Da un progetto della società napoletana Knowledge for Business e TecUp, sviluppato in questi anni in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli Federico II, il possibile cibo del futuro. Lo studio intende utilizzare il biofilm di nano-cellulosa batterica estratto dal kombucha, un tè fermentato di antica origine cinese, per creare non solo alimenti ma anche nuovi materiali che potrebbero risultare utili anche nei viaggi spaziali.
Il percorso di ricerca, sviluppato nel laboratorio Biologic di Villa Literno, nel Casertano, attinge alla tradizione per proiettarsi verso il futuro, per un ambito che “unisce innovazione, ambiente, alimentazione e che – spiega una nota KforB – permette di affrontare tematiche come il recupero e risparmio dell’acqua, la salvaguardia della salute sulla terra e la corretta alimentazione che riguarda gli abitanti del pianeta, ma anche gli astronauti che vivono in condizioni estreme”.
“Il biofilm di nano-cellulosa batterica è una sostanza prodotta durante il processo di fermentazione del kombucha, noto per le sue proprietà meccaniche e barriera eccezionali. La sua capacità di formare strutture solide e flessibili lo rende un materiale promettente per diverse applicazioni, compresa quella alimentare”, precisa Concetta Pironti di TecUp, secondo cui “il potenziale di questo biofilm come materia prima per la produzione di una gamma di prodotti alimentari è illimitato. Anche al di fuori del nostro pianeta”. Le prime missioni spaziali, infatti, rivelarono il problema della digestione in condizioni di microgravità, molto diversa da quella sulla Terra. Dagli anni Sessanta la Nasa ha intrapreso uno sforzo straordinario per sviluppare una dieta ipocalorica speciale che potesse garantire la salute degli astronauti nello spazio. Da qui l’utilizzo del kombucha, le cui proprietà benefiche erano note fin dai tempi dei Samurai. “Un prodotto di grande interesse per le agenzie spaziali sia come bevanda nutriente dalle proprietà alimentari, sia per la capacità dei microorganismi presenti all’interno della miscela in grado di produrre ossigeno. Questa capacità – ancora Pironti – darebbe la possibilità agli astronauti di utilizzare un’altra fonte di ossigeno durante le loro missioni”.
Un recente studio dell’Agenzia spaziale europea-Esa ha inoltre dimostrato che i microrganismi presenti nel kombucha sono resistenti all’ambiente spaziale, poiché si proteggono dai raggi cosmici creando un biofilm e, molto probabilmente, sopravviverebbero a un lungo viaggio non protetto nello spazio. Le sperimentazioni condotte sulla Terra hanno permesso anche di dimostrare che i batteri ed i lieviti presenti nel kombucha sono particolarmente resistenti a diverse condizioni ambientali, infatti quando vengono sottoposti a condizioni difficili per la loro sopravvivenza, sono in grado di proteggersi creando un biofilm protettivo.
“I batteri del kombucha – conclude Pironti – sono stati esposti alle radiazioni cosmiche dello spazio, senza protezione, per circa 18 mesi e il risultato è stato piuttosto interessante: gli organismi ripristinano il loro dna e la divisione cellulare anche dopo essere stati danneggiati dalle radiazioni cosmiche”.