Le cellule biologiche possono essere modificate per comportarsi come microlenti ottiche, piccole strutture che funzionano come lenti tradizionali ma fatte di materiali biologici. Proprio come una goccia d’acqua su una superficie agisce come una lente di ingrandimento, focalizzando i raggi luminosi, così fanno le cellule modificate in microlenti. Studiando il loro comportamento ottico, in futuro queste cellule potrebbero essere utilizzate per diagnosi mediche basate sulle loro proprietà di focalizzazione della luce. È quanto emerge da una ricerca dell’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti del Consiglio nazionale delle ricerche di Pozzuoli (Cnr-Isasi), in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e l’Università degli Studi di Napoli Federico II (UniNa). La scoperta apre nuove prospettive per la ricerca scientifica e potrebbe rivoluzionare il campo della diagnostica medica.
Lo studio si concentra sull’uso delle cellule di lievito di birra come lenti ottiche biologiche. Queste cellule possiedono proprietà che permettono di modificare rapidamente i loro vacuoli intracellulari, piccole sacche fondamentali per il funzionamento e la salute delle cellule. Sfruttando queste proprietà, i ricercatori hanno trasformato un vacuolo di una cellula di lievito in una microlente. Le lenti di ingrandimento tradizionali raccolgono i raggi luminosi provenienti da un oggetto e li focalizzano in un punto preciso, permettendo una visione dettagliata e ingrandita. Questo è possibile grazie alla capacità delle lenti di deviare i raggi luminosi. Tuttavia, i vacuoli modificati nelle cellule di lievito si comportano in modo diverso: anziché concentrare la luce in un punto (focalizzazione convergente), disperdono la luce (focalizzazione divergente). Questo risultato è significativo perché arricchisce la comprensione di come la luce interagisce con le strutture biologiche e potrebbe portare allo sviluppo di dispositivi biofotonici innovativi, strumenti che utilizzano la luce (fotoni) per studiare, diagnosticare o trattare fenomeni biologici e medici.
Lo studio è uno dei primi risultati del progetto “Luna” (Label-free cytoplasmic vacUoles pheNotyping plAykit), condotto da Cnr-Isasi e Università di Napoli (responsabile scientifico Vittorio Banco di Cnr-Isasi, responsabile di unità del progetto Massimo d’Agostino dell’Università di Napoli) nell’ambito del programma PRIN 2022, finanziato dall’Unione Europea– Next Generation EU. “Studiare come i vacuoli delle cellule rispondono alla luce è utile per capire meglio le cellule nel sangue e in altri fluidi del corpo. Questo potrebbe aiutare a migliorare le diagnosi mediche e rendere più facile individuare malattie o problemi nel corpo in modo veloce e meno invasivo,” spiega Vittorio Bianco (Cnr-Isasi). Lo studio del comportamento della luce nei vacuoli intracellulari può essere utile per individuare rapidamente varie malattie, come quelle da accumulo lisosomiale, il cancro e anche infezioni virali, tra cui il Covid-19 causato dal virus Sars-CoV-2. “La piattaforma che stiamo sviluppando aiuterà a identificare queste malattie in modo più efficiente. Inoltre, questa piattaforma sarà utilizzata per testare quanto sono efficaci i farmaci nel rimuovere o ridurre i vacuoli presenti nelle cellule malate”, aggiunge Daniele Pirone, ricercatore presso Cnr-Isasi e primo autore dell’articolo.
Secondo i ricercatori, lo studio offre molteplici applicazioni pratiche in vari settori. “Questa tecnologia innovativa potrebbe migliorare le tecniche di imaging esistenti attraverso la creazione di circuiti ottici biocompatibili per i computer del futuro. Inoltre, poiché una lente così piccola ha dimensioni comparabili a molte strutture intracellulari, potrebbe migliorare notevolmente le capacità risolutive della microscopia ottica e permetterebbe di osservare e misurare con maggiore dettaglio le strutture all’interno delle cellule. In pratica, questo porterebbe a metodi più precisi e dettagliati per identificare e studiare malattie.”, afferma Pietro Ferraro, dirigente di ricerca presso Cnr-Isasi di Pozzuoli e coordinatore del gruppo di ricerca. “Proprio le simulazioni numeriche realizzate dai ricercatori INAF consentiranno di predire in futuro tali identificazioni dal punto di vista ottico” conclude Matteo Lombini, ricercatore presso Inaf.
Giulia Bondolfi