Potrebbe sembrare una specialità un po’ vintage ma, al contrario, la medicina interna ha tutti i numeri per affermarsi come una delle più importanti branche della medicina del terzo millennio, grazie alla sua visione ‘olistica’ della persona-paziente, che può ricomporre la frammentarietà di un’assistenza sanitaria sempre più parcellizzata e iper-specialistica.
E il professor Nicola Montano, presidente eletto della Società Italiana di Medicina Interna (SIMI), spiega perché la medicina interna si candida a divenire la specialità medica più importante del futuro, in una recente pubblicazione su European Journal of Internal Medicine.
I sistemi sanitari dei Paesi industrializzati sono chiamati sempre più spesso ad affrontare situazioni molto sfidanti, che derivano da fattori demografici (invecchiamento della popolazione), epidemiologici (aumento delle patologie croniche e della multi-morbilità , cioè di più patologie complesse nello stesso paziente), economici, sociali e tecnologici. Il tutto con sullo sfondo preoccupazioni crescenti di sostenibilità economica e di poter continuare a garantire a tutti un accesso equo ai progressi medici e tecnologici, quello tipico dei sistemi sanitari di stampo universalistico.
La medicina interna, fin dalla sua nascita, avvenuta in Europa e Nord America nel XIX secolo, è stata da sempre la specialità ospedaliera per eccellenza, poiché offre una visione globale e olistica, centrata sul paziente e non sulla malattia. Come prima specialità clinica basata sulla scienza, ha inoltre definito i tre pilastri fondamentali della medicina moderna: pratica clinica, ricerca, educazione medica.
Gli attuali modelli sanitari, basati su cure mediche specialistiche, portano a un’assistenza frammentata che può risultare dannosa per il paziente, oltre che poco efficiente, perché porta spesso ad una richiesta di prestazioni medico-diagnostiche ridondanti e di scarso valore, ad un eccesso di diagnosi e dunque di trattamenti. L’iperspecializzazione dell’assistenza è d’altronde destinata ad aumentare, visto che il volume delle conoscenze mediche raddoppia ogni due mesi e che oltre il 40% delle conoscenze attuali è destinato a diventare obsoleto entro i prossimi 5 anni. Ma proprio in virtù della loro visione olistica-omnicomprensiva dello stato clinico della persona-paziente, gli internisti dovrebbero essere i ‘registi’ della gestione dei pazienti complessi o ancora in cerca di diagnosi, ricoverati in ospedale.
E in quanto ‘hospitalists’ dovrebbero dunque rivestire un ruolo chiave nella gestione dei pazienti acuti ricoverati per patologie mediche o chirurgiche e nel mettere a punto modelli di cura condivisi all’interno di team multidisciplinari. Non è dunque un caso che gli internisti siano sempre stati ‘in trincea’, in occasione di gravi crisi sanitarie, anche molto recenti, come quella del Covid-19. Al fine di garantire la continuità delle cure ai pazienti cronici, gli internisti devono costruire solide relazioni con le cure primarie e con l’assistenza infermieristica territoriale, partecipando alla messa a punto di nuovi modelli di assistenza extraospedaliera, che si avvalgano anche di moderne risorse tecnologiche.
Anche a livello di formazione universitaria, all’interno del corso di laurea e nella formazione post-laurea, la medicina interna dovrebbe assumere un ruolo di primo piano, promuovendo la vision della gestione olistica dei pazienti tra gli studenti di medicina e gli specializzandi nelle sotto-specialità mediche. Queste riflessioni, ampiamente condivise da tutti gli internisti, dovrebbero essere trasmesse anche ai cittadini e ai decisori politici.