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Spesso è addirittura asintomatica. In alcuni casi il paziente lamenta stanchezza, un po’ di inappetenza, dolori muscolari e articolari, qualche linea di febbre. E la bilancia gli (o le) dice che è dimagrito. E’ capitato a tutti.
La prima cosa a cui si pensa è l’influenza. O si da la colpa all’età. Non certo alla mielofibrosi, un raro tumore del sangue che in Italia colpisce 350 persone all’anno con un’incidenza maggiore tra i 60 e i 70 anni: solo nel 15% ne ha meno di 55. “Il primo bisogno per i pazienti con malattie mieloproliferative è quello di avere un farmaco risolutivo che guarisca. Questo è sicuramente un bisogno ancora non soddisfatto, perché la malattia è molto complessa, ma rispetto al passato la ricerca è attiva e vitale. Ciò ha consentito di migliorare molto la qualità della vita dei pazienti e, con questi nuovi farmaci, di ricorrere meno alle cure ospedaliere”, – afferma Antonella Barone, presidente Aipamm, Associazione italiana pazienti con malattie mieloproliferative, partecipando a un incontro con la stampa, organizzato a Milano da Gsk, in occasione del via libera di Aifa alla rimborsabilità di momelotinib. C’è quindi ora la disponibilità di una nuova terapia, che riapre di fatto la partita con la malattia.
Momelotinib, un inibitore orale di JAK1/JAK2 e del recettore dell’activina A di tipo 1 (ACVR1), il primo medicinale autorizzato “per il trattamento della splenomegalia o dei sintomi correlati alla malattia in pazienti adulti con anemia da moderata a severa che sono affetti da mielofibrosi primaria, mielofibrosi post policitemia vera o mielofibrosi post trombocitemia essenziale e che sono naïve agli inibitori della chinasi Janus (JAK) o già trattati con ruxolitinib”, come recita il parere positivo degli enti regolatori. Da quando ha ripreso il proprio percorso in onco ematologia, GSK ha focalizzato attenzione, cervelli e risorse su tumori che ad oggi non hanno o hanno pochissime soluzioni terapeutiche. L’impegno della nostra ricerca è per questi pazienti. E momelotinib è una prima risposta, in attesa di altre, anche a breve. Torniamo alla mielofibrosi.
Cosa la provoca e perché ci si ammala è un po’ complicato da spiegare. Di mezzo ci sono i geni e alcune loro mutazioni. Tre in particolare. La principale, che accomuna oltre la metà dei pazienti, è la mutazione V617F di JAK2, un gene importante per il controllo della produzione delle cellule del sangue, che, se mutato, risulta associato a una loro proliferazione incontrollata. La seconda per frequanza è quella del gene CALR, presente nel 25-35% dei casi e alla base della produzione di una proteina, la calreticulina, coinvolta nella regolazione di processi come la proliferazione, la crescita, la migrazione e la morte cellulare. L’ultima mutazione è nel gene MPL, coinvolto invece nella produzione di piastrine, riscontrata nel 3-5% dei pazienti. In buona sostanza, la mielofibrosi determina la graduale comparsa nel midollo osseo di un tessuto fibroso che ne sovverte la struttura. In questo modo ne viene modificata la funzionalità, con la conseguente alterazione della produzione delle cellule del sangue.
Quando la malattia si manifesta in maniera isolata si parla di mielofibrosi primaria (idiopatica); quando rappresenta la conseguenza di altre neoplasie mieloproliferative, come policitemia vera e trombocitemia essenziale, si parla di mielofibrosi secondaria. La mielofibrosi può peggiorare più o meno lentamente nell’arco di diversi anni, con modalità variabili a seconda del paziente. In genere la fase iniziale consiste in un danno alla struttura del midollo osseo.
E’ la fase precoce, o pre-fibrotica, perché non è presente ancora la fibrosi del midollo osseo. Nella fase avanzata compare la fibrosi midollare e si evidenzia una fuoriuscita di cellule staminali immature dal midollo osseo. Queste, attraverso il sangue, raggiungono la milza e il fegato, dove si accumulano. Solitamente, quando la malattia si manifesta, sono già presenti le alterazioni tipiche: oltre alla fibrosi, tra le altre, l’anemia e l’ingrossamento della milza. In alcuni casi (10-15 su 100) la mielofibrosi può evolvere in una patologia più severa: la leucemia mieloide acuta. La quotidianità del paziente non è delle più semplici. Negli stadi più avanzati, la mielofibrosi ha un forte impatto sulla qualità di vita.
La situazione complessiva può essere aggravata dal fatto che colpisce per lo più gli anziani, persone fragili, che assumono farmaci per altri disturbi cronici e che, rispetto alla popolazione generale, hanno un rischio maggiore di malattie a carico del cuore e dei vasi sanguigni. Circa il 40% dei pazienti presenta un’anemia da moderata a grave già al momento della diagnosi, ma si stima che quasi tutti ne andranno incontro nel corso del tempo. Questa condizione richiede cure di supporto aggiuntive, in primis le trasfusioni. E, purtroppo, i pazienti che dipendono dalle trasfusioni hanno una prognosi sfavorevole e una sopravvivenza ridotta.
Nei casi in cui si riscontri una profonda astenia e o una splenomegalia massiva, la mielofibrosi può impedire di compiere una serie di attività “normali”: camminare, salire le scale, rifare il letto, fare la doccia, cucinare. “Momelotinib è il terzo Jak inibitore che abbiamo a disposizione da poco in Italia e rappresenta un importante passo avanti. E’ una molecola che ha una doppia attività inibitoria nei confronti di Jak e di un recettore dell’attivina -spiega il prof. Direttore della SOD Ematologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi e Ordinario di Ematologia, Università di Firenze.- Migliora la capacità del midollo di produrre globuli rossi influenzando un’altra via di segnalazione intracellulare, che è la via delle proteine Smad. Quindi, mantenendo la sua efficacia nei confronti dell’ingrossamento della milza, chiamato splenomegalia, e della sintomatologia sistemica, è efficace nei pazienti anemici, ma soprattutto ha anche minor tossicità sulla produzione di globuli rossi da parte del midollo rispetto agli altri Jak inibitori”.
Le terapie
L’unica ad oggi potenzialmente in grado di guarire è il trapianto di midollo, ma è riservato a una piccola percentuale di pazienti, in genere sotto i 70 anni, per via della complessità e dei rischi ad esso associati. Momelotinib rientra nella famiglia dei JAK inibitori e negli studi che hanno portato alla sua approvazione ha dimostrato, rispetto agli altri già utilizzati, di ridurre i sintomi, la splenomegalia e di avere un impatto favorevole sull’anemia, riducendo il carico trasfusionale.
“L’efficacia del Jak inibitore momelotinib è stata analizzata in 3 importanti studi. Simplify 1, che ha preso in considerazione pazienti-Jak inibitori naive e randomizzava momelotinib versus ruxolitinib, ha dimostrato che momelotinib è più efficace nel migliorare i livelli di emoglobina- illustra il prof. Francesco Passamonti, Direttore di Struttura Complessa – Dipartimento di Oncologia e Onco-Ematologia – Ordinario di Ematologia, Università degli Studi di Milano.- Lo studio Simplify 2, invece, con pazienti che avevano già ricevuto Jak inibitori e randomizzava momelotinib con il miglior trattamento disponibile a quei tempi, ha dimostrato l’efficacia di momelotinib nel controllo della splenomegalia e dei sintomi e anche un miglioramento dell’emoglobina. Il terzo studio- aggiunge l’esperto- è il Momentum, che randomizzava pazienti che avevano ricevuto ruxolitinib ed erano anemici a ricevere momelotinib versus danazolo, una terapia ormonale androgenica che utilizziamo oggi per il controllo dell’emoglobina. Questo studio ci ha consentito di ottenere un rate di indipendenza a 24 settimane del 30% rispetto al meno del 20% con la terapia standard. Globalmente, quindi, l’efficacia nel rispetto della milza, del sintomo e dell’emoglobina è stata documentata in questi 3 studi”.
“Controllare aspetti come l’anemia – continua Rosati – significa dare la possibilità al paziente di riprendersi in mano la vita, di poter fare la maggior parte delle sue attività quotidiane, se non tutte, di dipendere meno dal supporto del caregiver e di potersi godere di più gli affetti che lo circondano. Gsk a livello globale ha rinnovato il suo impegno in oncoematologia, sia con una ricerca propria che con il supporto alla ricerca indipendente, con delle acquisizioni, nel 2018-19, con un impegno che va sia nei tumori solidi, quella che definiamo oncologia solida, che nei tumori ematologici -conclude Maria Sofia Rosati, direttore medico Oncoematologia di Gsk- In particolare per questi ultimi il focus fondamentale è stato sul mieloma multiplo, in cui ha sviluppato un prodotto nato proprio in seno alla ricerca di Gsk e momelotinib, un farmaco per i pazienti con mielofibrosi che arriva da un’acquisizione che Gsk ha fatto nel 2020”.