua produzione è relativamente semplice; inoltre, essendo somministrato in forma inattivata, si presta per essere sviluppato in preparati liofilizzati reidratabili, quindi agevoli da conservare e distribuire. Riteniamo inoltre che LeCoVax2 possa essere sviluppato per una somministrazione per via mucosale (ad esempio orale), cosa che ne faciliterebbe l’utilizzo, aspetto importante se la vaccinazione anti-COVID dovesse essere ripetuta nel corso degli anni. Nelle prossime settimane procederemo con le indagini precliniche su LeCoVax2, soprattutto per la definizione della formulazione più idonea per l’utilizzo negli studi clinici”, conclude Zuccotti.
Lo sviluppo di LeCoVax2 è stato reso possibile grazie al finanziamento della Fondazione Romeo ed Enrica Invernizzi che nel 2016 ha consentito di costituire il Centro di Ricerca Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi dell’Università Statale di Milano. Le attività di ricerca sono state supportate dal grande impegno e dal contributo di numerosi ricercatori, sia dell’Università di Milano (tra cui Ilaria Varotto Boccazzi, Louise Gourlay, Paolo Gabrieli, Camilla Recordati, Paolo Fiorina) che dell’istituto di ricerca VisMederi (Alessandro Manenti, Francesca Dapporto) e dalla Direzione Innovazione e valorizzazione delle conoscenze.
Nel Regno Unito non è stato registrato alcun decesso da Covid nelle ultime 24 ore. E' la prima volta che accade dal marzo del 2020. Gli ultimi dati riportano inoltre 3.165 nuovi contagi, rispetto ai 3.383 di lunedì e ai 2.493 di una settimana fa.
Il numero totale delle vittime tra le persone che erano risultate positive nei 28 giorni precedenti il decesso è di 127.782 morti.
Gli ultimi dati giungono mentre nel Regno Unito è in corso un dibattito sull'opportunità di revocare, come previsto, tutte le misure restrittive a partire dal 21 giugno. Gli esperti sono preoccupati dall'insorgenza della variante indiana e dal rischio al quale potrebbero andare incontro i non vaccinati e coloro che ancora non hanno completato il ciclo di vaccinazioni.
Ad oggi, nel Regno Unito sono state somministrate 65.211.877 doci di vaccino, di cui 39.477.158 prime dosi e 25.734.719 seconde dosi.
Infermieri di famiglia e comunità per implementare un nuovo modello di assistenza domiciliare anche durante la pandemia per pazienti covid e non covid: ancora a rilento l'immissione nel sistema.
Il decreto Rilancio ne ha previsti 9.600 a maggio 2020, per il primo anno con contratti flessibili e dal 2021 assunti a tempo indeterminato: finora sono in servizio solo in 1.132, l’11,9% delle previsioni.
A certificarlo è la Corte dei conti nel suo Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica, dove tra si dice chiaramente che “limitato è il grado di attuazione di misure, quali l’utilizzo degli infermieri di comunità” e “incerti anche i risultati sul fronte del potenziamento dell’assistenza domiciliare o del recupero dell’attività ordinaria sacrificata nei mesi dell’emergenza, che rappresenta forse il maggior onere che la pandemia ci obbliga ora ad affrontare”.
La Corte dei conti parla chiaro: 747mila ricoveri in meno e 145 milioni di prestazioni ambulatoriali per i pazienti non Covid saltati per la pandemia e non ancora recuperati, visto che delle risorse stanziate per farlo è stato utilizzato solo il 62% (in alcune Regioni anche meno del 20%).
E dei 32mila infermieri impegnati nell’emergenza (soprattutto in ospedale), la maggior parte sono a tempo determinato: il 27,4% hanno avuto un contratto stabile.
“L’assistenza sul territorio, ma a che quella in ospedale – afferma Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche – non si può limitare all’emergenza difronte ai milioni di prestazioni ‘saltate’ e che per ora non si accenna a recuperare. Per questo non si può pensare di utilizzare personale assunto in modo precario: è necessario riorganizzare i servizi e integrare gli organici. La carenza di infermieri supera le 60mila unità e il peso si questa situazione si fa sentire in modo sempre più serio sull’assistenza”.
“Senza infermieri non c’è salute, ma soprattutto non c’è assistenza h24 – aggiunge Mangiacavalli –. Ora, grazie anche al Recovery Plan che stanzia risorse importanti proprio per implementare le cure di prossimità, il Governo metta in campo tutte le misure per potenziare gli organici infermieristici e per stabilizzarne l'inquadramento contrattuale: oggi la media degli infermieri per mille abitanti è di circa 5,7, mentre nei paesi dell’OCSE supera l’8,5”.
“Gli studi nazionali e internazionali parlano chiaro: pochi infermieri riducono anche il livello di assistenza erogato dai servizi. La correlazione del numero di assistiti in carico a ogni infermiere (nel servizio pubblico) lega, a ogni paziente in più, rispetto a uno standard medio di 6 per professionista, un rischio aumentato di mortalità del 5-7% (ma in alcuni servizi, come le Terapie Intensive o l’assistenza pediatrica, il rapporto diminuisce a 4 e anche a 2 pazienti per infermiere). Non si può non garantire l’assistenza con personale stabile, motivato e formato secondo le linee specialistiche di cui anche durante i momenti più gravi dell’emergenza è emersa la necessità”.
Durante pandemia e lockdown i giovani fumatori hanno fumato di più. Dalla Romagna arrivano "brutte notizie dal fronte della prevenzione dei tumori", avvisa l'Istituto oncologico romagnolo dopo aver sondato 2.340 studenti di 18 scuole superiori del territorio per indagare se e quanto le misure restrittive anti-contagio da Covid abbiano inciso sul consumo di sigarette dei ragazzi.
Ebbene, il responso dice che circa il 42% degli adolescenti fumatori ha peggiorato la propria dipendenza dalla nicotina: la percentuale si attesta sul 44% per Ravenna, 42% per Forlì-Cesena e 38% per Rimini. Al contrario, solo il 25% degli intervistati ha diminuito il consumo: 22% su Ravenna, 30% su Forlì-Cesena e 23% su Rimini. "Sebbene tendenzialmente chiusi in casa e costretti ad una convivenza maggiore coi genitori, i giovani che hanno sfruttato il lockdown come occasione per smettere di fumare sono pochissimi e si aggirano intorno al 5,5%", dice ancora l'Istituto oncologico romagnolo diffondendo i dati in vista della Giornata mondiale senza tabacco di lunedì prossimo.
La percentuale di adolescenti romagnoli che si accende una sigaretta si attesta sul 13%: anche in questo caso il primato è di Ravenna col 16%, seguita da Forlì-Cesena con il 12% e Rimini con l'11%. Per tutte e tre le province la fascia d'età in cui il vizio del fumo colpisce va tra i 17 e i 18 anni, quando il tabacco è abitudine praticamente di un giovane su due (48%). Le ragazze si confermano più tabagiste dei coetanei maschi, statistica in linea con i dati dell'Oms che indicano la crescirta del tumore al polmone tra le donne: del campione dichiara di fumare il 16,5% delle ravennati, il 15% delle riminesi e il 13% delle studenti di Forlì-Cesena; percentuali che calano per gli adolescenti rispettivamente al 15%,7% e 11%.
"Il sondaggio fotografa una situazione allarmante- spiega il direttore generale Ior, Fabrizio Miserocchi- sapevamo come buona parte delle restrizioni imposte per il contenimento del contagio avessero avuto ripercussioni su socialità e quotidianità degli adolescenti, ma fino ad ora non avevamo idea di avessero conseguenze sulle loro scelte di salute". L'indagine ha evidenziato come "le emozioni principali provate dai giovani verso la didattica a distanza fossero di stress e frustazione: è lecito dunque pensare che l'aumento del consumo di tabacco" tra gli studenti delle superiori "sia legato a questi stati d'animo. Col piano vaccinale speriamo che la situazione si normalizzi".
Tuttavia, prosegue Miserocchi, "sappiamo come il vizio del fumo possa essere difficile da eradicare, dunque ci aspetta un lavoro impegnativo sul territorio per sensibilizzare le nuove generazioni sui rischi della sigaretta". La "cosa positiva è che le nuove generazioni si sono sempre dimostrate molto coinvolte sul tema". Per cui, si confida che, "una volta recuperati e riallacciati su base quotidiana quei legami fondamentali che la scuola è capace di creare, avremo di fronte ragazzi molto motivati e attenti alle dinamiche della lotta contro il cancro". Da parte sua anche nel 2021 l'Istituto oncologico romagnolo ha lanciato il concorso "Liberi di Scegliere": dopo un laboratorio sul fumo, si è chiesto agli studenti delle medie di produrre elaborati per sensibilizzare i coetanei a non accendere la sigaretta. Il lavoro giudicato più meritevole diventerà manifesto di una campagna inizia lunedì.
"L'obiettivo è anticipare l'età in cui normalmente i ragazzi si approcciano alla prima sigaretta, affinché possano affrontare quel momento con maggiore consapevolezza e, auspicabilmente, rifiutare di accenderla", conclude Miserocchi.
Secondo gli scienziati della Perelman School of Medicine dell'Università della Pennsylvania, il farmaco diABZI, che attiva la risposta immunitaria innata del corpo, è stato molto efficace nel prevenire il COVID-19 grave nei topi infettati da SARS-CoV-2.
I risultati, pubblicati questo mese su Science Immunology suggeriscono che diABZI potrebbe trattare anche altri coronavirus respiratori.
"Pochi farmaci sono stati identificati come rivoluzionari nel bloccare l'infezione da SARS-CoV-2. Questo documento è il primo a dimostrare che l'attivazione terapeutica di una risposta immunitaria precoce con una singola dose è una strategia promettente per il controllo del virus, compreso il virus sudafricano. variante B.1.351, che ha suscitato preoccupazione in tutto il mondo- afferma l'autore senior Sara Cherry, professore di patologia e medicina di laboratorio e direttore scientifico dell'High-Throughput Screening (HTS) Core presso la Penn Medicine- Lo sviluppo di antivirali efficaci è urgentemente necessario per controllare l'infezione e la malattia da SARS-CoV-2, soprattutto perché continuano a emergere varianti pericolose del virus".
Il virus SARS-CoV-2 prende inizialmente di mira le cellule epiteliali nel tratto respiratorio. Come prima linea di difesa contro le infezioni, il sistema immunitario innato del tratto respiratorio riconosce i patogeni virali rilevandone i modelli molecolari. Cherry e il suo team di ricerca hanno innanzitutto cercato di comprendere meglio questo effetto osservando al microscopio le linee cellulari polmonari umane che erano state infettate da SARS-CoV-2.
Hanno scoperto che il virus è in grado di nascondersi, ritardando il riconoscimento e la risposta precoci del sistema immunitario. I ricercatori hanno previsto che potrebbero essere in grado di identificare farmaci – o piccole molecole con proprietà simili a farmaci – che potrebbero innescare questa risposta immunitaria nelle cellule respiratorie prima e prevenire una grave infezione da SARS-CoV-2.
Per identificare gli agonisti antivirali che bloccherebbero l'infezione da SARS-CoV-2, i ricercatori hanno eseguito uno screening ad alto rendimento di 75 farmaci, che prendono di mira percorsi specifici nelle cellule polmonari. Hanno esaminato i loro effetti sull'infezione virale al microscopio e hanno identificato nove candidati - inclusi due dinucleotidi ciclici (CDN) - che hanno significativamente soppresso l'infezione attivando STING (simulazione dei geni dell'interferone).
Poiché "i CDN hanno una bassa potenza, secondo Cherry, ella e il suo team hanno deciso di testare anche un agonista STING di piccole molecole di nuova concezione, chiamato diABZI, che non è approvato dalla Food and Drug Administration ma è attualmente in fase di sperimentazione clinica per il trattamento di alcuni tipi di cancro. I ricercatori hanno scoperto che diABZI inibisce potentemente l'infezione da SARS-CoV-2 di diversi ceppi, inclusa la variante di preoccupazione B.1.351, stimolando la segnalazione dell'interferone.
Infine, i ricercatori hanno testato l'efficacia di diABZI in topi transgenici infettati da SARS-CoV-2. Poiché il farmaco doveva raggiungere i polmoni, il diABZI è stato somministrato attraverso il naso. I topi trattati con diABZI hanno mostrato una perdita di peso molto inferiore rispetto a quelli di controllo, avevano una carica virale significativamente ridotta nei polmoni e nelle narici e una maggiore produzione di citochine, il che supporta la scoperta che diABZI stimola l'interferone per l'immunità protettiva.
Cherry ha affermato che i risultati dello studio offrono la promessa che diABZI potrebbe essere un trattamento efficace per SARS-CoV-2 che potrebbe prevenire gravi sintomi di COVID-19 e la diffusione dell'infezione. Inoltre, poiché è stato dimostrato che diABZI inibisce la replicazione del virus parainfluenzale umano e del rinovirus nelle cellule in coltura, l'agonista STING può essere più ampiamente efficace contro altri virus respiratori.
"Stiamo testando questo agonista STING contro molti altri virus", ha detto Cherry. "È davvero importante ricordare che SARS-CoV-2 non sarà l'ultimo coronavirus che vedremo e contro cui avremo bisogno di protezione".
La Central Sindical Independiente y de Servants (CSIF), il sindacato più rappresentativo nelle pubbliche amministrazioni e con una crescente presenza nel settore privato, ha ottenuto la prima sentenza in Spagna che riconosce la malattia professionale in un operatore sanitario, contagiato dal coronavirus.
Si tratta di una sentenza emessa il 21 maggio dal Tribunale sociale numero 3 di Talavera de la Reina (Toledo).
La sentenza riguarda un assistente amministrativo che, pur soffrendo in due occasioni di un'invalidità temporanea per sindrome respiratoria acuta da Covid e successivamente di dispnea e disturbi respiratori successivi, ha visto negarsi dalla Previdenza Sociale e dalla mutua Solimat il riconoscimento di malattia professionale (fondamentale per la protezione futura in caso di gravi conseguenze o risarcimento derivante dalla morte).
Come denunciato dal CSIF, fino a questa sentenza, la Previdenza Sociale non ha riconosciuto alcun caso di malattia professionale riconducibile a Covid, come si evince dalle statistiche. Questo perché, nonostante l'annuncio del Governo, il Covid oggi viene preso in considerazione solo ai fini della prestazione di invalidità temporanea. Ciò significa che quando la pandemia finisce, le sue conseguenze non possono essere giustificate come un danno derivato dal tuo lavoro.
Tuttavia la sentenza è chiara e ritiene provato che questa persona abbia subito un primo processo di Disabilità Temporanea con diagnosi di sindrome respiratoria acuta grave associata al coronavirus e, quindi, che abbia sofferto di una malattia inserita nell'elenco delle malattie professionali. ("malattie infettive causate dal lavoro di persone, che si occupano di prevenzione, assistenza medica e attività in cui è stato dimostrato un rischio di infezione). Il tribunale ritiene inoltre dimostrato che era esposto a un rischio da coronavirus nella sua professione.
Per quanto riguarda la seconda invalidità temporanea con diagnosi di dispnea e disturbi respiratori, il magistrato comprende che non vi è dubbio che si tratti di conseguenze derivate dal contagio da covid e che, di conseguenza, dovrebbe essere considerata ugualmente come una malattia professionale.
A seguito di questa sentenza, CSIF promuoverà nuove rivendicazioni individuali in modo che questo diritto sia riconosciuto. Inoltre i tribunali corroborano gli argomenti del CSIF, secondo cui il riconoscimento della malattia professionale dovrebbe essere esteso a tutto il personale che fornisce i propri servizi in centri sanitari o socio sanitari, indipendentemente dalla categoria professionale in cui si presentano.
Deficit nel riconoscimento delle contingenze e dei benefici del lavoro
I lavoratori di tutti i ceti sociali, nei servizi considerati essenziali, quando è stato decretato il lockdown, e in particolare il personale sanitario, sono stati esposti al virus per più di un anno. "Tuttavia, abbiamo scoperto che la sorveglianza della salute sul lavoro continua a essere un problema in sospeso in Spagna -si legge in una note- Fin dall'inizio, gli indicatori ci mostrano un deficit nel riconoscimento delle contingenze lavorative e dei benefici derivanti dal contagio del virus".
Lo scorso febbraio, come richiesto dal CSIF dall'inizio della pandemia, il Governo ha riconosciuto il contagio da coronavirus come malattia professionale per il personale che presta i propri servizi nei centri sanitari e socio sanitari con effetti retroattivi dall'inizio della pandemia. "All'epoca abbiamo avvertito delle carenze di questo decreto, se la gestione d'ufficio non fosse stata agevolata".
D'altra parte, le Statistiche sugli infortuni sul lavoro corrispondenti allo scorso anno e ai primi tre mesi del 2021 (ultimi dati disponibili) riconoscono solo 26 decessi e 14.358 infortuni sul lavoro dovuti a Covid-19.
Il CSIF ritiene che queste cifre non riflettano la realtà degli effetti del Covid tra i lavoratori, sulla base dell'evoluzione della pandemia e dei dati del Ministero della Salute spagnolo.
"Se confrontiamo le statistiche, vediamo che fino a marzo di quest'anno ci sono stati 13.252 infortuni sul lavoro per Covid-19 tra il personale sanitario, 24 dei quali mortali, secondo i dati del Ministero del Lavoro. Tuttavia, il Ministero della Salute aumenta il numero di infezioni nello stesso periodo a oltre 128.280. Ciò significa che solo il 10% dei casi viene riconosciuto come Covid-19 e come infortunio sul lavoro nel personale sanitario, ovvero la forza lavoro con il maggior numero di infezioni in Spagna dall'inizio della pandemia".
Dopo il personale sanitario, secondo le stesse statistiche del Ministero del Lavoro, nello stesso periodo, le attività economiche in cui si registrano gli infortuni sul lavoro sono: residenze (colpisce che solo 701 registrati e nessun caso mortale nonostante la virulenza speciale del covid19 in questo settore) ; pubblica amministrazione e difesa (318 infortuni e 0 decessi) e altre attività (87 infortuni e 0 decessi).
"Il CSIF ritiene che questo mancato riconoscimento degli incidenti sul lavoro da parte del Covid-19 nelle statistiche del Ministero del Lavoro sia spiegato da errori nell'elaborazione delle pratiche e da una chiara mancanza di volontà politica di garantire la tutela di questi gruppi, soprattutto in ambito sanitario, dove i contagi sono purtroppo in prima linea a livello internazionale. Inoltre denunciamo gli ostacoli che vengono prodotti dai servizi di prevenzione dell'Amministrazione e delle aziende private, nonché dalla Previdenza Sociale al riconoscimento di questa contingenza professionale e dei relativi benefici".
Questa circostanza, derivata dal caos nella gestione dei congedi per malattia (vengono conteggiati come assenze per malattia anziché infortuni sul lavoro) genera una mancanza di protezione e una perdita economica: le guardie e la produttività non vengono più percepite, tra le altre cose e si perde il risarcimento per le consueguenze di malattia. In effetti, la comunità sanitaria è stata in difficoltà fin quando il Governo non ha riconosciuto il contagio come infortunio sul lavoro e malattia professionale su pressione del CSIF .
"Inoltre, come CSIF denunciamo l'impatto psicosociale, che ha prodotto sui professionisti e la necessità di una sorveglianza sanitaria più esaustiva, supporto psicologico e follow-up delle sequele post-COVID. Se qualcosa ha reso visibile questa pandemia di Covid19, è che la prevenzione dei rischi professionali è ancora una questione in sospeso per le diverse amministrazioni, rivelando le carenze che esistono nei centri di lavoro come la mancanza di dispositivi di protezione individuale, la mancanza di lungimiranza e pianificazione, insufficiente dotazione di risorse umane che provocano infortuni sul lavoro, malattie professionali e, purtroppo, decessi".
PharmaMar (MSE:PHM) ha annunciato oggi i risultati finali dello studio clinico APLICOV-PC con Aplidin® (plitidepsina) per il trattamento di pazienti adulti con COVID-19, che richiedono il ricovero in ospedale, che ha soddisfatto l'endpoint primario di sicurezza e ha mostrato efficacia clinica.
In vista dell'inizio della sperimentazione di Fase III di NEPTUNO, l'azienda ha deciso di condividere questi dati, che mostrano il potenziale terapeutico di questo farmaco, con tutta la comunità scientifica, medica e di pazienti.
Abbiamo scelto di anticipare le informazioni di un precedente articolo, intitolato “Plitidepsin has a positive therapeutic index in adult patients with COVID-19 requiring hospitalization”, che mostra il lavoro dei team multidisciplinari preclinici e clinici sulla gestione della plitidepsina come antivirale.
I dati completi possono essere consultati su: https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2021.05.25.21257505v1
Lo studio APLICOV-PC ha valutato tre coorti di pazienti ospedalizzati con malattia lieve, moderata o grave, con tre diversi livelli di dose di plitidepsina (1,5mg - 2,0mg - 2,5mg), somministrati in tre giorni consecutivi.
Dei 45 pazienti trattati nello studio, l'86,7% aveva una malattia moderata o grave. Il 91% aveva una polmonite e il 71% una polmonite bilaterale.
Tra i risultati ottenuti in questo studio, ci sono quelli osservati in 23 pazienti con malattia moderata, il 74% dei quali è stato dimesso dall'ospedale nella prima settimana di trattamento.
Come si può vedere nel grafico dei pazienti ricoverati con COVID-19 moderata, quelli che hanno ricevuto la dose di 2,5 mg avevano più probabilità di essere dimessi durante la prima settimana di ammissione.
In questo stesso gruppo di pazienti è stato osservato che più alta è la dose di plitidepsina, più alta è la conta dei linfociti nel tempo, un indicatore di miglioramento del sistema immunitario. Allo stesso modo, è stato osservato un legame tra la diminuzione della carica virale, il miglioramento clinico e la caduta dei parametri di infiammazione, come la proteina C-reattiva. Questo suggerisce che, oltre al suo effetto antivirale, la plitidepsina potrebbe esercitare effetti antinfiammatori, favorendo la risposta immunitaria contro la SARS-CoV-2.
Per quanto riguarda i risultati ottenuti, il dr. Luis Enjuanes, direttore del gruppo coronavirus presso il Centro Nazionale di Biotecnologia del CSIC, afferma che "nel nostro laboratorio il CNB-CSIC abbiamo valutato l'effetto della plitidepsina osservando un'inibizione di più di mille volte, utilizzando dosi del farmaco che non erano tossiche quando somministrato ai pazienti. Successivamente, questi risultati sono stati significativamente rafforzati nel laboratorio del Prof. Adolfo García Sastre (Mount Sinai School of Medicine, New York), che ha confrontato l'effetto della plitidepsina con quello del Remdesivir, l'antivirale più usato negli Stati Uniti contro la SARS-CoV-2".
Questa pubblicazione riafferma anche le ipotesi iniziali sulla trasversalità della plitidepsina contro altri ceppi o varianti di coronavirus, poiché agisce bloccando la proteina eEF1A, presente nelle cellule umane, che viene utilizzata da diversi tipi di coronavirus per riprodursi e infettare altre cellule. I dati ottenuti in questo studio hanno portato l'azienda a lanciare il nuovo trial di fase III NEPTUNO, che determinerà l'efficacia della plitidepsina per il trattamento di pazienti ospedalizzati con infezione moderata da COVID-19.
Grande soddisfazione c'è tra i medici e i ricercatori per questi risultati. "Abbiamo ancora bisogno di farmaci efficaci contro COVID-19. La plitidepsina è un farmaco molto promettente con un solido sviluppo preclinico. Ha completato lo studio di fase I/II con buoni dati di sicurezza e dati clinici iniziali di adeguata efficacia nella polmonite moderata COVID-19- afferma il dr. Pablo Guisado Vasco, dell'Ospedale Universitario Quirónsalud di Madrid- Nelle prossime settimane, con l'apertura del reclutamento per il trial NEPTUNO e un gruppo di confronto , saremo in grado di conoscere più precisamente il ruolo clinico preciso e l'efficacia della plitidepsina in COVID-19". Per il dr. Jose F. Varona, del dipartimento di medicina interna dell'Ospedale Universitario HM Montepríncipe di Madrid, "i risultati positivi di plitidepsina nello studio clinico APLICOV-PC, sia in termini di sicurezza che di efficacia, sono notizie molto incoraggianti per la gestione terapeutica della polmonite da COVID-19 che richiede il ricovero in ospedale. In questo senso, dobbiamo sottolineare sia il suo specifico meccanismo d'azione, che gli conferisce un valore aggiunto contro le diverse varianti di SARS-CoV-2, sia il suo buon profilo di sicurezza con eccellente tollerabilità".
"La plitidepsina ha un'azione antivirale molto potente in vitro, e nello studio APLICOV-PC il farmaco ha mostrato una sicurezza sufficiente, con pochi effetti avversi, per lo più gastrointestinali e ampiamente controllabili con la premedicazione -sottolinea il dr. Vicente Estrada, capo dell'Unità di Malattie Infettive presso l'Hospital Clínico San Carlos di Madrid- In futuro, se i risultati dello studio NEPTUNO saranno favorevoli, potrebbe essere utilizzato nel trattamento precoce di questa malattia in pazienti con compromissione respiratoria".
Infine Adolfo Garcia-Sastre, Professore nel Dipartimento di Microbiologia e Direttore dell'Istituto per la Salute Globale e i Patogeni Emergenti, Icahn School of Medicine al Mount Sinai, New York, USA, e co-autore della pubblicazione, ricorda che "la collaborazione tra diversi gruppi di ricerca, sia di base, applicata e clinica, che lavorano in diverse istituzioni accademiche e farmaceutiche, evidenziano il potenziale della plitidepsina come un possibile trattamento per le infezioni da coronavirus, compresa la SARS-CoV-2".
L'insonnia, il sonno disturbato e il burnout quotidiano sono legati a un rischio maggiore di contrarre l'infezione da coronavirus, ma anche di avere una malattia più grave e un periodo di recupero più lungo, suggerisce uno studio internazionale sugli operatori sanitari, pubblicato sulla rivista online BMJ Nutrition Prevention & Health e realizzato da ricercatori della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, Harvard Medical School, Stamford Hospital, Schmidt Heart Institute, Cedars-Sinai Medical Center e Columbia University.
Ogni aumento di 1 ora nella quantità di tempo trascorso a dormire la notte è stato associato a una probabilità inferiore del 12% di contrarre l'infezione da COVID-19.
Il sonno interrotto/insufficiente e il burnout lavorativo sono stati collegati a un aumentato rischio di infezioni virali e batteriche, ma non è chiaro se questi siano anche fattori di rischio per COVID-19, affermano i ricercatori.
Per esplorare ulteriormente questo aspetto, hanno attinto alle risposte a un sondaggio online per operatori sanitari ripetutamente esposti a pazienti con infezione da COVID-19, come quelli che lavorano in emergenza o in terapia intensiva, e quindi a maggior rischio di contrarre l'infezione.
Il sondaggio si è svolto dal 17 luglio al 25 settembre 2020 ed era aperto agli operatori sanitari in Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti.
Gli intervistati hanno fornito dettagli personali su stile di vita, salute e uso di medicinali soggetti a prescrizione e integratori alimentari, oltre a informazioni sulla quantità di sonno ottenuto durante la notte e durante i sonnellini diurni nell'anno precedente; eventuali problemi di sonno; burnout dal lavoro; e l'esposizione sul posto di lavoro all'infezione da COVID-19.
Hanno risposto circa 2884 operatori sanitari, 568 dei quali avevano COVID-19, accertato da sintomi diagnostici auto-riferiti e / o da un risultato positivo del test con tampone.
La gravità dell'infezione è stata definita come: molto lieve - nessun o quasi nessun sintomo; lieve - febbre con o senza tosse, che non richiede trattamento; moderato - febbre, sintomi respiratori e / o polmonite; grave - difficoltà respiratorie e bassa saturazione di ossigeno; e critico - insufficienza respiratoria che richiede assistenza meccanica e terapia intensiva.
La quantità di sonno notturno segnalato era in media inferiore a 7 ore, ma superiore a 6. Dopo aver tenuto conto di fattori potenzialmente influenti, ogni ora in più di sonno notturno era associata a probabilità inferiori del 12% di infezione da COVID-19.
Ma un'ora in più acquisita durante il sonnellino diurno è stata associata a probabilità più alte del 6%, sebbene questa associazione varia da Paese a Paese.
Circa 1 su 4 (137; 24%) di quelli con COVID-19 ha riportato difficoltà a dormire la notte rispetto a circa 1 su 5 (21%; 495) di quelli senza infezione.
E 1 su 20 (5%; 28) di quelli con COVID-19 ha affermato di avere 3 o più problemi di sonno, comprese difficoltà ad addormentarsi, rimanere addormentati o dover usare sonniferi per 3 o più notti alla settimana, rispetto a 65 (3%) di quelli senza infezione.
Rispetto a coloro che non avevano problemi di sonno, quelli con tre avevano l'88% di probabilità in più di infezione da COVID-19.
Proporzionalmente più di quelli con COVID-19 hanno riportato burnout giornaliero rispetto a quelli senza infezione: 31 (5,5%) rispetto a 71 (3%).
Rispetto a coloro che non hanno segnalato alcun burnout, quelli per i quali questo era un evento quotidiano avevano più del doppio delle probabilità di avere COVID-19. Allo stesso modo, questi intervistati avevano anche circa 3 volte più probabilità di dire che la loro infezione era grave e che avevano bisogno di un periodo di recupero più lungo.
Questi risultati erano veri, indipendentemente dalla frequenza di esposizione al COVID-19 sul posto di lavoro. Si tratta di uno studio osservazionale e, come tale, non è in grado di stabilire la causa. E i ricercatori riconoscono diversi limiti alla ricerca come la valutazione soggettiva dei livelli di esposizione, problemi di sonno e gravità dell'infezione, che potrebbero essere stati ricordati in modo errato. Il campione includeva solo casi di COVID-19 da molto lieve a moderatamente grave.
"Il meccanismo alla base di queste associazioni rimane poco chiaro ma è stato ipotizzato che la mancanza di sonno e disturbi del sonno possano influenzare negativamente il sistema immunitario aumentando le citochine proinfiammatorie e le istamine", spiegano i ricercatori.
E indicano studi che collegano il burnout a un rischio maggiore di raffreddore e influenza, nonché condizioni a lungo termine, come diabete, malattie cardiovascolari, malattie muscoloscheletriche e morte per tutte le cause.
"Questi studi hanno suggerito che il burnout può predire direttamente o indirettamente malattie dovute allo stress lavorativo, che compromette il sistema immunitario e cambia i livelli di cortisolo -aggiungono- Abbiamo scoperto che la mancanza di sonno durante la notte, gravi problemi di sonno e un alto livello di esaurimento possono essere fattori di rischio per COVID-19 in prima linea. I nostri risultati evidenziano l'importanza del benessere degli operatori sanitari durante la pandemia".
"Questo studio mette in luce un'area del benessere spesso trascurata: la necessità di un sonno di qualità e di tempo di ricarica per prevenire il burnout e le sue conseguenze. Dal punto di vista della medicina del lavoro e dello stile di vita, una migliore comprensione degli effetti del lavoro a turni e del sonno è essenziale per il benessere del personale sanitario e di altri operatori chiave ", commenta il dottor Minha Rajput-Ray, direttore medico del NNEdPro Global Center for Nutrition & Health, che è co-proprietario della rivista con BMJ.
"Le interruzioni del ciclo sonno-veglia possono influire sulla salute metabolica, immunitaria e persino psicologica -conclude- E la privazione del sonno può rendere gli alimenti densi di calorie, più ricchi di grassi, zuccheri e sale, più attraenti, in particolare durante i periodi di stress e / o di turni difficili, il che ha un impatto sulla salute e sul benessere generale".
Antonio Caperna
Qual è stata la richiesta dei corsisti della prima annualità? "Il master cerca di strutturare un metodo di riconoscimento e di terapia quale elemento fondamentale di un lavoro fruttuoso con i pazienti. Vengono presentate anche metodiche corporee di rilassamento, di riflessione e integrazione psicocorporea- spiega Melodia- utili per comprendere meglio il meccanismo con cui un trauma determina una dissociazione psichica e come si aiutano i pazienti a re-integrare le parti dissociate". Nell'uso popolare la dissociazione psichica si confonde spesso con la schizofrenia, ma quest'ultima è invece una diagnosi che richiede criteri che spesso non si ritrovano. "La dissociazione indica una parte della psiche che lavora in background, completamente staccata dalle funzioni coscienti".
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“Smettere di fumare durante il lockdown si può: nel corso della pandemia l’utilizzo di tabacco e dispositivi sostitutivi è generalmente aumentato, ma una percentuale di persone giovani e di mezza età ne ha invece approfittato per ridurlo.”
Lo sottolinea l’Istituto Europeo di Oncologia nel suo messaggio per la Giornata Mondiale senza Tabacco 2021.
“La situazione attuale tracciata dalla comunità scientifica internazionale e dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha evidenziato due trend contrapposti. Nella prima fase della pandemia è stato registrato un aumento del consumo giornaliero di sigarette, in particolare, nella popolazione femminile rispetto a quella maschile; dato che conferma come il fumo di sigaretta sia in crescita nelle donne, così come le patologie fumo correlate. Le gravi conseguenze sociali, economiche, l’accresciuto livello di incertezza e l’isolamento sociale prodotto dalla situazione pandemica hanno generato un aumento di emozioni negative come: ansia, paura, senso di solitudine e depressione. Tali stati emotivi rappresentano importanti barriere all’abbandono del comportamento tabagico, in particolare, in quei fumatori che vedono nella sigaretta uno strumento attraverso il quale modulare i propri vissuti emotivi” spiega Gabriella Pravettoni, Direttore della Psicologia e Responsabile del Centro Antifumo IEO, Direttore del Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università degli Studi di Milano.
“Contemporaneamente accanto a questo trend di crescita è stata osservata una riduzione del fumo di sigaretta nelle fasce d’età dai 18 ai 34 anni e dai 30 ai 50 anni- continua Pravettoni - Nelle fasce più giovani (18-34 anni) è probabile che la sospensione sia stata favorita dalla riduzione della socialità e dall’isolamento collegato con i momenti più restrittivi del lockdown. Infatti, nei giovani fumatori la sigaretta, oltre che avere un valore di ricerca dell’identità, ha una dimensione sociale fondamentale. Dunque il venir meno del contatto con il gruppo dei pari, così come le occasioni di divertimento e condivisione, potrebbe aver spinto molti giovani fumatori ad abbandonare il fumo di sigaretta. Diversamente è possibile ipotizzare che nei fumatori più anziani (30-50 anni) la pandemia abbia in qualche modo rappresentato un momento in cui riflettere sui danni causati dal fumo alla propria salute, promuovendo una maggiore consapevolezza rispetto al rischio e spingendo a fare dei concreti tentativi di sospensione.
Un ulteriore aspetto che deve essere tenuto in considerazione, per spiegare la decisione di interrompere, è collegato con le caratteristiche del virus: il COVID19 è una malattia che affligge primariamente il sistema respiratorio dunque i fumatori, rispetto ai non fumatori, rappresentano una popolazione più a rischio, avendo la funzionalità polmonare potenzialmente compromessa. In questo gruppo di fumatori, soprattutto tra coloro che si percepiscono come più suscettibili a contrarre l’infezione, il COVID19 potrebbe aver favorito un aumento dei tentativi di smettere di fumare o una riduzione del numero di sigarette giornaliere”.
“Il danno che il Covid ha arrecato alla popolazione di fumatori ed ex-fumatori è enorme perché li ha allontanati dagli ospedali. - conclude Lorenzo Spaggiari, Direttore del Programma Polmone IEO e Professore all’Università degli Studi di Milano- Da mesi noi oncologi segnaliamo che il blocco di esami e visite oncologiche con lo stop agli screening ha creato le premesse per una epidemia di tumori nei prossimi anni, compreso quello del polmone. Per questo abbiamo mandato un messaggio al Presidente del Consiglio, Mario Draghi e al Ministro della Salute, Roberto Speranza, perché l’Italia diventi il primo Paese in Europa a introdurre un programma pubblico di screening con tac a basse dosi per i forti fumatori e così ridurre del 25% la mortalità per cancro polmonare, che oggi miete 35.000 vittime ogni anno.”
La Repubblica democratica del Congo e la Guinea sono i primi due Paesi africani che stanno iniziando a reclutare volontari per la sperimentazione di un trattamento farmacologico per curare il Covid-19 nelle sue manifestazioni lievi e moderate.
Lo studio si chiama Anticov e promette di essere il piu' grande trial clinico in Africa su un farmaco per trattare la patologia provocata dal virus Sars-Cov-2. Oltre a Repubblica democratica del Congo e Guinea i Paesi del continente che verranno coinvolti nelle prossime settimane sono Burkina Faso, Camerun, Costa d'Avorio, Guinea Equatoriale, Etiopia, Ghana, Kenya, Mali, Mozambico, Sudan e Uganda. Lo studio vede la partecipazione di un consorzio composto da 26 tra istituti di ricerca scientifica africani e organizzazioni internazionali del mondo della salute coordinati dalla organizzazione no profit Drugs for Neglected Diseases Initiative (Dndi). Il protocollo prossimo a essere sottoposto alla sperimentazione, si legge sul sito del Dndi, prevede il consumo combinato di due farmaci "gia' in commercio e accessibili" e "di facile accesso e somministrazione": l'antiparassitario nitazoxanide e il ciclesonide, un farmaco steroide inalatorio usato in genere per curare l'asma.
Mentre il primo prodotto dovrebbe agire nella fase iniziale di replicazione virale, spiegano gli esperti del Dndi, il secondo diminuisce la probabilita' che nei giorni successivi si sviluppi uno stato infiammatorio. Stando ai dati dell'Africa Centres for Disease Control and Prevention (Africa Cdc), le persone che hanno perso la vita a causa del Covid-19 nel continente sono oltre 120mila. La direttrice del programma Covid-19 Response del Dndi, Nathalie Strub-Wourgaft, ha evidenziato che a piu' di un anno dallo scoppio della pandemia "abbiamo vaccini registrati per l'uso ma pochissime opzioni a livello di trattamento". Secondo la dirigente, "avere una cura per i casi lievi fino a moderati" della malattia, "rimane una priorita' per l'Africa e per tutto il mondo".
Il Consiglio federale intende potenziare lo sviluppo e la produzione di medicamenti anti-COVID-19. Nel corso della seduta del 19 maggio ha approvato un programma di promozione di 50 milioni di franchi, limitato sino alla fine del 2022 e ha stabilito i criteri di base per gli investimenti della Confederazione.
I contributi di promozione devono permettere di approvvigionare rapidamente la popolazione svizzera di medicamenti anti-COVID-19 nuovi e innovativi. Occorre inoltre migliorare le condizioni quadro in Svizzera, per lo sviluppo e la produzione di tecnologie vaccinali all’avanguardia.
In collaborazione con la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) e con l’Amministrazione federale delle finanze (AFF), il Dipartimento federale dell’interno (DFI) ha presentato al Consiglio federale una nota di discussione riguardante un programma volto a promuovere medicamenti e vaccini anti-COVID-19.
La modifica del 20 marzo 2021 della legge COVID-19 accorda alla Confederazione un più ampio margine di manovra per potenziare lo sviluppo e la produzione in Svizzera di medicamenti e vaccini anti-COVID-19 essenziali. Il Consiglio federale può promuoverne la fabbricazione e lo sviluppo, nonché commissionarne esso stesso la produzione. La Confederazione può così contribuire, affinché la popolazione svizzera sia approvvigionata rapidamente della necessaria quantità di medicamenti.
Programma di promozione per medicamenti anti-COVID-19
Dall’inizio della pandemia di COVID-19, la Confederazione sostiene i Cantoni nell’approvvigionamento di materiale medico importante. A titolo sussidiario può inoltre acquistare medicamenti per il trattamento di pazienti affetti da COVID-19. In aggiunta a questo sostegno a breve termine, con il programma di promozione il Consiglio federale ha inoltre adottato una strategia a medio termine per promuovere la ricerca, lo sviluppo e la produzione di medicamenti anti-COVID-19. In questo modo vuole contribuire al trattamento delle persone ammalatesi di COVID-19.
Con il programma di promozione si intende stabilire i criteri che stanno alla base degli investimenti della Confederazione. Con grande probabilità, pertanto, i medicamenti finanziati dovrebbero poter essere messi a disposizione dei pazienti entro fine 2022 e distinguersi in modo particolare da altri medicamenti che sono già disponibili o che lo saranno a breve. I contributi di promozione vanno stanziati solo se risulta impossibile un finanziamento privato o se la Svizzera ha difficoltà ad accedere al materiale medico importante.
Per gli investimenti effettuati, la Confederazione dovrà ottenere una controprestazione (p. es. avere la priorità nelle forniture). Le richieste di promozione vanno esaminate sulla base di criteri trasparenti ed empirici.
I criteri del programma di promozione e la procedura di domanda saranno pubblicati a partire da luglio 2021. Il programma è limitato sino alla fine del 2022. La sua attuazione deve essere affidata a un’organizzazione esistente dotata di strutture legali e con esperienza nell’attuazione di programmi di promozione. In estate il Consiglio federale deciderà a chi commissionerà l’incarico.
Programma di promozione per vaccini anti-COVID-19
Per garantire alla Svizzera l’accesso a vaccini anti-COVID-19 sicuri ed efficaci, la Confederazione ha concluso in anticipo contratti di prenotazione e di acquisto con produttori di vaccini promettenti. Finora questa strategia si è dimostrata vincente. La settimana scorsa il Consiglio federale ha messo a punto la strategia per l’acquisto di vaccini per il 2022, che permetterà di garantire un approvvigionamento sufficiente.
Anche dopo il 2022 il Consiglio federale punterà su contratti di prenotazione e valevoli in caso di pandemia e a tale scopo continuerà a consolidare i contatti con i produttori di vaccini a mRNA. Questo approccio consente di creare un portfolio diversificato. I rischi legati alla tecnologia e alla produzione possono essere ridotti al minimo poiché, alla luce del rapido sviluppo delle nuove varianti di coronavirus, si rende necessaria una strategia flessibile in materia di appalti pubblici.
Per il futuro occorre inoltre mettere a punto, assieme alle scuole universitarie e all’industria, una strategia che permetta alla Svizzera di continuare a migliorare le proprie condizioni quadro affinché, in caso di una nuova pandemia, sia in grado di disporre tempestivamente delle risorse necessarie alla ricerca, allo sviluppo e alla produzione di vaccini. Collaborando con i Paesi partner interessati, la Svizzera potrebbe contribuire a garantire un accesso globale ai vaccini.
Combinare, nella campagna vaccinale, Pfizer-BioNTech e AstraZeneca produce "una potente risposta immunitaria contro il virus Sars-CoV-2". E' quanto hanno evidenziato i risultati preliminari di uno studio spagnolo, condotto dal Carlos III Health Institute di Madrid, su 663 volontari e pubblicato su Nature.
Una sperimentazione condotta nel Regno Unito, per verificare la strategia di mixare i due vaccini, aveva già dato rassicurazioni sulla sicurezza e presto fornirà ulteriori dati sulle risposte immunitarie. La speranza dei ricercatori è che la strategia di 'mix & match' dei vaccini, "possa semplificare gli sforzi di immunizzazione per i paesi che affrontano forniture fluttuanti dei vari vaccini", sottolinea lo studio.
Ad aprile lo studio 'Combivacs' ha arruolato 663 persone che avevano già ricevuto una prima dose del vaccino AstraZeneca. Due terzi dei partecipanti allo studio, in modo casuale, hanno ricevuto dopo 8 settimane il richiamo con il vaccino mRNA prodotto da Pfizer. Un gruppo di controllo di 232 persone non ha ancora ricevuto la seconda dose. Dopo la seconda dose, i partecipanti hanno iniziato "a produrre livelli di anticorpi molto più elevati rispetto a prima e questi anticorpi nei test di laboratorio sono stati in grado di riconoscere e inattivare Sars-CoV-2 - rileva lo studio - I partecipanti che non hanno ricevuto il richiamo non hanno registrato alcun cambiamento nei livelli di anticorpi".
Decessi da covid più che dimezzati con anakinra, un antinfiammatorio già da tempo approvato in Ue e Stati Uniti per altre indicazioni. Con una somministrazione precoce e mirata del farmaco, in associazione con lo standard terapeutico attuale, si è registrata una riduzione del 55% della mortalità e un beneficio quasi triplo nel prevenire la progressione verso l'insufficienza respiratoria grave nei pazienti con Covid-19 ricoverati con prognosi sfavorevole, riducendo di 4 giorni il tempo medio alla dimissione dalla terapia intensiva.
Il trattamento, inoltre, ha aumentato il numero di dimissioni dall'ospedale senza evidenza di infezione, con un numero di pazienti potenzialmente in guarigione completa superiore di 2,8 volte rispetto a quelli trattati con standard terapeutico e placebo.
Sono alcuni risultati a 28 giorni di Save-More, il primo studio randomizzato e controllato condotto su pazienti Covid ospedalizzati (circa 600 tra Italia e Grecia), orientato a valutare i malati a rischio di progressione verso l'insufficienza respiratoria grave prima del ricovero in terapia intensiva e a dimostrare il beneficio di un intervento tempestivo per prevenire l'aggravamento della malattia e i decessi. I risultati - resi noti su 'MedRxiv' e proposti per la pubblicazione - sono stati presentati da Swedish Orphan Biovitrum (Sobi), che ha supportato lo studio, e dall'Istituto ellenico per lo studio della Sepsi che l'ha sponsorizzato e condotto.
"Uno degli aspetti decisivi nel trattamento dei pazienti ospedalizzati con Covid-19 è il posizionamento esatto dei pochi farmaci che abbiamo a disposizione", ha spiegato Massimo Fantoni, infettivologo e primario del Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma. "I risultati dello studio Save-more sono molto significativi e danno un contributo importante in tal senso".
"Anakinra - ha affermato Emanuele Nicastri, infettivologo e direttore Divisione Malattie infettive dell'Istituto Spallanzani di Roma - è il primo farmaco il cui utilizzo viene personalizzato sulla risposta del paziente al virus. Per la prima volta, infatti, abbiamo uno strumento estremamente efficace che permette una chiara individualizzazione della terapia su un determinato paziente con quelle caratteristiche e un livello moderato o grave di Covid-19".
Matteo Bassetti, direttore Clinica Malattie infettive ospedale Policlinico San Martino di Genova, ha sottolineato che "l'utilizzo di anakinra nel setting di pazienti dello Studio Save-More può rappresentare un notevole vantaggio per il sistema sanitario nella gestione della pandemia".
Sempre più drammatica la situazione in India dove, oltre alla seconda ondata di coronavirus che continua ad infuriare, tra i pazienti affetti da Covid-19 è stato rilevato il cosiddetto 'fungo nero'.
La mucormicosi, causata dall’esposizione a un gruppo di muffe chiamate mucormiceti, è contraddistinta da un alto tasso di mortalità e dal rischio di provocare mutilazioni ai pazienti sopravvissuti. Questa è un’altra sfida per il Paese, ha detto oggi il primo ministro Narendra Modi.
Al momento, sono stati confermati circa 5000 casi identificati tra i pazienti con Covid-19 in tutto il paese, ma la cifra potrebbe essere molto più alta, visto che solo pochi governi statali hanno segnalato casi alle autorità sanitarie. Lo stato del Maharashtra ha registrato 1500 casi di mucormicosi e 90 decessi, mentre altri casi sono stati segnalati a Nuova Delhi, Karnataka, Haryana, e negli stati del Madhya Pradesh e del Rajasthan. Il ministero della Salute federale ha quindi esortato gli Stati a dichiarare la malattia un’epidemia ai sensi della legge, rendendo obbligatorio per gli ospedali riportare i casi alle autorità federali.
Gli esperti affermano che la malattia, nota come “fungo nero” perché spesso accompagnata da un annerimento delle aree intorno al naso, è comune tra i pazienti affetti da diabete ed è legata a un uso non regolamentato di steroidi – la cui efficacia è stata dimostrata anche come trattamento salvavita per il Covid-19. L’abuso di droghe legali è dilagante in India, dove la maggior parte dei farmaci, inclusi gli steroidi, sono disponibili nelle farmacie senza bisogno di particolari ricette.
L’India è il secondo paese più colpito al mondo dalla pandemia, e nelle ultime 24h ha segnalato 259.551 nuove infezioni e 4209 decessi legati al coronavirus.
La presenza del virus SARS-CoV-2 è stata documentata non solo nelle aree cerebrali di controllo del respiro, ma anche, per la prima volta, è stato rilevato il suo percorso tra polmone e cervello lungo il nervo vago.
Quest’ultimo, conosciuto anche come nervo pneumogastrico o XII paio dei nervi cranici, controlla diverse funzioni corporee, fra le quali quelle respiratorie attraverso l’innervazione del tessuto polmonare particolarmente a livello dei bronchi.
Lo studio, appena pubblicato su Journal of Neurology, è frutto di una collaborazione fra anatomopatologi, neurologi e rianimatori del Dipartimento di Scienze della Salute della Statale di Milano, del Centro di ricerca “Aldo Ravelli” e dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano.
Gaetano Bulfamante direttore della Cattedra di Anatomia Patologica e Genetica Medica, primo autore dell’articolo, spiega che “gli esami al microscopio documentano la presenza di neuroni danneggiati e contenenti il virus particolarmente concentrati nel bulbo o midollo allungato. Contestualmente abbiamo osservato una notevole attivazione delle cellule gliali che indica una risposta infiammatoria legata all’infezione. Il dato di estremo interesse è la presenza del virus Sars-CoV-2 nelle fibre del nervo vago che connettono appunto il bulbo al polmone”.
Tommaso Bocci, ricercatore della Clinica Neurologica, aggiunge che “le aree cerebrali del bulbo dove abbiamo trovato le alterazioni maggiori sono quelle che contengono i nuclei di controllo della respirazione e una fitta rete di cellule nervose nota come formazione reticolare. Avevamo ipotizzato un danno a livello della formazione reticolare nel bulbo in un precedente studio pubblicato qualche settimana fa che documentava una funzione anormale della formazione reticolare bulbare e questi dati anatomopatologici ne danno una conferma anatomica”.
Questa ricerca è basata su una importante collaborazione interdisciplinare che caratterizza il Polo Universitario San Paolo. Sono stati esaminati i tessuti prelevati da due pazienti deceduti per forme gravi di COVID-19 e i dati sono stati confrontati con quelli prelevati da due soggetti deceduti per altre patologie ma senza COVID-19.
Davide Chiumello, Direttore della Rianimazione, aggiunge che “fin dai primi casi gravi di COVID-19 osservavamo delle alterazioni respiratorie che non erano giustificabili solo dalle alterazioni dovute alla polmonite. I pazienti presentavano delle pause respiratorie seguite da respirazioni ripetute ma che alteravano comunque il trasporto di ossigeno attraverso i polmoni. La nostra ricerca inoltre documenta la presenza del virus nel nervo vago e dimostra una nuova modalità di diffusione del virus lungo il “filo” di fibre nervose che connette il cervello con il polmone aggiungendo una tessera importante al mosaico della fisiopatologia e di questa malattia”.
La mortalità dei malati gravi di Covid-19 raggiunge in Africa un tasso del 48,2 %, il più alto al mondo: il dato è contenuto in una ricerca internazionale rilanciata oggi dalla rivista scientifica The Lancet.
Secondo gli esperti, autori dell'African Covid-19 Critical Care Outcomes Study (Acccos) sulla base dell'osservazione di 3.140 pazienti in diversi Paesi del continente, a contribuire sono anche la contestuale diffusione del virus dell'hiv e dell'Aids e i ritardi negli accessi alle unità di terapia intensiva.
Un altro elemento evidenziato è la generale carenza di personale specializzato e delle strutture ospedaliere. Secondo la ricerca, il Covid-19 è la quarantunesima causa di morte in Africa, molto dietro rispetto ad esempio alla malaria, mentre a livello mondiale è la dodicesima. Rispetto alla ragioni dei numeri di decessi assoluti accertati, che in Africa sono inferiori rispetto alle regioni del mondo più industrializzate, nell'articolo su The Lancet si sottolinea l'esigenza di fare "chiarezza".
"Una delle possibilità - si legge nel testo - è che non ci siano livelli di test diagnostici adeguati con la conseguenza sottostima dei decessi da Covid-19 che avvengono sia negli ospedali che fuori". A oggi le morti accertate per nuovo coronavirus in Africa sono state oltre 127mila. Nel mondo il dato è di oltre 3 milioni e 430mila.
Green pass, accordo fatto nel trilogo tra Consiglio Ue e Parlamento Europeo sul certificato Covid che dovrebbe facilitare la libertà di movimento all'interno dell'Unione, anche se si specifica che non sarà "una precondizione per esercitare il diritto alla libertà di circolazione", si apprende da fonti parlamentari.
Il certificato dovrebbe provare l'avvenuta vaccinazione con vaccini approvati dall'Ema (per quelli non approvati la scelta se riconoscerli o meno spetterà agli Stati) o la negatività ad un test. Per quanto riguarda la guarigione dal Covid, l'utilizzo dei test sierologici come prova sarà possibile solo più tardi, con un atto delegato, riferiscono fonti parlamentari, sulla base di "evidenze". Il regolamento entrerà in vigore dal primo luglio 2021 e resterà valido per un anno.
E' stato stabilito che si chiamerà Eu Digital Covid Certificate, cioè certificato Covid Ue digitale, e non Green Digital Certificate. Gli Stati membri hanno bloccato qualsiasi riferimento alla gratuità dei test necessari ad ottenere il certificato, se non si è vaccinati.
La Commissione dovrebbe quindi stanziare 100 mln di euro per acquistare test rapidi per i lavoratori frontalieri e quelli considerati essenziali.
Ulteriori restrizioni nei confronti dei viaggiatori titolari del certificato non sono possibili "in linea di principio", tuttavia potranno essere imposte "ove necessario e in modo proporzionato, sulla base di evidenze, con notifica alla Commissione e ad altri Stati membri".
Il testo del regolamento, dopo l'accordo tra i co-legislatori, dovrebbe ora essere votato in commissione Libe, per essere poi approvato nella plenaria di giugno, tra il 7 e il 10, prima di venire varato definitivamente dal Consiglio. Il commissario alla Giustizia, Didier Reynders, festeggia via social la "fumata bianca" e si compiace del fatto che l'Ue abbia "rispettato gli impegni per un nuovo strumento in tempi record, per salvaguardare la libertà di movimento dei cittadini".
Il certificato, dice in conferenza stampa a Bruxelles il negoziatore del Parlamento Fernando Lopez Aguilar (Spagna, Psoe), presidente della commissione Libe, dovrebbe far sì che l'estate del 2021 sia diversa "dall'incubo del 2020", quando le vacanze degli europei furono segnate da forti restrizioni alla libertà di movimento nell'Ue.
Il risultato dei negoziati è un regolamento che, secondo Lopez Aguilar, "migliora la proposta della Commissione e la posizione negoziale del Consiglio". A mano a mano che la vaccinazione avanza, sottolinea Lopez Aguilar, "i test saranno sempre meno necessari", quindi la questione della gratuità e dei costi di tamponi e test rapidi perderà progressivamente di importanza.
Il certificato si applicherà anche ai cittadini Ue che risiedono fuori dall'Ue e che sono stati vaccinati con vaccini riconosciuti dall'Ema, un'opzione "che non era contemplata" nella proposta iniziale, e che può essere molto utile ai tanti cittadini Ue che risiedono nel Regno Unito o negli Usa, per esempio.
Una ricerca svolta completamente in Ticino, appena pubblicata da EOC su eBiomedicine di The Lancet, suggerisce che ci possa essere una correlazione tra specifici marcatori nel sangue di chi ha contratto il COVID-19 e la gravità del decorso della malattia.
Una scoperta di peso che si aggiunge ai numerosi importanti risultati, ottenuti dall’intensa attività di ricerca dell’Ente sul COVID-19, raccontati da oggi su grazieallaricerca.ch.
L’accesso alla Biobanca EOC, il confronto con i medici per un’analisi clinica delle prognosi e dell’andamento dei pazienti, un laboratorio di ricerca di base presso l’Istituto Cardiocentro Ticino-EOC riferimento internazionale per la ricerca sulle nanovescicole, la disponibilità dei pazienti che hanno dato il loro consenso: sono stati questi gli ingredienti che hanno portato agli interessanti risultati dell’ultima ricerca svolta da EOC in relazione al COVID-19.
Nell’ambito dell’emergenza epidemiologica da Coronavirus, l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), attraverso uno specifico bando, ha promosso il finanziamento di alcuni studi per acquisire nuove evidenze sull’efficacia degli anticorpi monoclonali nella cura dei pazienti affetti da COVID-19 in fase precoce di malattia, non ospedalizzati e che presentino o meno fattori di rischio che possano aggravare la prognosi.
“AIFA - osserva il Direttore Generale, Nicola Magrini - si è impegnata a dedicare una quota di fondi di ricerca per favorire studi clinici indipendenti utili a comprendere meglio il ruolo terapeutico di questa famiglia di farmaci e a promuovere valutazioni di efficacia comparativa tra i diversi monoclonali. Il numero elevato di proposte di studi clinici ricevuti testimonia la vitalità delle piattaforme di ricerca collaborativa in Italia”.
Il bando di ricerca, che si è chiuso il 15 febbraio scorso, ha visto la presentazione di 14 protocolli di ricerca che, dopo una iniziale valutazione di rispondenza ai requisiti, sono stati, unanimemente, ammessi tutti alle successive fasi di valutazione.
Ai fini del finanziamento sono stati privilegiati i progetti che si sono distinti per la fattibilità e la concreta operatività e quindi per la potenzialità di trasferimento dei risultati nella pratica clinica reale in un’ottica strategica per il Servizio Sanitario Nazionale.
I 4 protocolli di ricerca vincitori del Bando accederanno a un finanziamento promosso da AIFA per un importo superiore ai 2 milioni di euro. L’esito della valutazione e il finanziamento degli studi sono stati approvati dal CdA di AIFA.
“I progetti selezionati per il finanziamento si connotano per elevato valore scientifico e hanno il potenziale per poter utilmente contribuire a definire in modo compiuto il ruolo della terapia con anticorpi monoclonali nel prevenire la progressione verso le forme più gravi di COVID-19. Credo che vada sottolineata come elemento qualificante per il Paese questa iniziativa promossa da AIFA, coerente con un approccio rigoroso di ricerca clinica relativamente a questa opzione terapeutica”, afferma il Presidente della Commissione che ha valutato i progetti, Franco Locatelli.
Titoli e Responsabili scientifici degli studi risultati vincitori
Titolo |
Responsabile scientifico |
Studio clinico adattativo, randomizzato, controllato con placebo, sull’uso di anticorpi monoclonali nei pazienti affetti da forma lieve-moderata di COvid-19 (MANTICO) |
TACCONELLI Evelina |
A phase 3, multicentre, double-blinded, randomized controlled study to compare the efficacy and safety of Casirivimab and Imdevimab or Bamlanivimab and Etesevimab versus placebo in preventing clinical worsening in COVID-19 home patients at high risk of hospitalization |
MARIETTA Marco |
A Phase III Randomized, Open-label, Multicenter Study to Determine the Safety and Efficacy of different MONoclonal Antibodies (MoAbs) to SARS-CoV-2 for the Early Treatment of COVID-19 in Non-hospitalized Adults (MONET Study) |
ANTINORI Andrea |
AntiCov: Studio clinico di fase III, multicentrico, controllato, randomizzato, a gruppi paralleli volto a valutare l’efficacia degli anticorpi monoclonali contro lo standard of care per il trattamento del COVID-19 in fase precoce |
RICHELDI Luca |
Dopo la pandemia da Covid 19 gli obesi sono più consapevoli di soffrire di una vera e propria patologia e dei rischi a cui vanno incontro. Lo dicono i dati: in Poliambulanza si è attestato, nel primo quadrimestre del 2021, un incremento del 157% delle visite ambulatoriali per i cittadini in eccesso ponderale, rispetto al corrispettivo quadrimestre del 2019.
Numeri importanti interpretabili anche alla luce della scoperta correlazione tra obesità e peggiore decorso dell’infezione da Coronavirus. Un’evidenza che ha invitato coloro che oltrepassavano il proprio peso forma a maggiore cautela e a prendere le necessarie misure per correggere la loro condizione.
Confermano la relazione Covid-obesità anche i risultati di uno studio prospettico osservazionale pubblicato in aprile sulla prestigiosa rivista americana Mayo Clinic, condotto su una popolazione di pazienti della provincia di Bergamo, che vede tra i suoi estensori Carlo Lombardi, Responsabile dell’Unità Allergologia, Immunologia e Malattie Respiratorie di Fondazione Poliambulanza e membro del CD della Società di Allergologia e Pneumologia. I partecipanti alla ricerca, 338 adulti con polmonite da Covid, stratificati in base all’indice di massa corporea (BMI) in normopeso, sovrappeso e obesi, sono stati osservati nel periodo che va dal primo marzo 2020 al 20 aprile 2020. Dallo studio, è emerso che i pazienti in sovrappeso e obesi presentavano un decorso della malattia più severo, con un aumento del rischio di ospedalizzazione e di morte. Se da un lato il Covid ha portato ad esiti drammatici e irreversibili, dall’altro ha accesso i riflettori sull’obesità come un grave problema di salute e non solo estetico.
“L’obesità non è un ‘inestetismo’ fisico – spiega Francesco Greco, Responsabile dell’Unità Chirurgica Cura dell’Obesità e Malattie Metaboliche di Fondazione Poliambulanza -. Si tratta di una vera e propria patologia, che predispone a tutta una serie di gravi malattie, da quelle oncologiche, a quelle neurodegenerative, al diabete, fino alla depressione. È per questo che non va sottovalutata, tanto più in un periodo in cui le condizioni di stress, dovute a pandemia e lockdown prolungati, hanno determinato abitudini alimentari scorrette e riduzione dell’attività fisica. Si è venuto così a configurare un quadro in peggioramento per coloro già in precedenza in eccesso ponderale”. Nessun allarmismo, però, poiché, come per tutte le altre patologie, anche per l’obesità c’è una cura.
“Quando il paziente presenta una condizione a cui non è possibile rimediare con la sola modifica del regime dietetico e dello stile di vita è indicato l’intervento – continua il dr. Greco -. In caso di grave obesità si ricorre alla chirurgia bariatrica. Tra le operazioni più richieste e di maggiore successo si individua il mini bypass gastrico: intervento realizzato con tecniche mininvasive, prevede di norma 36 ore di permanenza in ospedale”. La chirurgia bariatrica è anche detta chirurgia metabolica perché è rivolta non solo ai grandi obesi ma anche a pazienti con obesità di grado inferiore e patologie quali diabete mellito, dislipidemia, ipercolesterolemia non controllati in maniera ottimale dalla terapia medica. Rispetto alla terapia tradizionale, l’intervento di chirurgia metabolica è in grado di controllare più efficacemente il livello glicemico, prevenendo i danni d’organo che evolvono verso l’insufficienza renale, la retinopatia, la microangiopatia, la neuropatia e l’infarto del miocardio”.
Agli interventi chirurgici si affiancano altre tecniche come il palloncino intragastrico di nuova generazione, metodica ambulatoriale che permette l’inserimento del dispositivo senza gastroscopia e senza anestesia.
Nel caso in cui diete ed esercizio fisico non siano sufficienti e per pazienti che manifestino altre patologie concomitanti, lo specialista può intervenire prescrivendo nuovi farmaci, come gli analoghi del GLP-1, un ormone “anti-fame” normalmente prodotto dal nostro organismo.
“In Fondazione Poliambulanza è possibile avere accesso a differenti metodiche, ‘confezionando’ un percorso individuale in base alle esigenze personali del singolo paziente, sotto la guida di un team interdisciplinare di esperti” – conclude Mohammad Abu Hilal, Direttore del dipartimento di Chirurgia Generale e Responsabile dell’Unità Epatobiliopancreatica, Robotica e Mininvasiva di Fondazione Poliambulanza.
Un nuovo studio mostra che i farmaci antitumorali in grado di indebolire le difese immunitarie non hanno maggiori probabilità di aumentare il rischio di infezione da Covid-19 o morte rispetto alle terapie contro il cancro al seno che non minano il sistema immunitario.
I ricercatori affermano che i risultati sfidano le preoccupazioni iniziali che tali trattamenti contro le cellule tumorali fossero troppo pericolosi da continuare durante la pandemia.
Guidata dai ricercatori della NYU Langone Health e del suo Perlmutter Cancer Center, la nuova indagine, che ha coinvolto oltre 3.000 donne trattate per il cancro al seno al culmine della pandemia a New York City, ha mostrato che solo il 64 (2%), ha contratto il virus. Di questo gruppo, 10 sono morte per COVID-19, un numero che secondo gli autori dello studio è basso e previsto per questo gruppo di età, indipendentemente dal cancro.
In particolare, coloro che ricevevano chemioterapia citotossica avevano circa lo stesso rischio di infezione da coronavirus di quelli che assumevano altre classi di farmaci con un impatto minimo sulle difese del sistema immunitario.
"I nostri risultati mostrano che i pazienti possono ricevere in sicurezza la terapia del cancro al seno, compresa la chemioterapia, durante la pandemia", afferma il dott. Douglas Marks, ricercatore capo dello studio e oncologo medico del Perlmutter Cancer Center.
"Fintantochè i pazienti continuano a prendere precauzioni ragionevoli come indossare mascherine e adottare il distanziamento fisico, dovrebbero sentirsi sicuri nel continuare il piano di trattamento che hanno scelto con i loro medici", afferma la dott.ssa Sylvia Adams, ricercatrice senior dello studio e oncologa medica.
Adams, professoressa presso il Dipartimento di Medicina della NYU Grossman School of Medicine, ritiene che il cancro al seno resti la principale causa di decessi per cancro tra le donne negli Stati Uniti e ne uccide circa 45.000 ogni anno.
All'inizio della pandemia di coronavirus nella primavera del 2020, la mancanza di informazioni sui fattori di rischio per l'infezione in questi pazienti ha portato a ritardi nel trattamento. Molti medici, affermano gli autori dello studio, erano particolarmente preoccupati nel somministrare regimi chemioterapici standard, rendendo potenzialmente i pazienti più vulnerabili al virus. Di conseguenza, alcune cure sono state ritardate o addirittura evitate.
Si ritiene che il nuovo studio, che sarà presentato online il 4 giugno all'incontro annuale dell'American Society of Clinical Oncology (ASCO), rappresenterà la prima grande indagine per valutare direttamente se le terapie per il cancro al seno influenzano il rischio di infezione da coronavirus e la morte.
Per l'indagine, i ricercatori dello studio hanno esaminato le cartelle cliniche dei pazienti con cancro al seno, trattate con chemioterapia o altre terapie farmacologiche da febbraio a maggio 2020 presso il Perlmutter Cancer Center di New York City e Long Island. I ricercatori hanno quindi analizzato le informazioni tra cui i risultati dei test COVID-19, l'estensione del cancro, la presenza di altre malattie e la sopravvivenza.
Tra i risultati dello studio, il rischio di infezione da coronavirus tra i pazienti con cancro al seno che hanno ricevuto la chemioterapia non era maggiore del rischio per coloro che hanno ricevuto trattamenti che non avrebbero dovuto ostacolare il loro sistema immunitario. Il trattamento, inoltre, non ha aumentato il rischio di morte per COVID-19.
Inoltre, lo studio ha mostrato che i pazienti anziani e in sovrappeso avevano un maggior rischio di morire per infezione da coronavirus, una scoperta in linea con la precedente ricerca sulla mortalità da COVID-19, secondo i ricercatori.
Adams, che ricopre anche la carica di direttore del Breast Cancer Center di Perlmutter, avverte che la pandemia di coronavirus si sta rapidamente evolvendo e che nei centri oncologici dovrebbero rimanere in vigore maggiori precauzioni contro le infezioni.
Marks, assistente professore presso il Dipartimento di Medicina presso la NYU Long Island School of Medicine, osserva, infine, che "non è chiaro se questi risultati resteranno validi nel caso di nuove varianti emergenti del coronavirus, che il team di ricerca deve ancora indagare". Marks è anche direttore medico dell'ufficio studi clinici sul cancro presso il NYU Langone Hospital - Long Island.
Tutte le persone in Svizzera dovranno avere accesso al certificato COVID. Grazie a questo attestato, rilasciato a chi è vaccinato, guarito o risultato negativo al test, saranno di nuovo possibili anche le grandi manifestazioni e potranno riaprire le strutture, in cui il rischio di infezione è più elevato, quali le discoteche o i club.
Il certificato sarà probabilmente richiesto anche per i viaggi internazionali. Nella sua seduta del 19 maggio, il Consiglio federale ha discusso dell’impiego del certificato e definito la linea delle proposte che sottoporrà ai Cantoni, alle parti sociali e alle commissioni parlamentari. Il certificato non sarà impiegato in luoghi della vita quotidiana, quali i trasporti pubblici, la scuola, i negozi o il posto di lavoro. Il suo impiego non è previsto, ma possibile, nei ristoranti, nelle sale cinematografiche o a manifestazioni con meno di 1.000 persone.
I provvedimenti adottati per contrastare la propagazione del coronavirus limitano in parte fortemente le libertà individuali. Il certificato COVID permetterà di svolgere nuovamente determinate attività durante un periodo di transizione. Grazie a questo attestato qualsiasi persona potrà provare di essere immune al virus (perché vaccinata o guarita) o che la probabilità che sia contagiosa è molto bassa (perché risultata negativa a un test effettuato di recente). Anche chi non può o non vuole farsi vaccinare avrà la possibilità di ottenere un certificato sottoponendosi a un test per il coronavirus. I test fai da te non sono sufficienti, per ottenere un certificato, perché non sono abbastanza precisi. Ai bambini e agli adolescenti fino a 16 anni sarà accordato un accesso generale senza certificato COVID.
Il Consiglio federale intende impiegare il certificato soltanto per il tempo necessario. L'obiettivo è di ridurre gradualmente, fino ad abrogarle del tutto, le prescrizioni per i piani di protezione seguendo il modello a tre fasi.
Per l’impiego del certificato il Consiglio federale distingue tre settori:
Settore verde: impiego del certificato escluso
Il primo settore - quello verde - comprende i luoghi della vita quotidiana e i contatti con le autorità. Qui il certificato è esplicitamente escluso poiché sono in gioco compiti dello Stato o libertà e diritti fondamentali. In questo settore rientrano per esempio le manifestazioni private e religiose, i trasporti pubblici, i negozi, il posto di lavoro e la scuola.
Settore arancione: l’impiego del certificato evita chiusure o è volontario
Il secondo settore - quello arancione - include i luoghi, che rientrano soltanto parzialmente nella vita quotidiana, ma che sono frequentati da un gran numero di persone. Quali esempi si possono citare i bar e i ristoranti, le manifestazioni, le strutture ricreative, sportive e per il tempo libero, le società sportive e culturali o le visite a ospedali e case di cura. Qui l’impiego del certificato non è previsto. Tuttavia, se la situazione epidemiologica dovesse peggiorare e vi fosse il rischio di un sovraccarico del sistema sanitario, l’accesso sarà limitato alle persone con un certificato COVID per evitare chiusure. Al momento, grazie all’andamento della campagna di vaccinazione, c’è motivo di credere che non sarà necessario.
In questo settore, in cui entrano in gioco rapporti legali tra privati, sarà tuttavia possibile impiegare il certificato su base volontaria fino a quando non potranno essere revocate le prescrizioni per i piani di protezione. Un ristorante, un cinema o un centro fitness potrà, per esempio, limitare l’accesso a persone con un certificato COVID, per rinunciare a piani di protezione, a limitazioni della capienza o all’obbligo della mascherina.
Settore rosso: l’impiego del certificato permette riaperture
Il terzo settore - quello rosso - include il traffico internazionale di passeggeri e i luoghi sensibili dal punto di vista epidemiologico, quali le grandi manifestazioni o le discoteche. Probabilmente molti Stati richiederanno un certificato COVID all’ingresso. Per le grandi manifestazioni così come per i club e le discoteche, l’impiego del certificato è previsto nella strategia di riapertura del Consiglio federale. Anche qui dovrà però essere limitato nel tempo. Per le grandi manifestazioni, il Consiglio federale prevede una riapertura con un aumento graduale del numero massimo di persone.
Attuazione del certificato
Il Consiglio federale ha concretizzato oggi l’impiego del certificato. I dettagli della sua attuazione e le pertinenti modifiche di ordinanza saranno posti in consultazione l’11 giugno. Una decisione dovrebbe essere presa il 18 giugno. È previsto che i primi certificati saranno rilasciati gradualmente a partire dal 7 giugno. L’attestato sarà messo a disposizione della popolazione al più tardi alla fine di giugno, quando primi provvedimenti saranno associati al suo impiego.
L’Ufficio federale dell’informatica e della telecomunicazione sta lavorando per realizzare un attestato compatibile con l’UE, sicuro e il più semplice possibile. I lavori procedono secondo i piani. Il codice sorgente sarà reso pubblico. Con il certificato, il Consiglio federale attua un mandato del Parlamento, che nella scorsa sessione primaverile aveva inserito una nuova disposizione nella legge COVID-19 (art. 6a).
Arriva il 'bollino' europeo per il turismo sicuro in tempo di coronavirus. Gli Stati membri, informa la Commissione, potranno attribuire il nuovo marchio di sicurezza alle strutture turistiche, che rispettano il protocollo sulla salute e la sicurezza dell'Iso (International Organization for Standardization, Organizzazione internazionale per la normazione).
Sia il protocollo che il bollino sono volontari, non obbligatori. La misura, facoltativa, dovrebbe contribuire a facilitare la riapertura in sicurezza del turismo in tempo per la stagione estiva, migliorando la reputazione dell'Ue come destinazione turistica, anche durante la pandemia di Covid-19.
Per il commissario al Mercato Interno Thierry Breton, "il marchio di sicurezza Covid aiuterà le imprese turistiche ad avere procedure di sicurezza prima della stagione estiva, aumentando così la fiducia dei viaggiatori, dei residenti e dei lavoratori delle strutture turistiche".