• Sab. Nov 23rd, 2024

Non siamo ancora al biohacking, ma le nuove tecniche di medicina rigenerativa secondo gli esperti rappresentano il futuro della medicina estetica e di tutta la medicina in generale.

Quello della medicina rigenerativa però è un capitolo innovativo, un continuo work in progress, da ‘maneggiare con attenzione’ e da imparare ad utilizzare con le giuste indicazioni per ogni età. Queste nuove procedure utilizzano le cellule stesse del paziente (o componenti cellulari) per riparare danni e per favorire processi di guarigione, nel caso di cartilagini usurate o di ferite che non rimarginano. Ma anche per prevenire e correggere l’invecchiamento cutaneo, che è proprio l’ambito della medicina estetica. Procedure che, se ben eseguite, danno grandi risultati al costo di trascurabili effetti collaterali, perché si tratta di trattamenti ‘autologhi’, che utilizzano cioè ‘materiali’ prelevati e reiniettati nello stesso paziente: normalmente questa sorta di ‘auto-trapianto’ non può dar luogo a reazioni di rigetto.

“In buone mani e se ben eseguita – commenta il professor Emanuele Bartoletti, presidente della Società Italiana di Medicina Estetica SIME, in occasione del Congresso che è appena concluso a Roma – quello della medicina estetica rigenerativa è un ambito molto sicuro e virtualmente privo di effetti indesiderati. A patto però di rispettare delle regole ferree, in primis quelle delle buone pratiche cliniche nella manipolazione di questi componenti, nell’utilizzo di strumentazioni adeguate e della massima igiene. È inoltre necessaria un’accurata selezione dei pazienti, perché le terapie in medicina estetica, e la medicina rigenerativa non fa eccezione alla regola, vanno sempre personalizzate, in base all’età, alle indicazioni del singolo paziente e alle sue aspettative. Nel nostro campo non esistono terapie ‘one size fits all’, cioè a ‘taglia unica’. Siamo gli antesignani della medicina personalizzata”.

Tra le varie procedure di medicina rigenerativa che trovano applicazione in medicina estetica sono ormai consolidati nell’uso e in grande espansione l’utilizzo del plasma arricchito in piastrine (PRP), al quale si è aggiunto più di recente il plasma ricco di fibrina (PRF), un’evoluzione e la next generation rispetto al PRP; ben collaudate anche le cellule staminali derivate dal tessuto adiposo. In questo campo le new entry sono rappresentate dall’impiego di polinucleotidi e di esosomi, promettenti ma ancora al vaglio della scienza.

PRP. “La procedura di trattamento con PRP – spiega il professor Bartoletti – inizia con un prelievo di sangue del paziente che viene raccolto in provette speciali autorizzate alla successiva reiniezione degli emocomponenti, che si otterranno con la centrifugazione del sangue intero. Il medico dovrebbe addirittura consegnare al paziente gli sticker, le etichette che, indicando il numero di lotto, la scadenza e altre informazioni, contraddistinguono queste provette speciali utilizzate per fare il PRP; ed è un dettaglio importante che tutti i pazienti dovrebbero conoscere.

Il sangue prelevato dal paziente – prosegue il professor Bartoletti – viene dunque centrifugato ad alta velocità per separare i diversi componenti del sangue; per il trattamento si utilizza solo la frazione PRP, contenente plasma ‘arricchito’ con piastrine (perché la centrifugazione le concentra), che viene iniettata nella parte da trattare dello stesso paziente. Le piastrine sono cellule preziose perché svolgono tante funzioni; oltre a contribuire al controllo delle emorragie infatti, producono numerosi importanti fattori di crescita che stimolano i fibroblasti dermici a produrre collagene, acido ialuronico ed elastina mantenendo il derma idratato, strutturato ed elastico. Il PRP insomma promuove una stimolazione dei fibroblasti del derma a tutto tondo con un miglioramento del tono e della qualità cutanea e, grazie alla presenza di alcuni fattori di crescita, la formazione di nuovi vasi sanguigni assicurando una migliore ossigenazione del tessuto, cosa difficile da ottenere con qualsiasi altra procedura di medicina estetica. Attivando i fibroblasti inoltre, qualsiasi altra terapia effettuata in seguito, avrà un effetto migliore”. 

PRF: concettualmente è molto simile al PRP, “ma il preparato – spiega il professor Bartoletti – si ottiene con una modalità di centrifugazione diversa, che permette di selezionare insieme al plasma arricchito di piastrine anche un reticolo di fibrina, una matrice che rende questa frazione più densa e più durevole una volta iniettata, consentendo una prolungata liberazione dei fattori di crescita piastrinici nella zona trattata”. Trattandosi di procedure relativamente nuove, non esistono protocolli condivisi per la biostimolazione del viso (o di aree del corso) con PRP/PRF. “L’unico protocollo standardizzato disponibile al momento – ricorda il professor Bartoletti – è quello per il trattamento dell’alopecia androgenetica che prevede tre somministrazioni di PRP (iniezioni sul cuoi capelluto) a distanza di un mese una dall’altra, da ripetere eventualmente dopo un anno”. Fondamentale per ottenere i migliori risultati è importante una diagnosi accurata e la selezione dei pazienti.

“Su una paziente con fibroblasti invecchiati e un photoaging di terzo grado – spiega il professor Bartoletti – una stimolazione con le piastrine potrebbe non avere molto effetto. I risultati migliori del PRP/PRF si osservano nella fascia d’età di 35-55 anni. Per le pazienti con pelli più mature, meglio ricorrere al trapianto di grasso o di staminali da tessuto adiposo. Ricordo che queste terapie possono essere eseguite in studi medici autorizzati da un centro trasfusionale o in ospedale. Il Servizio Ambulatoriale di Medicina Estetica per il Benessere Psicofisico nella Patologia attivo all’Ospedale Isola Tiberina-Gemelli Isola fina dal 1994, che quest’anno ha compiuto 30 anni di attività, eroga questo tipo di terapia in collaborazione con il Centro trasfusionale per il trattamento oltre che dell’invecchiamento cutaneo, anche per l’alopecia, la ginecologia funzionale e le ulcere o le ferite che ritardano nella guarigione. Si tratta di un esempio di come la medicina estetica possa rientrare a pieno titolo nell’attività sociale di un Ospedale”.

Cellule staminali da tessuto adiposo. Il tessuto adiposo non è solo un ‘tessuto’, ma un ‘organo’ endocrino e contiene anche tante cellule staminali che, prelevate dal grasso e iniettate in altri tessuti possono trasformarsi in cellule ‘chiave’ per la rigenerazione. “Ad esempio, se iniettate nel derma – spiega il professor Bartoletti – possono trasformarsi in fibroblasti produttori di collagene, elastina e acido ialuronico, ma anche stimolare la neo-angiogenesi, cioè la formazione di nuovi vasi del microcircolo, che garantisce una miglior ossigenazione della cute”.  Le cellule staminali da tessuto adiposo vengono estratte attraverso una procedura chirurgica (è una sorta di lipoaspirazione con cannule particolari che prelevano solo una piccola parte di tessuto adiposo). L’aspirato viene poi lavorato e filtrato per estrarre le cellule staminali che vengono poi iniettate nel derma.

“Questa terapia trova indicazioni per la ricrescita dei capelli e per il ringiovanimento del volto, le stesse indicazioni del PRP/PRF. Anche in questo caso si tratta di un importante esempio di medicina rigenerativa, che si avvale di cellule dello stesso paziente (procedura autologa); poche dunque le possibili complicanze e gli effetti collaterali, anche se questa procedura è più invasiva rispetto al prelievo di sangue del PRP/PRF. A differenza del PRP/PRF, il trapianto di staminali da tessuto adiposo determina anche un piccolo ma immediato incremento di volume che ‘riempie’ il derma e migliora l’aspetto del volto. Sono disponibili dei kit che consentono di eseguire la procedura in ambulatorio medico (senza ricorrere alla sala operatoria)”.

Polinucleotidi. Sono sostanze estratte dalla trota salmonata, frammenti di DNA che svolgono una duplice funzione una volta iniettati nel derma: stimolare i fibroblasti a replicarsi e ad aumentare la produzione di collagene, elastina, acido ialuronico andando a stimolare alcuni recettori. Inoltre funzionano attivando le vie metaboliche cosiddette di ‘salvataggio’ nelle quali il DNA ricicla i suoi pezzi per ripararsi e quindi ottimizzano l’attività cellulare. “Questo trattamento è indicato in pazienti giovani fino ai 40-45 anni e con un photoaging fino al II livello. Vanno iniettati nel derma, per questo la procedura può risultare fastidiosa e abbastanza dolorosa (ma si può abbinare a una crema anestetica o anestetico topico). Provocano la formazione di piccoli pomfi sulle zone trattate che scompaiono nell’arco di 24 ore”.

Esosomi: Sono dei ‘biocosmetici’ al centro dell’attenzione al momento, ma gli esperti consigliano prudenza. “Gli esosomi – spiega il professor Bartoletti – sono sostanze che le cellule secernono per comunicare e indurre cambiamenti e azioni su altre cellule. Le cellule senescenti, ‘in pensione’ ad esempio, pur non replicandosi più, continuano a produrre questi esosomi che istruiscono i globuli bianchi a rimuoverle o inducono senescenza in altre cellule raggiunte dai loro messaggi. Anche se di tendenza e di moda insomma, non tutto quello che è esosoma è ‘buono’. Si tratta di terapie ancora sperimentali, emergenti, che andrebbero capite meglio prima di adottarle nella pratica clinica. Per ora l’impiego è topico (sieri, ecc), ma alcune aziende ne stanno studiando anche formulazioni iniettive o da utilizzare con il needling. Il che potrebbe rivelarsi pericoloso, quindi raccomandiamo prudenza”.

“Gli esosomi sono nanoparticelle rilasciate da tutte le cellule, sia umane, che animali, che vegetali – spiega la professoressa Laura Mazzucco, biologa e responsabile dell’Emoteca del Centro Trasfusionale dell’AOU di Alessandria – Scoperte nel 1983, sono state inizialmente ritenute sostanze di rifiuto delle cellule; poi si è visto che contengono biomolecole, che fungono da veri e propri messaggeri, da ‘shuttle’ di comunicazione, segnali in forma semi-solida che si scambiano le cellule, vicine e lontane, per comunicare di fare qualcosa. Sappiamo però che possono trasmettere anche segnali ‘cattivi’ come nel caso delle piastrine nei pazienti oncologici. Gli esosomi sono come delle microvescicole, dei sacchetti che contengono particelle provenienti dal reticolo endoplasmatico. Una sorta di sacchetti di palline che, uscendo dalla cellula si aprono, rilasciando i loro segnali, che possono essere di crescita, ma non solo. Possono ‘dire’ ai fibroblasti di fare o non fare una cicatrice ad esempio. Riteniamo che i tempi non siano ancora maturi per discernere e selezionare con certezza i messaggi ‘buoni’ da quelli ‘cattivi’ e non sappiamo neppure in quale quantità vadano utilizzati. Di certo, alcuni esosomi sono contenuti anche nel PRP ma al momento non è possibile isolarli, se non con procedure industriali che richiedono ultracentrifugazioni e microfiltrazioni”.

“Siamo insomma ancora agli albori in questo campo – conclude il professor Bartoletti – e gli esosomi, per quanto promettenti, vanno considerati terapie emergenti. Quelli vegetali sono attualmente quelli più spinti dal marketing. Per quelli umani (le fonti sono piastrine e sangue cordonale) non ci sono ancora posizioni regolatorie nette, né percorsi definitivi”.

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